14.3 Un paese in guerra con se stesso

La Chiesa
La disillusione di democratici e garibaldini s’intrecciava con la delegittimazione che veniva all’Italia dal mancato riconoscimento pontificio dello Stato unitario e della sua laicità, sintetizzata nella formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». A rafforzare il rifiuto papale a mediare con l’anticlericale classe dirigente liberale concorsero d’altronde alcuni provvedimenti dettati dalle pressanti esigenze di bilancio del nuovo Stato, su tutti la nazionalizzazione dei beni delle congregazioni religiose soppresse nel 1866-67. Essa consentì infatti di mettere all’asta quasi 3 milioni di ettari di terreno, ma ebbe effetti finanziari e redistributivi inferiori alle attese perché i ceti elevati se li accaparrarono a prezzi ribassati proprio a causa della gran quantità di terre finite sul mercato.
Di fronte alla ferma condanna di Pio IX, il clero si divise fra intransigenti sostenitori del potere temporale del papa e transigenti disposti a un compromesso. Né l’anatema papale convinse molti conservatori filoclericali ad astenersi dalla politica. Tuttavia, la Chiesa seguitava ad avere forte influenza soprattutto sulle classi popolari rurali e a svolgere un irrinunciabile ruolo integrativo in funzioni pubbliche cruciali come l’anagrafe, l’assistenza o l’istruzione. E ciò non poteva non impensierire il governo di un paese scarsamente nazionalizzato e privo di un’adeguata burocrazia periferica.
I legittimisti borbonici
Al Centrosud la posizione antiunitaria dei vertici ecclesiastici si saldava ai tentativi di restaurazione borbonica. Lasciata Gaeta, Francesco II aveva infatti costituito proprio a Roma un governo in esilio. Assieme ai comitati filoborbonici nati in mezz’Europa, almeno sino al 1865 esso cercò di sfruttare la situazione ancora fluida e il mancato riconoscimento papale dell’Italia per ingraziarsi l’opinione pubblica internazionale, stabilire fitte relazioni diplomatiche con diverse corti europee e soprattutto per alimentare il dissenso nei confronti dello Stato unitario, contrapponendo all’idea di un’identità nazionale italiana quella di una “nazione napoletana” comprensiva persino della Sicilia, in realtà da tempo autonomista [▶ cap. 11.6].

Si trattò di uno sforzo notevole, concretizzatosi in una vasta pubblicistica apologetica e in ingenti risorse fornite ai rivoltosi. Ma si rivelò presto incapace di vincere i limiti del movimento legittimista: l’inettitudine del giovane re [▶ cap. 13.5], la progressiva rassegnazione dei suoi alleati (il papa, gli Asburgo, i Borbone spagnoli) e le divisioni del “partito borbonico”, disarticolato in gruppi autonomi nelle varie località troppo difficili da coordinare.

14.3 Un paese in guerra con se stesso

Il grande brigantaggio
La propaganda clerico-legittimista e la rabbia per le promesse non mantenute dai “liberatori” fecero montare il brigantaggio: un fenomeno contiguo sia al banditismo endemico nel Centrosud sia alle fluide forme della criminalità organizzata [▶ fenomeni, p. 436]. Si trattava infatti di un movimento disomogeneo nei protagonisti e negli scopi, composto da contadini che chiedevano terre, clero intransigente, lealisti locali, volontari stranieri filoborbonici e soldati sbandati. Eppure, fra il 1861 e il 1865 esso si intensificò e acuì la sua dimensione ideologica.

In risposta a rivolte di cui non comprendeva la complessa natura – e che attribuiva a intrighi clerico-borbonici, a complotti internazionali o semplicemente alla barbara immaturità politica di popoli a lungo sotto regimi dispotici – il governo Ricasoli non seppe fare molto altro che rispondere con la forza.

 >> pagina 436 
Abbandonata l’idea cavouriana di pacificare il Sud assorbendone le élite moderate nella classe dirigente nazionale, oltre 100 000 uomini (un terzo di tutto l’esercito) furono mossi contro il “grande brigantaggio”, così detto per distinguerlo da quello preunitario [▶ cap. 6.3]. Ne nacque una vera guerra civile, resa lunga e sanguinosa (fra 6000 e oltre 20 000 i morti) dal territorio montuoso e ignoto ai comandi militari, dalle tattiche di guerriglia predilette dai briganti, dal sostegno popolare (a volte estorto) di cui godevano le bande e dalle rappresaglie senza distinzione fra militari e civili compiute da ambo le parti: azioni che radicalizzarono l’opposizione fra “piemontesi” e “napoletani” [▶ fenomeni, p. 438]. e spaccarono le comunità fra fiancheggiatori e oppositori dello Stato nazionale lungo linee che spesso ricalcavano precedenti lotte tra clan familiari per il potere locale.
A risultare decisivi per lo sradicamento del brigantaggio fu una molteplicità di fattori: la superiorità numerica e tecnica delle truppe regolari, il mancato coordinamento fra le bande brigantesche, l’adesione all’unificazione di parte importante dei ceti dirigenti meridionali e l’adozione di alcune leggi eccezionali. Nel 1862, infatti, il governo dichiarò lo ▶ stato d’assedio e militarizzò le aree “infestate dal brigantaggio”. Poi, dal 1863 al 1865 la legge Pica [ 4] sospese alcuni diritti costituzionali e colpì duramente il ▶ manutengolismo. Pur accusati di discriminare i meridionali, questi provvedimenti non solo spezzarono le reti di fiancheggiatori vitali per i briganti, ma non di meno riuscirono a limitare gli abusi prima compiuti dalle truppe italiane in assenza di controlli e di efficaci strumenti sanzionatori come i tribunali militari. Così, benché bande armate seguitassero a infestare il Centrosud sino ai primi anni Settanta, già nel 1866 il grande brigantaggio poteva dirsi sconfitto.

  fenomeni

Alle origini di mafia e camorra

Benché le leggende sulla genesi di mafia e camorra siano numerose e alcuni storici la collochino molto più indietro, la nascita della criminalità organizzata nel Sud avvenne solo nell’Ottocento. Fu infatti nella prima metà del secolo che queste organizzazioni iniziarono a penetrare nel tessuto della società meridionale, riuscendo a estorcere il “pizzo” sulle attività commerciali e a gestire prostituzione e contrabbando.

L’ondata repressiva seguita al Quarantotto favorì poi l’incontro fra questi criminali e i membri delle società segrete. Da un lato, ciò consentì a mafia e camorra di mutuare dalla Carboneria rituali e modelli associativi. Dall’altro aumentò la fama e la forza di camorristi e mafiosi, che si ersero spesso a potere occulto e ricattatorio dentro le carceri e così si distinsero sempre più dai criminali comuni.

Fu infine la fase di instabilità del 1859-60 a consentire l’affermazione del crimine organizzato. In quei mesi camorristi e mafiosi si posero opportunisticamente al servizio delle autorità quali unici soggetti capaci di mantenere l’ordine pubblico. E sia Liborio Romano che Garibaldi ne arruolarono molti nelle squadre di pubblica sicurezza incaricate di assicurare una transizione pacifica al nuovo regime.

Lo Stato iniziò a contrastare le criminalità organizzate solo nel decennio successivo all’unità, quando esse da un lato si intrecciarono al brigantaggio e all’eversione democratica e dall’altro barattarono con i notabilati locali la loro capacità di pressione sulla gente in cambio di coperture e connivenze utili a sviluppare le loro attività criminali. Prendevano dunque lentamente forma le “male sette”, potenti, granitiche e ramificate sul territorio descritte da memorie e pamphlet del tempo.

La rivolta di Palermo del 1866
Proprio nel 1866, però, il governo italiano dovette affrontare un’altra rivolta, a Palermo. Qui la popolazione insorse rabbiosamente contro gli aggravi connessi all’unità(tasse, coscrizione) e contro la perdita di rilievo della città, che ne feriva i sentimenti municipalisti da tempo frustrati [▶ capp. 9.1 e 11.6].
Di nuovo, il governo non seppe cogliere né l’evidente debolezza delle istituzioni pubbliche sull’isola, palesata dalla mancata resistenza agli insorti di molti funzionari, né le vere ragioni dell’insurrezione, attribuita all’arretratezza delle plebi siciliane, ad ambienti criminali o a un’alleanza antiliberale fra democratici e clerico-lealisti.

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Perciò, il generale Luigi Cadorna (1850-1928) non esitò a cannoneggiare la città e poi a combattere strada per strada i rivoltosi, battaglieri ma privi del decisivo collante antinapoletano, del sostegno delle élite locali e ideologicamente confusi al punto da issare bandiere rosse, borboniche, cittadine e gridare al contempo «Viva la repubblica italiana!». Una volta riportato l’ordine, Cadorna dichiarò lo stato d’assedio per far processare i ribelli ed escludere le poco affidabili autorità locali dalla gestione del postrivolta. Ma, così facendo, finì per scontentare tutti: le masse popolari, oggetto della repressione e non amnistiate come invece le élite coinvolte nella sommossa; le autorità locali, risentite per la marginalizzazione subita; i ceti abbienti, preoccupati per l’incapacità del nuovo Stato di prevenire simili esplosioni di violenza.

14.4 Costruire uno Stato, italianizzare le élite

Costruire lo Stato
Condizionata da un profondo senso di precarietà, convinta che fosse lo Stato a dover guidare dall’alto la società verso il progresso ma incapace di comprendere la problematica realtà descritta dalle prime inchieste e dai censimenti, la classe dirigente preferì disegnare un impianto politico-istituzionale dirigista e statalista: una linea d’altronde già seguita quando si erano estese le norme sabaude alle nuove province appena annesse nel 1860.

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L’iniziativa legislativa fu perciò demandata per lo più al governo (influenzato dal re e dal “▶ partito di corte”), mentre il parlamento restava scarsamente rappresentativo perché il Senato era di nomina regia e la Camera era eletta dai soli maschi alfabeti e paganti almeno 40 lire di imposte l’anno, ossia il 2% della popolazione e il 7% dei maschi adulti. In più, a essere eletto era un ristretto numero di notabili graditi al governo, che sfruttavano la propria posizione nelle rispettive comunità, le pressioni dei prefetti sul già limitato elettorato e l’alto astensionismo (circa il 50% degli aventi diritto) per restare in carica diverse legislature, spesso con poche centinaia di voti.
La necessità – anche solo temporanea – di ridurre le spinte centrifughe e l’infiltrazione delle vecchie élite nelle forme di autogestione locale spinse il governo a caratterizzare in senso estremamente centralistico e verticistico anche la struttura amministrativa. Essa faceva capo al governo e controllava il territorio mediante una rete di sindaci, sottoprefetti e prefetti di nomina regia. A questi uomini, settentrionali o comunque di comprovata fedeltà ai Savoia, la legge di unificazione amministrativa del 1865 demandava la duplice funzione di informatori e rappresentanti del potere centrale, dotandoli di ampi poteri: gestione dell’ordine pubblico, indirizzo e controllo degli organi elettivi locali, organizzazione della coscrizione.

Si trattava di un sistema non solo lontano dal decentramento britannico tanto ammirato dai liberali centrosettentrionali, ma anche di una parziale estromissione delle classi dirigenti locali: una scelta duramente criticata da molti deputati meridionali, che iniziarono a parlare polemicamente di conquista sabauda e di “piemontesizzazione”.

Sempre nel 1865 fu promulgata la legge di unificazione legislativa. Frutto di faticosi compromessi fra le diverse tradizioni giuridiche, essa alla fine rinunciò a estendere il codice penale anche alla Toscana, dove rimase in vigore quello preunitario privo della pena di morte. Tuttavia, codici nuovi e uniformi furono approvati e rafforzarono «l’unità dello Stato con l’unità delle leggi». Inoltre, il rinnovato impianto normativo fornì a una magistratura di fatto subalterna al governo (il ministro della Giustizia poteva nominare i giudici eludendo il concorso e trasferirli a piacimento) gli strumenti per tutelare con rigore la pubblica sicurezza e la proprietà privata, oltre che per esercitare le prerogative statali su temi sensibili per la Chiesa come il matrimonio e l’adozione.

  fenomeni

Stereotipi antimeridionali prima e dopo l’unità

Già prima dell’unità i meridionali erano oggetto di pregiudizi. Li alimentavano gli antagonismi campanilistici, i rancorosi racconti degli esuli, il disprezzo dell’élite napoletana per i provinciali, gli scritti di noti intellettuali (il francese Ernest Renan diceva «non sono uomini, sono bruti»), i rapporti diplomatici e le parole di politici come Metternich, che parlava di un popolo «mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, ardente e passionale come sono gli africani».

Tuttavia, l’unificazione accentuò e modificò gli stereotipi sui meridionali. Nel 1860 i moderati attribuirono la mancata insurrezione antiborbonica a Napoli all’innata codardia e all’«abbrutimento» di uomini «corrotti fino all’osso». Poi la delusione per un Mezzogiorno restio all’unità e lontano dall’idilliaca immagine diffusa dalla letteratura e dall’arte spinsero a definirlo «Altro che Italia!», a equipararlo a una malattia («un’ulcera», «un vaioloso») o a descriverlo come «un lascito della barbarie alla civiltà del XIX secolo», abitato da «orientali [che] non capiscono altro che la forza».

Con il tempo il Sud venne contrapposto sempre più nettamente al Nord in base a una serie di opposizioni (civiltà/barbarie, Italia/Africa, generosità/irriconoscenza, onestà/malafede) che estendevano a tutto il territorio meridionale i tratti tipizzati di Napoli (caos, sporcizia, sovraffollamento).

Come l’Oriente, a osservatori ignari dell’eterogeneità meridionale esso appariva affascinante per il suo pittoresco esotismo, ma inquietante, pericoloso e lontano dalla civile Europa. Così, il mondo bucolico immortalato dai pittori paesaggisti lasciò spazio a descrizioni di braccianti sudici e violenti. Mentre la romantica figura del bandito, eroe della letteratura borghese e delle narrazioni orali contadine, venne criminalizzata, “barbarizzata” e infine disumanizzata, tratteggiando briganti e brigantesse come “anormali” (neri, effeminati/mascoline) o assimilandoli a bestie feroci e a creature diaboliche.

Quest’insieme di rappresentazioni svolse due funzioni. Da un lato, consolidò l’identità dell’Italia settentrionale nel vittorioso paragone con il Sud, piuttosto che in quello meno gratificante con le più progredite realtà europee. Dall’altro, soprattutto nel primo decennio postunitario, servì a legittimare il ricorso governativo a mezzi giuridici e militari eccezionali, necessari a civilizzare e governare popolazioni brutali, infide e bisognose appunto di «una grossa invasione di moralità piemontese», fatta di centralismo e dura repressione.

Finanziare e modernizzare lo Stato
Alla logica della “piemontesizzazione” erano ispirati pure alcuni importanti provvedimenti economici.

Fu introdotta la lira italiana (equivalente a quella del Regno sabaudo), nonostante la resistenza dei ceti popolari ad accettarla.

Fu esteso il liberoscambismo, che favorì l’esportazione dei prodotti agricoli ma penalizzò aree e produzioni meno competitive, sopravvissute grazie al sostegno dei regimi preunitari e ai limiti infrastrutturali che impedivano una massiccia penetrazione di prodotti stranieri [▶ cap. 13.1].

Fu infine riordinato e unificato il ▶ sistema tributario. Ma ciò produsse un aggravio del carico fiscale soprattutto per gli ex cittadini borbonici e papalini, reso poi ancor più pesante dalla tassa sul macinato introdotta nel 1868: un’imposta tanto impopolare da scatenare violenti scontri in molte zone.

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D’altro canto, un ampio gettito fiscale era per il nuovo regno un’assoluta necessità. La continua mobilitazione dell’esercito accresceva infatti le spese militari, mentre la scelta centralista imponeva di integrare il personale amministravo con uomini più qualificati e meno influenzabili dai notabili locali. In più, era di fondamentale importanza estendere la rete ferroviaria e viaria, sia per raggiungere i luoghi meno accessibili dove ancora si annidavano bande di briganti, sia per favorire lo sviluppo economico e l’integrazione dei mercati mediante il piano organico di interventi prefigurato dalla legge sulle opere pubbliche del 1865.

Quello avanzato dal governo era un piano ambizioso, che però si scontrò presto con insormontabili ostacoli: l’incompetenza del corpo tecnico-amministrativo; le difficoltà nel valicare gli Appennini, che spingevano a privilegiare l’asse nord-sud più che quello est-ovest; la necessità d’importare il materiale ferroviario per l’insufficiente produzione nazionale; i pochi fondi disponibili (83,8 milioni sui 647 di spesa pubblica nel 1861); le resistenze di comunità locali, spesso diffidenti verso lo Stato e restie a sostenere le spese di infrastrutture inutili alle loro economie di autoconsumo e commercio a corto raggio.

Alle spese legate alla modernizzazione si sommavano poi i costi della guerra del 1859 e il pesantissimo debito pubblico ereditato dagli Stati preunitari (circa 3 miliardi di lire, il 35-40% del pil del regno). Il che impose al governo di accompagnare all’aumento della pressione fiscale la vendita di beni demaniali, l’emissione di ▶ titoli di Stato ad alto tasso di interesse e il rigoroso contenimento della spesa pubblica: politiche che nel 1876 avrebbero portato al pareggio di bilancio, ma che limitarono l’ammodernamento del paese e sottrassero capitali privati ai settori produttivi, rendendo non solo più sicuro e prestigioso, ma anche più conveniente, acquistare terre e titoli pubblici rispetto a investire nell’industria o nella meccanizzazione delle aziende agricole.
“Fare gli italiani”

Mentre centralismo e repressione garantivano la tenuta del nuovo regno, poco veniva fatto invece sul piano del Nation building [▶ FONTI, p. 442]. Il re e il governo tesero infatti a limitare la nazionalizzazione ai ceti più elevati e a rimarcare il carattere dinastico dello Stato. Lo fecero mediante scelte simboliche, come il mantenimento della numerazione sabauda da parte di Vittorio Emanuele II. E lo fecero attraverso un’accorta selezione delle festività pubbliche, rimaste quelle preunitarie dedicate alla famiglia reale e allo Statuto albertino [ 5]: feste insomma che non rischiavano di valorizzare il contributo di democratici e garibaldini all’unificazione, celebrando invece le istituzioni monarchico-liberali più che la nazione, ma che anche per questo restavano circoscritte alle aree urbane, poco sentite dalla popolazione, boicottate dalla Chiesa e contestate da veterani e garibaldini delusi.

Anche l’esercito mantenne un’impronta più dinastica che nazionale. Da un lato i garibaldini e gli altri volontari furono presto congedati perché considerati troppo politicizzati e indisciplinati. Dall’altro si estese gradualmente la coscrizione a tutto il paese in modo da sottrarre uomini alle bande brigantesche e ostentare il carattere nazionale del nuovo esercito [ 6]. Nondimeno, i vertici politico-militari furono però molto attenti a selezionare i giovani da arruolare e soprattutto a conservare un prevalente nucleo di ufficiali e sottufficiali di comprovata fedeltà alla monarchia, favorendo la permanenza e la promozione degli ex soldati sabaudi.

Gli anni sotto le armi contribuivano poi a incivilire i coscritti (imparavano a lavarsi, si facevano curare e vaccinare), a disciplinarli e a familiarizzarli con le istituzioni. Ma non riuscivano ad alfabetizzarli, perché le scuole per gli illetterati duravano poco ed erano frequentate saltuariamente. Tanto meno il servizio militare nazionalizzava, dal momento che i comandanti si preoccupavano quasi esclusivamente della formazione tecnico-militare e la forzata convivenza con persone dal dialetto e dalle abitudini diversi finiva semmai per rafforzare i campanilismi e per generare tensioni con i civili dei luoghi dove i coscritti erano inviati.

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Anche la scuola fu un inefficace strumento di nazionalizzazione. La legge Casati del 1859 aveva infatti sancito il diritto-dovere dello Stato di regolare i processi formativi dei sudditi, l’obbligo e la gratuità del primo biennio delle elementari, la parità di genere e la necessità di formare i futuri maestri in apposite scuole. Tuttavia, essa era stata pensata solo per le regioni settentrionali allora in via di unificazione e con lo scopo di formare la classe dirigente. Perciò privilegiava l’istruzione superiore (licei e università), che avocava allo Stato e finanziava con il grosso dei fondi disponibili. Al contrario, scuole elementari e per adulti erano a carico dei comuni, che non riuscivano a sostenerne i costi ed erano costretti ad affidare un terzo delle cattedre a docenti semialfabeti ed ecclesiastici a causa della carenza di maestri qualificati e della volontà governativa di recuperare il clero transigente alla causa nazionale. Senza contare che la norma non prevedeva sanzioni ben definite per gli evasori dell’obbligo scolastico e molti genitori non intendevano rinunciare ai vitali introiti derivanti dal lavoro dei figli, avversando la scuola casatiana come l’ennesima forma di quella centralistica “piemontesizzazione” che ispirava anche le politiche linguistiche del nuovo Stato [▶ fenomeni].

FONTI

«S’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’italiani»

Quella svolta da Massimo d’Azeglio nella sua autobiografia è forse la più nota riflessione sull’eterogeneità delle popolazione unite nel 1861. Pur non avendo concretamente scritto la frase poi attribuitagli («Fatta l’Italia, bisogna fare gl’italiani»), l’ex presidente del consiglio sabaudo auspicava una più decisa assunzione di responsabilità da parte della classe dirigente rispetto ai problemi del Nation building e coglieva appieno le contraddizioni e i limiti di un processo di unificazione cui non si stava accompagnando un efficace sforzo pedagogico e di nazionalizzazione delle masse.


L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto1, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani.

E perché?

Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini2 e le miserie morali che furono ab antico3 il loro retaggio; perché pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l’Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione, non potrà esser ordinata, ben amministrata, forte così contro lo straniero, come contro i settari all’interno, libera e di propria ragione, finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere, e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può. […] Onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani.


M. d’Azeglio, I miei ricordi, Rizzoli, Milano 1956

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  fenomeni

Unità nazionali e questioni della lingua

Nel corso dell’Ottocento dibattiti sull’idioma nazionale e sui suoi rapporti con le parlate locali si ebbero in moltissimi paesi, soprattutto in quelli di più repentina e inattesa indipendenza. In Grecia, per esempio, si contrapposero i sostenitori della dhimotikì (la lingua popolare esito del periodo bizantino e ottomano) e quelli della katharèvousa, la lingua “pura” ricalcata sul greco antico e rimasta lingua ufficiale sino al 1976.

In Italia la questione fu invece affrontata da una commissione istituita nel 1868 dal ministero della Pubblica istruzione. La commissione si spaccò fra i fautori dell’arcaico fiorentino letterario e i sostenitori del fiorentino contemporaneo, ritenuto da Alessandro Manzoni più adatto perché ormai adottato dalle classi colte di tutta la penisola e presto fissato nel Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze a cura di Emilio Broglio e Giambattista Giorgini.

Alle idee dei puristi come a quelle manzoniane si oppose però Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), fondatore della glottologia italiana e contrario a individuare una lingua di riferimento perché convinto che lo sviluppo socioculturale della nazione avrebbe condotto naturalmente a un’unificazione linguistica dettata dai colti. Il modello ascoliano finì per imporsi, anche se in una forma di compromesso elaborata da un ex seguace di Manzoni. Ai dialetti fu così riservato il ruolo di strumento di accesso alla lingua italiana: una via per familiarizzare gli alunni dialettofoni con l’idioma nazionale consigliata ai maestri persino dagli esperti riuniti nel IX Congresso pedagogico italiano del 1874.

Si definiva così un orientamento delle politiche linguistiche italiane rimasto sostanzialmente uguale almeno sino agli anni Venti e Trenta del Novecento, quando il fascismo mostrò invece forte avversione nei confronti dei dialetti e tentò – non senza fatica – di contrastarli e di assimilare le minoranze linguistiche.

14.5 Le annessioni del Veneto e del Lazio

La guerra antiasburgica del 1866
Il consolidamento dell’apparato statale, gli sforzi per il pareggio di bilancio, la lotta contro i nemici interni e il timido Nation building andavano di pari passo con il lento lavorio per completare l’unificazione territoriale attraverso una mediazione che vincesse l’intransigenza del papa, evitasse contrasti con le potenze schierate a sua difesa, prevenisse iniziative popolari di matrice repubblicana o garibaldina e desse soddisfazione a quella Sinistra che premeva per prendere il Veneto e riteneva Roma “necessaria all’Italia come la testa al corpo”.

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L’occasione per strappare il Veneto agli Asburgo e mostrare al mondo la potenza del regno si presentò nel 1866, quando – come vedremo più avanti – le tensioni fra Prussia e Austria per la leadership nella Confederazione germanica convinsero Berlino a coinvolgere l’Italia nel conflitto contro Vienna.

La cosiddetta “Terza guerra d’indipendenza” (dopo il 1848 e il 1859) fu però un disastro, con clamorose sconfitte subite per terra (a Custoza) e per mare (a Lissa). A causarle fu un insieme di fattori: servizi logistici inefficienti (mancavano cibo, coperte, scarpe), penuria di muli e cavalli, impreparazione e scarsa coesione della truppa, rivalità fra comandi, impossibilità di contare sugli uomini impegnati nel frattempo contro il residuale brigantaggio e il boicottaggio delle autorità nei confronti degli oltre 38 000 volontari raccolti da Garibaldi: uomini dislocati su un fronte secondario in Trentino perché ritenuti politicamente inaffidabili, e le cui vittorie furono spesso frenate dai comandi per non rinverdire la fama del Generale e non irritare gli alleati con conquiste non previste dagli accordi [ 7].

I patti con la Prussia prevedevano infatti la cessione all’Italia del solo Veneto. Così, dopo aver sconfitto l’esercito asburgico a Sadowa il 3 luglio 1866, i prussiani imposero la ritirata dei volontari italiani dal Trentino e acconsentirono alla cessione del Veneto e al riconoscimento asburgico del Regno d’Italia, ma solo attraverso la mediazione francese: un passaggio umiliante per l’Italia, ma che appagava il desiderio di protagonismo di Napoleone III nelle vicende diplomatiche europee e rendeva meno mortificante per gli Asburgo il trasferimento di una parte dell’impero allo storico nemico italiano.
La presa del Lazio e di Roma
 Anche la conquista di Roma fu una diretta conseguenza dei conflitti connessi al processo di unificazione tedesca. Dopo gli accordi del 1864 con la Francia, la Destra aveva mantenuto una strategia attendista, rinnegando anche la spedizione garibaldina fermata a Mentana dalle truppe franco-pontificie nel 1867.

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L’improvvisa sconfitta francese contro la Prussia nell’estate del 1870 cambiò però la situazione. Occupata dai prussiani e trasformata in repubblica dopo la caduta di Napoleone III, la Francia fu costretta ad abbandonare la difesa del papa. A quel punto, il governo italiano disconobbe gli impegni presi con il precedente regime e autorizzò il generale Cadorna a penetrare attraverso Porta Pia, conquistando Roma senza quasi incontrare resistenza il 20 settembre 1870 [ 8]. Mancavano le cosiddette “▶ terre irredente” del Trentino e della Venezia Giulia, ma l’unificazione territoriale era in larga parte completa.

14.6 Da Destra a Sinistra: una rivoluzione “graduale e progressiva”

Uno Stato più grande, ma più delegittimato e isolato
L’annessione di Veneto e Lazio aprì una fase nuova: ormai quasi completa, l’Italia mirava a ritagliarsi uno spazio nei nuovi equilibri geopolitici euromediterranei. Tuttavia, le “ignominiose disfatte” di Lissa e Custoza erano state un vero shock per un paese che aveva vinto gli Asburgo nel 1859 solo grazie all’alleato francese [▶ cap. 13.3] e ora doveva l’annessione del Veneto al successo prussiano. Lungi dall’essere una prova di forza, la guerra del 1866 aveva rinverdito il vecchio antimito dell’italiano imbelle e aveva dimostrato che l’Italia non era né una nazione compatta né una grande potenza.
Non meno problematico era il lascito della presa di Roma dove, subito dopo il plebiscito di annessione all’Italia (ottobre 1870), Pio IX si era dichiarato prigioniero e aveva rifiutato le garanzie (guarentigie) offertegli dal governo italiano: l’intangibilità della sua persona “sacra e inviolabile”; un cospicuo indennizzo; l’▶ extraterritorialità della piccola area sul colle Vaticano in cui si era ritirato e la facoltà di proseguire la sua opera spirituale.

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Il papa prima scomunicò Vittorio Emanuele e poi, nel 1874, vietò ai cattolici la partecipazione alle elezioni politiche (non a quelle amministrative) di un regno che non riconosceva. Certo, la formula usata – Non expedit (“Non è opportuno”) – lasciava margini a chi non intendeva rispettarla rigorosamente. Ma la condanna papale e gli attacchi della propaganda filoecclesiastica intaccavano la legittimità di un regime liberale che stentava a guadagnare consenso in un paese largamente cattolico e le cui principali agenzie di nazionalizzazione erano piene di ecclesiastici, a cominciare dalla scuola.
Inoltre, la volontà dei paesi cattolici di non offendere il papa intrattenendo strette relazioni con l’Italia aggravò l’isolamento diplomatico prodotto dalla caduta in Francia di Napoleone III (difensore del papa ma vecchio alleato antiasburgico) e dal crescente disinteresse britannico per le vicende continentali. Era una condizione pericolosa per uno Stato debole in un quadro geopolitico profondamente rinnovato da una serie di eventi: l’unificazione tedesca del 1871, le fibrillazioni interne all’Impero asburgico e ottomano, gli esiti della guerra civile americana del 1861-65 e le tensioni internazionali connesse all’espansione coloniale.
La Sinistra al potere: riforme, disciplinamento e nazionalizzazione
La Destra affrontò la situazione con alcuni interventi che riducevano le esenzioni dal servizio militare e la presenza del clero nelle istituzioni. Ma poco fu fatto per coinvolgere maggiormente nella vita del paese i ceti medi, ritenuti politicamente immaturi soprattutto al Sud. Proprio alle borghesie meridionali la Sinistra guidata da Agostino Depretis (1813-87) rivolse invece un programma di riforme graduali, parziale decentramento amministrativo e riduzione del carico fiscale, riuscendo a vincere le elezioni nel 1876 e a chiudere così il quindicennio di governo della Destra.
Pur promossa da uomini socialmente omogenei alla Destra e altrettanto nemici delle sinistre radicali, fra il 1876 e il 1882 l’azione riformista della Sinistra fu cauta ma ampia. Nel 1877 la legge Coppino non solo estese a cinque anni l’istruzione elementare, ma la rese obbligatoria, gratuita e più laica, prevedendo precise sanzioni per i trasgressori e sostituendo il catechismo con «nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino». Fu un passo importante, anche se le molte eccezioni all’obbligo, i pochi maestri qualificati, l’insufficienza dei budget comunali e la difficoltà di molti alunni a conciliare frequenza e lavoro resero i miglioramenti lenti (dal 70% di analfabeti nel 1871 al 50% nel 1900) e assai diversi in base all’area e al genere: gli analfabeti restarono infatti molti di più in campagna (52% contro il 32% dei capoluoghi nel 1901), nel Sud e fra le donne (61% contro il 51% dei maschi nel 1901), che in più accedevano raramente all’istruzione superiore (50 studentesse su 8000 liceali nel 1890 e appena 257 laureate nel 1900).

Assieme alla letteratura, alla narrativa per l’infanzia [▶ fenomeni, p. 449], ai monumenti e ai toponimi legati all’unità nazionale, la scuola concorreva ora però con maggior enfasi a una duplice opera: da un lato, incivilire e disciplinare i ceti inferiori insegnando loro ad accettare le gerarchie sociali e a ottemperare ai doveri verso lo Stato; dall’altro familiarizzare con le istituzioni e nazionalizzare i ceti borghesi emergenti attraverso una “pedagogia patriottica” in cui le figure ideologicamente incompatibili con l’assetto monarchico-costituzionale erano marginalizzate (Mazzini), quelle più ambigue recuperate in chiave filomonarchica (Garibaldi), mentre quella del re restava incontrastata protagonista. Con la salita al trono di Umberto I al posto del padre (1878), l’immagine del re acquisì però tratti più nazionali e popolari. Ciò sia per la scelta di ribadire con l’ordinale il suo essere il primo re d’Italia, sia per i viaggi che il “re buono” e sua moglie presero a fare nel paese, soprattutto nei luoghi colpiti da calamità [ 9].

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Nelle intenzioni del governo, una più diffusa scolarizzazione serviva in primo luogo a educare persone destinate a entrare in un corpo elettorale che la Sinistra aveva promesso di allargare. Nel 1882 fu infatti varata una nuova legge elettorale, che ammetteva al voto i maschi almeno ventunenni con diploma elementare o paganti almeno 19,8 lire di imposta annua. Nell’immediato, ciò quadruplicò gli elettori e provocò un ricambio in parlamento di circa il 40% dei deputati. Si realizzava così quel «suffragio universale possibile» che Depretis voleva per assecondare il desiderio di partecipazione dei ceti medi e al contempo arginare i progetti di maggiore apertura sostenuti dai settori più avanzati della Sinistra: un ampliamento controllato dell’elettorato e una sua preventiva educazione al rispetto delle istituzioni monarchico-liberali tramite la scuola.

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Tali progetti erano agevolati sia dal diffuso disinteresse per la politica (l’astensionismo toccava il 40%) sia dalla debolezza dei movimenti emancipazionisti femminili: gruppi guidati da figure di grande carisma come Anna Maria Mozzoni e l’esule russa Anna Kuliscioff, ma incapaci di sensibilizzare persino le sinistre più progressiste, anch’esse condizionate da radicati pregiudizi sull’inferiorità organica e sulla natura istintiva e sentimentale delle donne.

Criteri di ammissione al voto e sistema elettorale

Legge elettorale del 1860

Legge elettorale del 1882

Età per votare

25 anni

21 anni

Limiti di genere

Solo uomini

Solo uomini

Livello culturale

Essere alfabeta

Licenza di biennio elementare

Censo

40 lire/anno

19,8 lire/anno (se privi di licenza)

Numero dei collegi e rapporto elettori/eletti

443 (circa 1 deputato ogni 50 000 elettori)

135 (circa 1 deputato ogni 57 000 elettori)

Sistema elettorale

Maggioritario uninominale a doppio turno (ogni collegio elegge il deputato che vince il ballottaggio fra i due più votati al primo turno, a meno che già al primo turno il vincitore non abbia 1/3 dei voti rispetto agli iscritti o il 50% dei voti espressi)

Maggioritario plurinominale di lista (ogni collegio elegge dai 2 ai 5 deputati più votati)

Percentuale di elettori

2% della popolazione

7% dei maschi adulti

7% della popolazione

27% dei maschi adulti

Con il tempo, sempre più il governo iniziò a presentarsi come l’unico organo in grado tanto di sbloccare la sterile dialettica parlamentare anteponendo il bene del paese agli interessi delle varie fazioni politiche, quanto di proteggere i ceti abbienti da derive democratiche o anarcosocialiste.

Dal 1882 Depretis riuscì così a ottenere l’appoggio di molti deputati della Destra, offrendo loro risorse pubbliche (fondi per i loro collegi elettorali, posti nell’amministrazione) ed evitando che il governo trattasse i temi più controversi. Era il cosiddetto “trasformismo”: una strategia politico-parlamentare tacciata di opportunismo da alcuni esponenti della Destra e rifiutata da chi a Sinistra rimarcava le distanze dai moderati (Giuseppe Zanardelli, Giovanni Nicotera e Francesco Crispi), ma efficace nell’“addomesticare” il parlamento alla linea governativa [ 10].

Il riposizionamento internazionale e l’avvio del colonialismo
Nel duplice tentativo di alimentare l’orgoglio nazionale per farne fattore di coesione interna e di superare l’isolamento diplomatico per ergersi a coprotagonista nel quadro geopolitico euromediterraneo, la Sinistra impose una svolta anche alla politica estera. Ad accelerarne gli effetti furono però soprattutto due avvenimenti:
  • il precipitare dei rapporti con la Francia dopo che nel 1881 questa ebbe imposto il suo protettorato alla Tunisia , ambita pure da Roma per la vicinanza e la folta comunità italiana locale;
  • la proiezione dell’Impero asburgico verso l’area balcanica dopo la cessione del Veneto (1866), l’unificazione tedesca sotto l’egida prussiana (1871) e l’occupazione della Bosnia-Erzegovina (1878): ridefinizioni territoriali e di asse che alimentavano le speranze del governo italiano per un compromesso sulle “terre irredente” sempre più marginali per gli Asburgo.
Ciò convinse l’Italia ad avvicinarsi al suo storico nemico e al potente Impero tedesco nato nel 1871. Nel 1882 ne nacque la Triplice Alleanza con cui italiani, Asburgo e tedeschi si assicuravano reciproca protezione [ 11]. Era senza dubbio un patto utile a uscire dall’isolamento e prevenire iniziative francesi in Marocco o in Libia, ma richiese diversi sacrifici: l’aumento delle spese militari, l’ingrandimento dell’esercito, una maggiore militarizzazione della società [▶ fenomeni]. per preparare il paese a un possibile conflitto e la repressione dei nascenti movimenti irredentisti, tanto più antiasburgici dopo l’esecuzione del giovane triestino Guglielmo Oberdan accusato nel 1882 di attentare alla vita dell’imperatore.

Forte della Triplice e dell’interessata benevolenza britannica in chiave antifrancese, l’Italia intraprese l’espansione coloniale in Africa orientale. Già nel 1882 lo Stato acquistò dalla ditta Rubattino un lembo della baia di Assab e numerose missioni esplorarono i territori interni. Perciò, quando nel 1885 il governo inviò un piccolo contingente in Eritrea l’azione fu presentata sia come il complemento dell’attiva politica estera avviata in Europa sia come una vendetta per l’uccisione di alcuni esploratori da parte di tribù locali.

La spedizione fu subito contestata sia dai settori anticolonialisti e irredentisti della Sinistra sia dai vertici militari, preoccupati dagli obiettivi poco chiari e dall’impreparazione per una simile campagna. Eppure le truppe italiane presero Massaua senza suscitare molte resistenze, grazie all’abitudine degli eritrei alla presenza europea e alla prudenza dei comandi nel non alterare i locali equilibri interetnici. Ma ciò durò solo finché la successiva avanzata verso l’interno non irritò il vicino Impero di Etiopia (noto come Abissinia), spingendo il ▶ ras Alula a massacrare 500 soldati italiani a Dogali e a ricacciare l’invasore verso la costa nel gennaio del 1887 [ 12].

  fenomeni

La narrativa per ragazzi nell’Italia unita

Due sono i libri per ragazzi che più contribuirono a trasmettere un’immagine dell’Italia ormai affratellata e a suggerire un modello comportamentale fondato sul rispetto delle regole e delle gerarchie: Cuore (1886) di Edmondo De Amicis e Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1883) di Carlo Collodi.

Pinocchio

Pinocchio fu in realtà accolto malissimo dal perbenismo dell’epo­ca per l’indulgenza nei confronti dell’ingenuo e incauto protagonista, per la malcelata simpatia verso gli imbroglioni e per il suo fastidio per la retorica, le ingiustizie e il conformismo. Eppure, le peripezie avrebbero insegnato al burattino impertinente che il solo modo per diventare umano trasformandosi in bambino era obbedire all’autorità (il padre Geppetto, i carabinieri prima derisi) e alla propria coscienza, rappresentata da quel Grillo parlante che sin dall’inizio ammoniva: «Guai a quei bambini che si ribellano al papà e alla mamma. Che non hanno voglia di studiare e finiranno per diventare asini!».

Il libro Cuore

Meno vivace e più dichiaratamente pedagogico era invece Cuore, che narrava in forma diaristica l’anno di scuola vissuto da un ragazzo borghese a Torino nel 1881-82. Con un linguaggio accessibile alle classi medie e un sentimentalismo stucchevole ma mirato a “educare attraverso le emozioni”, il romanzo esaltava le strutture coesive di una nazione ordinata e priva di tensioni. La famiglia era vista come cardine di un’azione educativa laica e complementare a quella dello Stato. L’esercito era celebrato descrivendo l’ammirazione destata dalle parate. La memoria del Risorgimento era invece rinverdita in due modi. Da un lato narrando episodi di eroismo giovanile, equamente distribuiti fra le regioni per mostrarne il contributo alla causa nazionale (la Vedetta lombarda, il Tamburino sardo). Dall’altro con medaglioni che ne presentavano i protagonisti come figure paterne e martiri della patria, complementari fra loro in un Risorgimento voluto dalla provvidenza e incarnato nel liberalismo di Carlo Alberto, nell’eroismo di Vittorio Emanuele II e nella bontà di Umberto I. La scuola era infine descritta come il luogo dove maestri severi ma amorevoli insegnavano i valori del buon cittadino, l’amor patrio, la “santità del lavoro” e il rispetto delle regole, mentre fra i banchi trovavano naturale e pacifica composizione le dif­ferenze sociali e regionali che avrebbero altrimenti minato l’unità della nazione e il benessere collettivo.

  fenomeni

La nascita dell’educazione fisica

La ginnastica fu introdotta a scuola nel 1878 dal ministro della Pubblica istruzione e critico letterario Francesco De Sanctis (1817-83) come mezzo per rigenerare i costumi in base al principio mens sana in corpore sano. Essa si ispirava al modello tedesco di attività fisica per la preparazione alla guerra patriottica, importato nel Regno di Sardegna dal ginnasta svizzero Rudolf Obermann.

Tuttavia, nel clima nazionalista e bellicista degli anni Ottanta, la ginnastica accentuò ulteriormente la sua vocazione di preparazione al servizio militare. I programmi introdotti nel 1886 rafforzarono infatti la collaborazione fra il ministero della Guerra e quello dell’Istruzione nel definire i contenuti della materia, favorendo l’assunzione di ex sottufficiali come insegnanti e conformando gli esercizi a quelli in uso nell’esercito: marce e corpo libero si imposero su attività più giocose e sugli sport di squadra, che si andavano invece affermando all’estero. Fare ginnastica sin da piccoli divenne così un modo per «abituare l’alunno all’obbedienza pronta ed assoluta» (dizione non a caso ripresa dal regolamento disciplinare dell’esercito) e un antidoto alla “degenerazione fisica” che i fisiologi del tempo attribuivano alle vite agiate delle classi medioalte.

Solo con i programmi del 1893 e con la legge Daneo del 1909 le critiche a un’impostazione della ginnastica ormai obsoleta e all’impreparazione dei docenti trovarono risposte, pur parziali. Fu stabilito un percorso formativo più rigoroso per gli insegnanti e si avviò un mutamento di paradigma pedagogico che dette più spazio ai giochi di squadra. Proprio questa nuova concezione suggerì il cambio di nome da “ginnastica” a “educazione fisica”, sottintendendo la più ampia valenza educativa dell’attività fisica ma senza negarne né la funzione disciplinante né gli stretti nessi con il mondo militare.

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Crisi agraria, sviluppo industriale e politiche economiche

A far nuovamente lievitare il deficit pubblico dopo il pareggio di bilancio conseguito nel 1876 non furono soltanto il notevole incremento delle spese militari, la riduzione della pressione fiscale e le elargizioni legate al trasformismo. Furono non di meno gli investimenti statali volti alla modernizzazione e allo sviluppo infrastrutturale.

Mancavano ancora efficaci e coerenti politiche di gestione dell’ambiente e delle calamità [▶ fenomeni, p.  454], ma furono intensificate le campagne per diffondere igiene e medicalizzazione; varie città subirono profondi interventi urbanistici per renderle più salubri; migliorarono le comunicazioni e la rete telegrafica [ 13]. Inoltre, il pil derivante dall’agricoltura scese in favore di quello legato a industria e servizi, sebbene nel 1881 il 60% della popolazione fosse ancora impiegato nel primario.

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Ancora una volta, la modernizzazione toccò con diversa intensità uomini e donne, e le varie aree del paese. Mentre infatti gli uomini erano già più scolarizzati e beneficiavano pure dell’azione di incivilimento legata al servizio militare, le donne seguitavano a scontare i pregiudizi che ne limitavano la medicalizzazione, ne indirizzavano l’impiego in settori “femminili” (assistenza, istruzione elementare), ne riducevano i salari quando occupate nell’industria o le relegavano in casa, dove erano peraltro subordinate per legge nella gestione patrimoniale e persino nelle scelte relative ai figli.
Allo stesso modo restavano evidenti le differenze regionali: l’inchiesta svolta tra il 1877 e il 1886 dal senatore Francesco Jacini mostrò la generale arretratezza dell’agricoltura italiana e le persistenti disparità di reddito e qualità della vita fra vaste aree del Mezzogiorno e le zone lombardo-piemontesi più meccanizzate e produttive. Assieme alle riflessioni di alcuni intellettuali, ciò non solo contribuì a connotare la “questione meridionale” in senso più economico e meno antropologico-sociale, ma anche a elevarla a emergenza nazionale, invocando provvedimenti per non rallentare lo sviluppo del paese e per prevenire rivolte fra le misere “plebi agricole”.

La già precaria situazione socioeconomica peggiorò a partire dagli anni Ottanta, quando le massicce importazioni di cereali statunitensi (decuplicate fra 1880 e 1887) fecero crollare di oltre un terzo i prezzi del grano, la redditività delle terre e la produzione di cereali (-25% in 10 anni). In aree rurali già in esubero demografico ciò si aggiunse allo sviluppo dei mezzi di trasporto [▶ cap. 10.1] e alla dura repressione governativa nei confronti delle manifestazioni di dissenso contadino, portando all’emigrazione quasi 14 milioni di persone fra il 1881 e il 1914 [ 14].

Parallelamente, la crisi alimentò le richieste di dazi dei produttori di area padana, presto cavalcate da imprenditori settentrionali e latifondisti meridionali colpiti anche dall’aumento della tassa fondiaria dopo l’aggiornamento dei catasti nel 1886 (nei vecchi non comparivano i terreni demaniali nel frattempo acquisiti da molti proprietari).

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In risposta a tali richieste e ad analoghe politiche straniere, nel 1887 il governo fissò tariffe doganali su grano e vari prodotti industriali. La svolta protezionista non era parte di un coerente programma economico ma ebbe conseguenze importanti sugli assetti e sugli equilibri socioeconomici italiani. Alcune furono certo negative:

  • il prezzo del grano aumentò, con danno per i consumatori;
  • la tutela dalla concorrenza straniera consentì la sopravvivenza di aziende di piccole dimensioni e di imprese poco competitive;
  • si inasprirono i rapporti con i partner commerciali tradizionali e si scatenò una vera e propria guerra doganale con la Francia, che penalizzò soprattutto le esportazioni di seta e di prodotti agricoli del Mezzogiorno: un colpo letale per la parte più viva dell’economia meridionale.

Il protezionismo favorì però sia la meccanizzazione delle aziende agricole, cui l’emigrazione toglieva manodopera a buon mercato, sia l’industrializzazione del Nord: uno slancio cui contribuirono le ▶ commesse statali legate alle forniture militari e l’afflusso di capitali che gli investitori stranieri e italiani ora preferivano impegnare in società industriali, piuttosto che in terre rese meno redditive dal calo dei prezzi del grano e dalle maggiori difficoltà nell’esportare beni agricoli.

Nel complesso, queste dinamiche aumentarono il divario fra Nord e Sud, cementando un nuovo blocco di potere composto dalla classe dirigente della Sinistra, dai grandi proprietari terrieri e dalla borghesia commerciale e imprenditoriale.

Vecchi e nuovi contestatori
A denunciare quest’alleanza e a contestare un’opera riformatrice insufficiente ad attenuare il crescente disagio sociale furono i repubblicani e la cosiddetta “Estrema”, ossia il composito insieme delle forze politiche della Sinistra radicale.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900