14.7 L’età crispina

I primi cercarono di far proprie alcune istanze dei ceti inferiori per farvi proseliti, ma la loro tendenza a considerare la comune appartenenza nazionale sufficiente a stemperare i conflitti generati dalle forti disparità economiche non dava risposte convincenti al malcontento operaio e contadino. Perciò l’opposizione repubblicana ebbe scarso seguito e si esaurì per lo più in società di mutuo soccorso dedite all’assistenza e contrarie ad aperte proteste.
Al contrario, l’Estrema ispirò e promosse una rete di associazioni operaie con più espliciti intenti di lotta, ispirate alle teorie anarchiche di Michail Bakunin [▶ cap. 10.6] più che alle dottrine socialiste di Karl Marx, ancora poco conosciute in Italia. Si moltiplicarono così gli scioperi (103 nel 1873 contro i 13 all’anno nel decennio precedente), le manifestazioni e persino gli attentati al re. Ma le divisioni fra anarchici e socialisti marxiani e soprattutto la limitata politicizzazione delle masse italiane impedirono un efficace coordinamento della lotta e una larga diffusione del socialismo sia nel frammentato movimento operaio sia fra i braccianti agricoli. Tanto meno si registrarono significativi successi elettorali, a parte l’elezione nel 1882 del primo deputato di idee socialiste: Andrea Costa (1851-1910).
Maggior seguito – soprattutto nelle campagne – avevano i cattolici fedeli al Non expedit. Autoesclusi dalla vita politica, ecclesiastici e laici andarono tuttavia accentuando la loro presenza nella società, sia mediante cooperative e società di mutuo soccorso ispirate alla dottrina sociale cattolica sia attraverso l’Opera dei congressi, un’organizzazione dal programma antiliberale e antisocialista nata nel 1874 per coordinare le associazioni cattoliche sparse sulla penisola.

14.7 L’età crispina

Crispi fra riforme e “democrazia autoritaria”
Alla morte di Depretis, nel luglio 1887, al governo salì Francesco Crispi (1818-1901): figura apprezzata tanto dalle sinistre per il suo passato garibaldino [▶ cap. 13.4] e le critiche al trasformismo, quanto dai conservatori, affascinati dal suo profilo di uomo forte e difensore dell’ordine costituzionale anche contro gli ex compagni. L’ambizioso statista siciliano si fece subito promotore di un’energica spinta riformista bilanciata da un rafforzamento del controllo statale e della repressione nei confronti del dissenso.

Furono varate riforme sociali. In particolare, con un approccio che fondeva moralismo, igienismo e misoginia, la prostituzione fu regolata più rigidamente. Nel frattempo, si tentò di ridurre mortalità e morbilità mediante altre due importanti leggi: la prima, emanata nel 1888, riorganizzò il sistema sanitario centrale e periferico, stabilì i requisiti igienici per le case di nuova costruzione, sanzionò chi distribuiva alimenti guasti e fece del medico condotto un pubblico ufficiale sottoposto al prefetto; la seconda, del 1890, avocò allo Stato le opere pie e ne ridefinì funzioni e distribuzione sul territorio, in modo da renderle più confacenti ai bisogni dei poveri e sottrarre la beneficenza al monopolio ecclesiastico.

Rispetto alle norme risalenti al 1865 si facevano così grandi passi in avanti, anche se i benefici effetti delle riforme crispine furono molto attenuati dalla scelta di far ricadere i costi su comuni incapaci di reggerli e di escludere i farmaci dall’assistenza sanitaria gratuita dovuta ai cittadini. Più ancora incise però l’assenza di interventi tesi a migliorare le infrastrutture dei piccoli centri (fogne, condotte idriche, cimiteri), gli ambienti di lavoro, le fabbriche, le case più vecchie e quelle nelle campagne.

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Sempre nel 1888 prese avvio l’ambiziosa riforma dello Stato, che intendeva razionalizzare l’architettura amministrativa senza però rinnegare la scelta centralista del 1865:

  • si rinnovò un personale burocratico sempre più professionale e di formazione tecnico-giuridica, favorendo così l’espansione (+33% fra il 1881 e il 1911) e il peso dei ceti medi nella macchina statale;
  • furono istituiti organi collegiali di gestione delle province (le giunte provinciali amministrative);
  • fu ampliato il corpo elettorale amministrativo dal 4 all’11% e, per la prima volta, furono resi elettivi i sindaci dei comuni con almeno 10 000 abitanti.

La riforma provocò uno scossone sia nell’assetto dei poteri locali sia nel rapporto centro-periferia, dal momento che l’elettività consentiva persino la formazione di giunte comunali socialiste o cattoliche. Ma ciò fu compensato da più rigorosi controlli prefettizi su impiegati e atti dei municipi.

Allo stesso modo, il nuovo codice penale varato nel 1889 dal ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli era più garantista dei precedenti, in quanto affermava il principio della ▶ irretroattività della legge penale, distingueva i delitti dalle semplici contravvenzioni, aboliva la pena di morte e i lavori forzati, depenalizzava alcuni comportamenti sociali e morali prima sanzionati e riconosceva, seppur implicitamente, il diritto di sciopero. Tuttavia, non per questo esso abbandonava l’idea di una giustizia chiamata prima di tutto a tutelare l’autorità e disciplinare le classi inferiori. Infatti, non solo puniva alcuni reati d’opinione come il vilipendio della religione o del re, ma sostituiva anche il concetto di turbamento della “pubblica tranquillità” (inteso come attacco materiale alla quiete collettiva) con quello di un “ordine pubblico”, inteso invece come rispetto dei principi basilari dell’ordinamento da tutelare anche in assenza di concreta minaccia alla sicurezza della popolazione.
Tale linea fu rafforzata da limiti alle libertà sindacali e da misure preventive come l’ammonizione e il ▶ domicilio coatto, che la nuova legge di pubblica sicurezza del 1889 mutuava dalle leggi speciali degli anni Sessanta contro il brigantaggio. Il governo dotava così le forze dell’ordine di strumenti dissuasori e sanzionatori che non necessitavano della preventiva approvazione di un giudice, eludendo il controllo di una magistratura che, nonostante la sua scarsa autonomia dall’esecutivo, era restia a condannare manifestanti e leader dell’Estrema per accuse spesso inconsistenti.
La battaglia antieversiva: repressione e nazionalizzazione
Ricorrendo a questa legislazione, allo stato d’assedio e a un esercito con ▶ regole d’ingaggio più aggressive, i governi repressero con fermezza le proteste operaie e contadine, a loro volta più organizzate e determinate grazie al sostegno delle forze anarcosocialiste.

Ciò accadde per esempio nel 1893, quando le unioni dei lavoratori siciliani (i cosiddetti “Fasci siciliani”) protestarono per ottenere migliori condizioni di lavoro. In un primo momento la rivolta fu affrontata senza ricorrere alla forza, perché al governo era momentaneamente Giovanni Giolitti (1842-1928): capo di un esecutivo composto in larga parte da uomini della Sinistra ma critico sulle aggressive politiche crispine e fautore di un programma abbastanza progressista fatto di aperto confronto con le forze radicali e le manifestazioni di malcontento. L’approccio ai Fasci cambiò però nettamente appena Crispi riprese il potere a fine 1893, subentrando a Giolitti travolto dallo scandalo dei finanziamenti occulti della Banca Romana a giornalisti e politici. L’esercito fu inviato a riportare l’ordine sull’isola e nelle aree del Centro Italia insorte per solidarietà con i lavoratori siciliani, in particolare la Lunigiana (fra Toscana e Liguria). Poi, scampato all’attentato di un anarchico e convinto del ruolo giocato nelle rivolte dal neonato Partito dei lavoratori italiani di Filippo Turati (1857-1932), nel luglio del 1894 prese a modello la legislazione antisocialista tedesca per formulare un insieme di norme “antianarchiche” che limitarono drasticamente la libertà di stampa, di associazione e di riunione, mettendo di fatto fuori legge ogni forza politica che si richiamasse al socialismo o all’anarchismo [ 15].

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L’azione antieversiva di Crispi fu dunque massiccia, ma non riuscì a impedire che il crescente disagio sociale spingesse sempre più lavoratori, soprattutto operai delle grandi fabbriche del Nord e braccianti padani, a guardare alle promesse egualitarie e anticapitaliste del socialismo. Né le illiberali norme crispine spezzarono la rete organizzativa del partito di Turati che anzi, ribattezzato nel 1895 Partito socialista italiano (Psi), guadagnò simpatie anche in ambienti intellettuali e della Sinistra democratica. Ciò sebbene esso restasse meno attento di altri partiti socialisti europei al dibattito teorico, meno orientato in senso propriamente marxista e soprattutto diviso al suo interno fra componenti diverse: da una parte i più moderati riformisti con agganci al marxismo, guidati da Turati; dall’altra i rivoluzionari come Andrea Costa; da un’altra ancora gli eredi più intransigenti della tradizione repubblicana e anticlericale.

La lotta antieversiva non solo facilitò un prudente disgelo fra Stato e Chiesa, che condividevano l’avversione per i socialismi. Essa entrò anche a far parte del processo di Nation building. Facendo dunque ampio uso della retorica evangelica e dell’influenza dei parroci sulle masse soprattutto rurali, la pedagogia nazionale che improntava le agenzie di nazionalizzazione (scuola, esercito, letteratura) attaccò sempre più esplicitamente l’internazionalismo anarcosocialista, di cui sottolineava la violenza e l’innaturalità. Al contrario, venivano esaltati la coesione della nazione al di là degli interessi di classe e il dovere patriottico delle classi subalterne di contribuire al benessere della comunità con il lavoro, il servizio militare e i figli, di aderire alle istituzioni liberali e di accettare le gerarchie sociali.

Inoltre, la nazionalizzazione s’intrecciava con una rilettura del processo di unificazione e con il bellicismo imperialista accresciutosi dopo Dogali. Da un lato la retorica ufficiale cercò di ricomporre in una memoria idealizzata e condivisa le fratture interne al movimento risorgimentale che sino ad allora avevano tenuto fuori dal pantheon dei padri della patria Mazzini e in parte Garibaldi [ 16]. Dall’altro, sfruttò la Triplice e l’iniziativa coloniale in Africa per descrivere l’Italia come grande potenza, facendo dell’orgoglio per il ritrovato prestigio internazionale un argomento centrale per stimolare il senso di appartenenza alla nazione.

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La megalomania coloniale crispina e la sua disfatta
In questa prospettiva, il colonialismo entrava a pieno titolo fra i fattori di costruzione dell’identità nazionale. La conquista coloniale, infatti, era una prova di forza della “nuova Roma” che voleva presentarsi come la padrona del Mediterraneo. Ma rappresentava anche un’occasione di incontro/scontro con popolazioni la cui più evidente alterità stemperava tanto quelle linguistico-culturali fra gli italiani delle varie regioni, quanto quella razziale fra settentrionali (più evoluti) e meridionali (meno evoluti e perciò tendenti alla criminalità): una differenza che, partendo ma travisando gli studi ben meno deterministici dell’antropologo e medico psichiatra Cesare Lombroso, veniva in questi stessi anni teorizzata e largamente divulgata da alcuni suoi allievi e da altri esponenti della scuola antropologico-criminale, convinta del nesso causale fra anomalie fisiche e degenerazione morale.

Crispi sfruttò dunque il desiderio di rivalsa del re e di parte dell’opinione pubblica dopo la sconfitta di Dogali per potenziare e dare un’impronta più aggressiva alla campagna in Africa orientale. Già nell’inverno 1887 aveva inviato circa 20 000 uomini a riprendere le aree perdute. Poi ne aveva sancito formalmente l’ingresso nell’orbita italiana siglando con il nuovo ▶ negus d’Etiopia, Menelik II, il Trattato di Uccialli (1889): un accordo ambiguo perché nella versione in italiano sembrava vincolare l’impero africano a ricorrere alla mediazione di Roma per stabilire rapporti con altre potenze, mentre nella versione in aramaico questa risultava solo una facoltà concessa a Menelik.

In realtà, a governo e vertici militari mancava un progetto organico e condiviso. In più, a minare l’efficienza della macchina bellica italiana concorrevano diversi fattori: il caos e le gelosie fra i comandanti, la difficile collaborazione fra esercito e marina, l’insufficienza dei fondi, la scarsa conoscenza dei luoghi, l’inadeguato equipaggiamento (mancavano carte geografiche, viveri, acqua, uniformi adatte), la poca coesione della truppa e i tanti soldati fiaccati dal clima torrido e dalle malattie (febbri, dissenteria). A tutto ciò si sommava la difficoltà di gestire le milizie indigene alleate, multietniche e indisciplinate ma ritenute imprescindibili perché erano abituate al clima, avevano un basso costo e, in caso di morte, avrebbero suscitato poco clamore in Italia.

Tuttavia, l’arretramento degli etiopi dopo la massiccia spedizione dell’inverno 1887 illuse Crispi, il re e soprattutto i comandi in loco, le cui spregiudicate iniziative di conquista nell’interno e verso la Somalia si sommarono alle brutali operazioni di polizia (fucilazioni sommarie, stupri, saccheggi) fino a scatenare la reazione di Menelik. Il negus prima denunciò alla comunità internazionale l’arbitraria imposizione del protettorato che Roma fondava sulla versione italiana del Trattato di Uccialli. Poi, forte di oltre 120 000 soldati ben armati, vinse ad Amba Alagi (dicembre 1895), a Makallé (gennaio 1896) e infine – il 1° marzo 1896 – sbaragliò ad Adua i circa 16 000 uomini incautamente mossi all’attacco su pressione di un Crispi alla spasmodica ricerca di un’affermazione di prestigio [ 17].

In realtà, questa non era né la prima disfatta europea in una campagna coloniale né una sconfitta irreparabile. Tuttavia, le gravi perdite (oltre 5000 uomini), i 3000 prigionieri rimasti in mano a Menelik e soprattutto l’enfasi di cui la spedizione era stata caricata dopo i rovesci del 1866 fecero di Adua una conferma dell’antimito dell’italiano imbelle e un colpo durissimo al già malconcio orgoglio nazionale: non più isolata grazie alla Triplice e con in più qualche colonia, l’Italia restava però una potenza minore.

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14.8 La “crisi di fine secolo”

L’Italia dopo Adua
Il cosiddetto “complesso di Adua” travolse molti settori della società, seppur in modo differente.

Accelerò la politicizzazione degli strati popolari, che per la prima volta dettero vita a massicce manifestazioni antimilitariste e ad atti di boicottaggio in diverse città.

Acuì la frattura fra l’opinione pubblica e le forze armate. Ampi settori della prima presero a contestare le “spese improduttive” destinate all’esercito piuttosto che allo sviluppo economico. Le seconde, risentite e frustrate, si chiusero in un rapporto privilegiato con la corona e alimentarono una sprezzante polemica contro una società civile e una classe dirigente ritenute non solo irriconoscenti, ma responsabili delle sconfitte per il loro scarso contributo di entusiasmo e sostegno materiale alla causa.

Infine, la disfatta lasciò una profonda ferita negli ambienti più nazionalisti, che chiedevano un pronto riscatto e al tempo stesso denunciavano sempre più apertamente la corruzione e l’inconcludenza connaturate al parlamentarismo. Era infatti la pratica parlamentare, secondo i loro proclami, che indeboliva lo Stato e lo lasciava alla mercé delle forze eversive all’interno e delle grandi potenze sul piano internazionale.
A fare le spese di tutto ciò fu prima di tutto Crispi, che dovette dimettersi e questa volta uscì definitivamente di scena. Pur restio all’abbandono della prestigiosa espansione coloniale e al ridimensionamento delle spese militari, anche il re colse la gravità della situazione e accettò di sostituire Crispi con un governo composto di suoi avversari, capeggiato dal nobile conservatore marchese di Rudinì.

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Mentre nella Destra c’era chi invocava un’applicazione letterale dello Statuto per limitare l’influenza del parlamento sull’azione di governo (Sidney Sonnino scrisse il celebre articolo Torniamo allo Statuto), l’esecutivo scelse invece di allentare le tensioni. All’interno cercò di guadagnarsi il consenso della Sinistra non solo amnistiando i condannati per le rivolte in Sicilia e in Lunigiana, ma anche rendendo elettivi i sindaci dei comuni con meno di 10 000 abitanti. In ambito internazionale agì invece in due direzioni: da un lato rasserenò i rapporti con la Francia, riconoscendone il protettorato sulla Tunisia in cambio di tutele per gli italiani; dall’altro ridimensionò l’iniziativa imperialista, che lo stesso ministro della Guerra Luigi Pelloux giudicava ormai «una causa seria di grave indebolimento della nostra influenza in Europa». E, in questa logica, siglò una pace onorevole con Menelik, che consentì il rimpatrio dei prigionieri e definì i confini fra l’Impero etiopico e i possedimenti italiani in Eritrea.
Sviluppo economico e miglioramento delle condizioni di vita
L’eredità di Depretis e Crispi non era però fatta solo di riforme parzialmente inefficaci, autoritarismo, azzardi militari e guerre commerciali. A fine secolo la svolta protezionistica del 1887 aveva infatti iniziato a dispiegare i suoi benefici effetti sulla nascente industria nazionale, favorendo la nascita di diversi impianti siderurgici, la meccanizzazione dell’industria cotoniera e il rafforzamento del settore agroalimentare, in particolare grazie alla diffusione della barbabietola da zucchero in area padana. Al decollo industriale contribuirono poi settori non tutelati, come l’industria chimica (Pirelli), quella elettrica (Edison) e quella metalmeccanica e automobilistica (Breda, Fiat) [ 18]: attività che si giovavano di un sistema creditizio arricchito da capitali tedeschi, irrobustito da nuovi istituti privati (Credito italiano, Banca commerciale) e reso più efficiente dall’istituzione della Banca d’Italia come ▶ banca centrale e di emissione. Nel complesso, fra il 1896 e il 1907 il tasso medio di crescita industriale sfiorò il 7% annuo, risultando fra i più alti d’Europa, ma accentuando al contempo il divario fra il cosiddetto “triangolo industriale” (Genova, Torino, Milano) e le regioni centromeridionali che crescevano molto più lentamente.
Senza contare che la crescita economica avrebbe inciso positivamente sul reddito procapite e sulla qualità della vita delle masse solo a partire dai primi anni del Novecento, circoscrivendo per il momento ai soli ceti medio-alti i nuovi modelli familiari (controllo delle nascite, famiglia nucleare), stili di vita e attività ludiche come il turismo, la villeggiatura, l’alpinismo e sport provenienti dall’estero come il tennis e il calcio.
La “crisi di fine secolo”: dalle cannonate al regicidio
Nel frattempo, la disomogenea crescita economica, le dure condizioni di vita nelle campagne e il pauperismo urbano acuirono invece il disagio sociale dei ceti inferiori, in parte testimoniato dai ben 135 000 voti ottenuti dal Psi alle elezioni del 1897.

Critico verso gli eccessi illiberali crispini ma non meno preoccupato dalle minacce eversive dei “rossi” e dei cattolici intransigenti, il governo di Rudinì non esitò a ricorrere a sua volta alle maniere forti. In particolare ne fece massiccio uso nel 1898, quando un improvviso aumento del prezzo del pane e il blocco delle esportazioni dagli Usa a causa della guerra ispano-americana trasformarono il latente malcontento per la disoccupazione e il carovita in aperta protesta. In primavera scoppiarono tumulti a Napoli, in Toscana, in Sicilia e a Milano. Da più parti fu dichiarato lo stato d’assedio e furono inviate truppe.

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A Milano la situazione però degenerò. Qui i timori del governo centrale per una rivoluzione nel centro del capitalismo nazionale si sommarono all’allarmismo e all’irresponsabile scaricabarile di autorità locali, assenti, impulsive o al contrario tentennanti nel dare disposizioni. Ciò finì per lasciare l’iniziativa a comandi e soldati dislocati sul posto, a loro volta incapaci di tenere a bada i manifestanti senza incendiarne ulteriormente gli animi. Dal 6 al 9 maggio 1898 si scatenarono così quattro giornate di scontri, con 130 000 soldati richiamati d’urgenza, 100 morti e 400 feriti fra i dimostranti, in larga parte provocati dai colpi d’artiglieria sulla folla inerme ordinati dal generale Fiorenzo Bava Beccaris, che fu poi fatto senatore e decorato dal re per il “grande servizio” reso allo Stato [ 19].
In una situazione così incandescente, il governo fu affidato a un generale, l’ex ministro della Guerra Luigi Pelloux (1839-1924). E questi propose subito un pacchetto di misure straordinarie per vietare lo sciopero nei servizi pubblici e limitare la libertà di riunione, di associazione e di stampa. La deriva reazionaria incarnata da Pelloux compattò però le opposizioni in parlamento, spaventò l’opinione pubblica liberale e parve eccessiva anche all’influente borghesia imprenditoriale, che pure aveva inizialmente chiesto una stretta. Così il re decise di accettare una linea più morbida, evitando di forzare la mano al parlamento per far approvare i provvedimenti di Pelloux.

Il freno posto alla svolta illiberale non riabilitò però l’immagine del sovrano, già oggetto in precedenza di almeno due attentati di matrice anarchica giustificati dal suo conservatorismo. Fatti come quello di Milano avevano esacerbato di nuovo gli animi, alimentando l’ostilità verso l’esercito e la monarchia. Fu non a caso ancora una volta un anarchico di nome Gaetano Bresci, tornato dall’America per vendicare i morti del 1898, a uccidere Umberto I il 29 luglio 1900.

Al trono salì così Vittorio Emanuele III (1900-46), più consapevole del padre della necessità di stemperare le tensioni e fare i conti con l’evoluzione del quadro sociale e politico nazionale. Con il nuovo secolo, il paese si avviava così verso una fase nuova, dominata dalla figura di Giolitti e caratterizzata dal dialogo con la Chiesa e le forze dell’Estrema, da un piano organico di riforme in ambito socioeconomico e da un significativo ampliamento della partecipazione politica.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900