FENOMENI - Fra ambiente e politica: le calamità nell’Italia liberale

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Fra ambiente e politica: le calamità nell’Italia liberale

Un territorio a rischio

In età liberale l’Italia fu funestata da molte calamità. In parte esse si legavano a un paese ad alto rischio sismico, con diversi vul­cani attivi (l’Etna, il Vesuvio) ed estese zone paludose (la Maremma, l’Agro romano-pontino, la Sar­degna, il Pavese) o soggette ad alluvioni (Pianura Padana, Veneto).

In parte esse erano però conseguenza di povertà e arretratezza. Nelle città, le abitazioni fatiscenti, il sovraffollamento, la sot­toalimentazione e la sporcizia producevano roghi, crolli e periodiche epidemie di tifo e colera (nove solo a Napoli fra il 1835 e il 1884). In campagna gli indiscriminati disboscamenti e le deviazioni di corsi d’acqua a fini agricoli modificavano quadri idrogeologici già a rischio, favorendo frane e inondazioni. Ciò mentre la stretta convivenza con gli animali, la ritrosia alla medicalizzazione e la fatalistica rassegnazione alla prov­videnziale volontà divina ren­devano ancor più devastanti pandemie e malattie endemiche come la malaria, che faceva 2 milioni di ammalati e oltre 20 000 morti all’anno.

Benché incidessero in realtà poco sulla mortalità, più clamore destavano i sismi, in particolare quelli più devastanti: il terremoto di Casamicciola del 1883 (2313 vittime fra cui la famiglia del fu­turo filosofo Benedetto Croce, estratto vivo dalle macerie) e quello del 1908 a Reggio Calabria e Messina (circa 100 000 morti, ancor più feriti e scosse di assestamento sino al 1909).

La gestione delle catastrofi

Lo Stato italiano rispose a tali tragedie in modo estemporaneo e con un atteggiamento paternalistico, teso al risparmio, fatalistico, centralistico e poliziesco. La principale preoccupazione delle autorità era infatti di evitare che la catastrofe generasse disordini. Perciò i soccorsi erano sempre coordinati fra i ministeri degli Interni e della Guerra, gestiti sul posto da prefetti e ufficiali (esautorando i poteri locali) e prestati in regime di stato d’assedio da soldati equipaggiati come se fossero impegnati contro un tumulto. La lotta allo sciacallaggio in nome del “sacrosanto diritto di proprietà” venne dunque prima degli aiuti alle vittime, che del resto erano limitati perché la legge imponeva ai comuni di reperire le risorse necessarie. Lo Stato destinava infatti alle emergenze cifre modeste (non esisteva una voce ad hoc nel bilancio pubblico) e il governo diffidava della solidarietà e della beneficenza privata, una macchina capace di mobilitare tanti volontari e raccogliere ingenti donazioni, ma che si temeva infiltrata da clericali e anarcosocialisti, pronti a sfruttare la situazione per fare proseliti.

Proprio per contrastare la popolarità derivante alle forze dell’Estrema dal loro impegno di solidarietà e per prevenire le polemiche sulla scar­sa trasparenza nella gestione di aiuti e ricostruzioni spesso tardivi, dalla metà degli anni Ottanta esecutivo e monarchia presero sempre più a occupare la scena in occasione delle catastrofi.

La famiglia reale visitava le popolazioni colpite, la stampa filogovernativa ostentava l’interventismo dello Stato e riconoscimenti erano elargiti a impiegati civili e militari, nel tentativo di trasformare le grandi tragedie in occasioni per legittimare le istituzioni liberali e rinsaldare il senso di comunità nazionale. Ciò mentre i primi passi verso una pur embrionale cultura della prevenzione e una razionalizzazione degli interventi in emergenza venivano compiuti nell’ambito della più generale azione riformistica crispina e poi giolittiana (mappatura sismica del territorio, elaborazione di norme edilizie), trovando un primo impegnativo banco di prova nel 1908 in Sicilia e Calabria.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900