13.3 Unità al Centronord: la guerra del 1859 e le annessioni

13.3 Unità al Centronord: la guerra del 1859 e le annessioni

Alla vigilia dell’unificazione

Ancora negli anni immediatamente precedenti l’unificazione territoriale del 1861, gli elementi di coesione nazionale fra gli abitanti della penisola risultavano davvero tenui. E la stessa nozione di Italia restava quella vaga celebrata nelle arti e condivisa solo da una ristretta cerchia di colti esponenti dei ceti più agiati [▶ altri LINGUAGGI]. Certo, esisteva una secolare tradizione letteraria in italiano e il cattolicesimo era ovunque la confessione dominante. Ma i fattori divisivi erano molti di più e non si limitavano alla molteplicità degli Stati e alle peculiarità giuridiche, politicoistituzionali e socioeconomiche di ognuno. Pesavano infatti:

  • il diffuso analfabetismo (78%), la piccola percentuale di italofoni (meno del 10%) e la pluralità dei dialetti parlati nella penisola;
  • i sentimenti identitari maturati in alcune popolazioni (siciliani, sardi, genovesi, veneziani), frutto di tradizionali campanilismi o reazione alla sottomissione a dinastie percepite come straniere;
  • i contrastanti interessi economici dei diversi Stati e delle loro élite imprenditoriali e mercantili, che commerciavano molto più con partner stranieri che fra loro (solo l’11,8% dell’export delle Due Sicilie restava in Italia), non considerando perciò l’unificazione come un obiettivo funzionale allo sviluppo di un vantaggioso mercato comune.

Alle differenze si aggiungevano i limiti organizzativi e di analisi politica che impedivano la nascita di un movimento rivoluzionario interclassista su scala nazionale. Il che riduceva la gran parte dei tentativi insurrezionali a velleitari gesti di eroismo chiusi in angusti confini locali, ideologici e socioculturali.

A fine anni Cinquanta, i ripetuti fallimenti avevano ormai screditato pure l’impostazione mazziniana, spingendo Manin, Garibaldi e altri patrioti ancora in fondo repubblicani ad accettare un’alleanza tattica con la monarchia sabauda. Nel 1857 nacque così la Società nazionale italiana, un’organizzazione guidata dal marchese Pallavicino Trivulzio (poi da Giuseppe La Farina), finanziata segretamente dal governo sardo e con ramificazioni clandestine in tutta Italia, il cui scopo era appunto ottenere l’indipendenza mediante l’aiuto dei Savoia.

In queste condizioni, solo le iniziative diplomatico-militari sabaude potevano avviare l’unificazione: un processo i cui esiti sarebbero però andati ben oltre gli accordi con la Francia, gli auspici britannici, i desideri di larga parte della classe dirigente moderata e i progetti dello stesso Cavour, che sino all’ultimo non smise di bollare come “corbelleria” l’idea garibaldina di un’Italia tutta unita sotto Vittorio Emanuele.

La guerra del 1859
In preparazione della guerra contro l’Impero asburgico, il governo sabaudo non solo mobilitò le truppe, accogliendo migliaia di volontari provenienti in larga parte dai ceti medi lombardo-veneti, ma provocò anche gli Asburgo con il discorso del gennaio 1859 in cui Vittorio Emanuele si diceva «non insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi».

Il 23 aprile il governo asburgico lanciò allora un ▶ ultimatum, convinto di poter facilmente avere la meglio sui piemontesi anche senza alleati, dato che i rapporti con lo zar erano cattivi e gli Stati della Confederazione germanica garantivano aiuto ai membri solo in caso di guerra difensiva. Cavour non attendeva altro: ignorò la richiesta di disarmo e lasciò che il nemico aprisse le ostilità. Iniziava così un conflitto che – più per i suoi esiti che per le intenzioni sabaude – fu in seguito riconnesso alla guerra del 1848-49 e chiamato “Seconda guerra d’indipendenza”.

I comandi asburgici accelerarono le manovre nel tentativo di anticipare l’arrivo dei francesi, ma Napoleone III era già pronto. Aveva i 200 000 uomini concordati a Plombières, che poté lanciare subito in battaglia grazie alle ferrovie piemontesi. E aveva pure il sostegno interno e internazionale, poiché poteva presentare il suo intervento come il generoso soccorso del suo regime filoliberale a un piccolo Stato aggredito da una grande potenza assolutista, sorda alle istanze nazionali.

Fra il 20 maggio e il 24 giugno, mentre il corpo di volontari guidato da Garibaldi conquistava Bergamo e Brescia, i franco-piemontesi s’imposero in diverse occasioni ed entrarono a Milano. Anche se a Magenta [ 8] e soprattutto a Solferino riportarono così tante perdite (5000 morti, 23 000 feriti e 11 000 dispersi o prigionieri) da turbare tutt’Europa, suggerendo la necessità di un organismo internazionale dedito all’assistenza dei feriti di guerra [▶ fenomeni].

Nel frattempo, cavalcando l’entusiasmo per i primi successi, i democratici e gli affiliati alla Società nazionale avevano scatenato insurrezioni capaci di cacciare le autorità papaline dall’Emilia Romagna e i sovrani di Parma, Modena e della Toscana, tutti prontamente rimpiazzati da governi provvisori e da delegati del governo sabaudo.

Sommate all’annessione della Lombardia, che Cavour aveva effettuato richiamandosi all’esito del plebiscito del 1848 [▶ cap. 11.6], proprio le impreviste iniziative in Centro Italia portarono però alla conclusione anticipata della guerra. Troppe considerazioni suggerivano infatti a Napoleone III di tirarsi indietro:

  • un’Italia sabauda così estesa non era prevista dagli accordi di Plombières e cancellava ogni speranza francese di controllo indiretto sulla penisola;
  • massicci contingenti prussiani erano segnalati al confine francese e, non essendo riuscito a tramutare la neutralità zarista nell’impegno a impedire un intervento della Prussia, rischiava l’imminente apertura di un secondo fronte;
  • in Francia cresceva il malumore tanto di conservatori e cattolici, turbati per le terre sottratte al papa e per la nascita di un grande Stato liberale, quanto dei liberali, inizialmente favorevoli all’iniziativa ma poi perplessi dai costi economici e umani di un conflitto senza adeguati ritorni territoriali.

Così, mentre le sorti della guerra sembravano segnate e una flotta sabauda si stava avvicinando alle coste veneziane, l’imperatore francese chiese e ottenne da quello asburgico una pace separata: la Francia riceveva la Lombardia, da trasferirsi al Regno di Sardegna in cambio di Nizza, della Savoia e della restituzione ai legittimi sovrani dei territori insorti. L’Armistizio di Villafranca (11-12 luglio 1859) e la sua ratifica da parte di Vittorio Emanuele spiazzarono Cavour che, pur conscio di non poter proseguire la guerra da solo, si dimise sdegnosamente.

Tuttavia, né Vienna né Parigi avevano la forza di interrompere il processo di adesione degli Stati centroitaliani al Piemonte, ormai guidato dai moderati. Tanto più che l’Impero russo e la Prussia erano restii a contrastare uno sviluppo che indeboliva il concorrente asburgico, mentre il Regno Unito era a sua volta reduce dallo sforzo per domare la rivolta indiana del 1857-58 [▶ cap. 12.2] e guardava con favore a un Centronord Italia sottratto tanto all’influenza asburgica quanto a quella francese.

Fu così che, tornato subito al governo, Cavour poté organizzare i plebisciti necessari a ratificare la situazione e a prevenire iniziative repubblicane, municipaliste o autonomiste che spaccassero il fronte rivoluzionario come nel Quarantotto [▶ cap. 11.5].

Nel marzo 1860 si tennero così quelli che sancirono a larghissima maggioranza l’annessione di Parma, Modena, della Romagna e della Toscana al Regno di Sardegna: momenti di eccezionale partecipazione e valenza politica, grazie al suffragio universale maschile e alla notevole mobilitazione femminile per favorire l’affluenza ed esprimere informalmente la propria adesione. Il che confermava il peso delle donne all’interno del movimento risorgimentale quali motori dell’adesione agli ideali patriottici oltre che come organizzatrici di salotti, scrittrici, messaggere, infermiere e guerriere.

Solo a risultato acquisito, in aprile, furono invece organizzate le consultazioni che, nonostante le pubbliche rimostranze di Vittorio Emanuele, con altrettanto consenso sancirono la cessione alla Francia di Nizza e della Savoia [ 9].

altri linguaggi

L’Italia prima dell’Italia: discorsi nazionali prima dell’unificazione

Le radici dell’Italia nella tradizione letteraria

Che l’Italia non fosse solo «un’espressione geografica», come pensava il cancelliere asburgico Metternich, lo dimostrava una lunga tradizione letteraria e iconografica che accomunava Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini e tanti altri nell’aspirazione a una penisola unita e nella supposizione della sua sostanziale omogeneità culturale e religiosa.

Il canone risorgimentale

Fu però solo con la fine del Settecento e con l’esperienza napoleonica che il parlare di “Italia” assunse un valore compiutamente politico e la prospettiva di un paese unito e libero da dominatori stranieri iniziò a fondarsi sull’idea che gli italiani costituissero una comunità nazionale. Nuove accezioni furono allora date a “nazione” e “patria”, termini che cominciarono a esser riferiti a entità più ampie del villaggio o della città natale. Parallelamente un filone pittorico “risorgimentista” si fece strada grazie ad artisti come Francesco Hayez (I vespri siciliani, Il bacio) e la critica letteraria alimentò la polemica contro i forestierismi, descritti come strumento della Francia e dell’Impero asburgico per soffocare il desiderio di indipendenza italiano.

Tuttavia, ad alimentare il discorso nazionale prima dell’unificazione furono soprattutto i tanti testi letterari in cui temi interpretabili in senso patriottico e il richiamo all’Italia assumevano la valenza di una vera e propria pedagogia nazionale e di un invito alla mobilitazione per ottenere l’unità. Nel 1818, per esempio, Giacomo Leopardi scrisse la poesia All’Italia, personificata in una «formosissima donna […] negletta e sconsolata» in quanto soggiogata dallo straniero, ma appunto conscia di sé e destinata all’indipendenza. In questa chiave venivano lette pure altre poesie, come quelle di Giovanni Berchet o di Alessandro Manzoni (Marzo 1821); le tragedie antitiranniche di Vittorio Alfieri, quelle di Silvio Pellico (Francesca da Rimini) nonché l’Adelchi e Il conte di Carmagnola dello stesso Manzoni; romanzi come le Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi, il Platone in Italia di Vincenzo Cuoco e i lavori di Massimo d’Azeglio (Ettore Fieramosca e Niccolò de’ Lapi ). Senza dimenticare le memorie di patrioti (Le mie prigioni di Silvio Pellico) né i fremiti nazionalisti che percorrevano il melodramma, un genere di successo non solo fra le élite: Gaetano Donizetti (Marin Faliero), Gioacchino Rossini (Guglielmo Tell ) e Vincenzo Bellini (I Puritani) evocavano infatti il caso italiano celebrando la lotta per la libertà politica o religiosa, mentre Giuseppe Verdi divenne un ideale punto di riferimento del movimento nazionale (il suo nome veniva utilizzato come un acronimo in un mascherato slogan patriottico, leggendo “Viva Verdi” come “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”) grazie a opere come I lombardi alla prima crociata, La battaglia di Legnano, I Vespri siciliani e soprattutto il Nabucco, il cui coro Va’, pensiero fu presto usato come canto patriottico.

Integrato da opere straniere di autori quali Heinrich Heine, Jean-Jacques Rousseau, George Byron e Walter Scott, questo insieme di prodotti culturali finì per costituire quel “canone risorgimentale” che, pur nella sua eterogeneità, costruì una narrazione sostanzialmente coerente della nazione italiana. Contribuivano a costituirla temi e figure di grande presa emotiva: l’esistenza provvidenziale della nazione; il suo antichissimo e glorioso passato; il suo risveglio eroico dopo secoli di decadenza; la coesione derivante dal patto fondativo teso a restituirle dignità con l’uso delle armi; l’identificazione della comunità nazionale come comunità di fratellanza e di discendenza; infine, l’associazione simbolica della patria a figure femminili (madre, compagna) che occorreva difendere dalla barbarie straniera mediante ribellioni collettive o scontri individuali ricalcati sulla tradizione aristocratica del duello.

Una tradizione funzionale al progetto nazionale

Il successo di questi scritti fra le élite non voleva dire che la maggioranza della popolazione fosse italofona o si sentisse italiana, né che con il termine “Italia” gli intellettuali, che pure consideravano la comune nazionalità un dato naturale e oggettivo (magari perché creata da Dio), intendessero la stessa cosa e riuscissero a darne una definizione precisa. Tuttavia, il “canone” fu centrale nella formazione culturale e nella costruzione identitaria di molti fra coloro che lottarono per l’unità. In più, esso permise al movimento risorgimentale di fondare la pretesa esistenza di una nazione italiana su una tradizione intellettuale che dal Medioevo giungeva al XIX secolo ed era effettivamente condivisa dalle élite dei diversi Stati preunitari: un materiale vasto e di grande valore artistico, che poteva essere ricostruito, interpretato e infine ampliato in modo da risultare perfettamente funzionale al progetto nazionale. Si trattava, non a caso, dell’operazione compiuta da uno dei testi più rappresentativi e di maggior successo del Risorgimento: il carme Dei Sepolcri di Foscolo.

  fenomeni

La Croce Rossa

Nel giugno del 1859 Jean-Henry Dunant (1821-1910) raggiunse Napoleone III durante la sua campagna in Italia al fine di ottenere appoggio per i suoi affari. Si trovò così per caso ad assistere i feriti della battaglia di Solferino, che nel 1862 avrebbe poi descritto nel suo Un ricordo di Solferino come «una lotta corpo a corpo, orribile, spaventevole […] un macello, un combattimento di belve feroci, furibonde ed ebbre di sangue».

La cruda narrazione di quella carneficina e la notizia che molte perdite erano in realtà dovute al­l’inadeguatezza dei servizi sanitari indignarono tutt’Europa. E ciò dette una certa eco sia al Comitato internazionale di soccorso ai militari feriti fondato dallo stesso Dunant con altri quattro svizzeri, sia alle due conferenze che questi organizzò a Ginevra nel 1863 e nel 1864. Nonostante la freddezza di governi e gerarchie militari, le conferenze portarono a una Prima Convenzione di Ginevra, che impegnava i (pochi) Stati firmatari a curare i feriti indipendentemente dalla nazionalità e garantiva a chi portava il simbolo della Croce Rossa su sfondo bianco l’immunità da atti ostili.

Alla convenzione seguì il mol­tiplicarsi di comitati nazionali, spesso incoraggiati da governi che ne facevano la prova della propria superiorità morale. Mentre dunque il suo progetto conosceva una diffusione globale (nel 1881 nacque la Croce Rossa americana), l’ormai residuale attenzione prestata ai propri affari e i dissi­di con il cofondatore Gustave Moynier portarono Dunant prima al fallimento e poi all’espulsione dal Comitato. Ricercato per bancarotta fraudolenta, dovette fuggire da Ginevra ma, nel 1901, gli venne attribuito il primo premio Nobel per la pace (altri tre furono assegnati all’organizzazione nel 1917, nel 1944 e nel 1963).

Aggiornata e rivista la Prima Convenzione ginevrina grazie alle successive convenzioni dell’Aia (1899 e 1907) e di Ginevra (1906, 1929 e 1949), la Croce Rossa avrebbe svolto un prezioso compito umanitario in tutti i principali conflitti del XX secolo, mentre la costituzione della Lega delle Società della Croce Rossa nel 1919 ne estese l’azione al tempo di pace. Più recenti sono invece sia la definizione di una Dottrina della Croce Rossa (1962) e dei suoi sette principi cardine (umanità, imparzialità, neutralità, indipendenza, volontarismo, unità e universalità), sia la ridenominazione della Lega in Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa (1991).

Da un viaggio d’affari andato male (Napoleone III infatti non lo aveva nemmeno ricevuto) era nato così il più grande movimento umanitario del mondo, oggi composto da oltre 90 milioni di volontari.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
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Dal 1715 al 1900