13.1 Gli Stati italiani dopo il Quarantotto

Per riprendere il filo…

Sin dalla Restaurazione società segrete e altre organizzazioni avevano perseguito riforme liberali e maggior integrazione fra gli Stati della penisola. Le fallite insurrezioni del 1820-21 e del 1830-31 avevano però mostrato non solo le spaccature ideologiche, municipaliste e sociali al loro interno, ma pure il modesto seguito popolare, soprattutto nelle campagne. Il Quarantotto, la guerra austro-piemontese e l’effimera esperienza della Repubblica romana avevano poi confermato questi limiti, evidenziando anche l’inattuabilità dei progetti democratico-mazziniani, l’inadeguatezza militare del Regno di Sardegna e il suo isolamento diplomatico: le grandi potenze erano ormai lontane dal “concerto europeo”, ma erano restie a stravolgere lo status quo geopolitico in nome del principio di nazionalità.

13.1 Gli Stati italiani dopo il Quarantotto

Gli Stati del Centro Italia
Dopo il Quarantotto, nella penisola italiana [ 1] come altrove in Europa vi fu una sorta di seconda e ancor più rigorosa restaurazione, con molti sovrani che irrigidirono le misure repressive, censurarono il dibattito pubblico e costrinsero all’esilio i simpatizzanti della causa liberale e nazionale.
Nel Granducato di Toscana, Leopoldo II d’Asburgo-Lorena abrogò lo Statuto, ripristinò la pena di morte e sedò la rivolta scoppiata a Livorno contro le truppe d’occupazione asburgiche rimaste dopo la rivoluzione: una stretta che gli alienò le simpatie dei liberali, ma non impedì un certo sviluppo economico. La terra restava nelle mani di una ristretta minoranza di possidenti restii a investire, ma i contratti mezzadrili garantivano ai contadini affittuari condizioni di vita meno misere che in altre aree, nonostante la bassa produttività delle loro colture. Inoltre, qua e là si potevano anche trovare élite non prive di capacità imprenditoriali, piccoli proprietari terrieri, una pur arcaica industria mineraria e una rete ferroviaria che, iniziata negli anni Quaranta, veniva ora estesa in modo lento ma più sistematico e organico.

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Abbandonata la causa nazionale, anche Pio IX assunse posizioni reazionarie, sottolineate da diversi gesti simbolici [ 2]. Forte della protezione francese e asburgica, il papa annullò tutti gli atti della Repubblica romana e reintrodusse sia la pena capitale sia le discriminazioni contro gli ebrei (ghettizzazione, tasse inique). A ciò accompagnò una sempre più massiccia campagna tesa a contrastare la secolarizzazione della società europea, a denunciare i mali della modernità [▶ cap. 10.5], a smentire le dottrine socialiste e a rafforzare il ruolo della Chiesa all’estero attraverso concordati con diversi paesi (Impero russo e asburgico, Spagna, Portogallo).
Il Lombardo-Veneto asburgico
Ancor più dura fu la repressione messa in pratica nel Lombardo-Veneto, dove il neogovernatore Radetzky impose alla popolazione una tassa punitiva di 20 milioni di lire austriache, escluse dall’amnistia i principali responsabili della rivoluzione, ne fece giustiziare 27 e sequestrò i beni di coloro che erano emigrati dopo il Quarantotto. Il pugno di ferro di Radetzky fomentò un’insofferenza antiasburgica che fondeva spesso confusamente antiassolutismo, autonomismo, principio di nazionalità e ragioni socioeconomiche.

Il regno manteneva infatti un discreto livello di industrializzazione, una buona rete infrastrutturale e un’amministrazione efficiente, ma scontava la sua subordinazione alle esigenze economiche e politiche dell’impero in cui era inserito.

Le masse rurali e urbane soffrivano il ripristino della leva per garantire soldati all’esercito ed erano il principale oggetto delle misure a tutela dell’ordine pubblico. Industriali e commercianti risentivano invece delle politiche fiscali sfavorevoli e del protezionismo con cui il governo asburgico tutelava le produzioni austriache. Infine, gli aristocratici locali e i funzionari inviati da Vienna precludevano alla borghesia profes sionale lombardo-veneta l’accesso ai vertici dell’amministrazione, acuendone la frustrazione corporativa e la percezione di un dominio oppressivo e straniero.

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Tale malcontento serpeggiava nella stampa clandestina, nei salotti e nei teatri ma, dopo lo scacco del Quarantotto, stentava a tradursi in nuove rivolte per tre ragioni:

  • l’accresciuta produttività delle aziende agricole compensò i danni procurati ai contadini dallo smantellamento delle strutture feudali e dagli abusi della nobiltà terriera;
  • l’efficace controllo dello Stato stroncò sul nascere ogni scontro – dentro le comunità locali e fra queste – che potesse degenerare in più ampie sommosse;
  • benché più politicizzata di altre, la popolazione lombardo-veneta non sostenne nessuna delle iniziative mazziniane di questi anni, prevenute da una polizia efficiente oppure stroncate con plateali esecuzioni come a Mantova (1852 e 1855) e a Milano (1853).
Il Regno delle Due Sicilie
La risposta alla rivoluzione fu ancor più dura nelle Due Sicilie. Il bombardamento di Messina nel 1848, la sospensione della Costituzione, i processi politici e l’esilio di rivoltosi e noti intellettuali (Francesco Crispi, Giuseppe La Farina, Carlo Poerio) guadagnarono a Ferdinando II il soprannome di “re bomba” e la rottura delle relazioni diplomatiche con il Regno Unito e la Francia [ 3]. Inoltre, un centralismo e un autoritarismo ancor più reazionario di prima non solo accrebbero l’inefficienza e gli arbitri degli apparati amministrativi, ma lasciarono che il re fosse influenzato non dai segmenti sociali più dinamici, quanto dalle vecchie élite illiberali e dal clero legittimista: condizionamenti che si sommavano alla paura che Ferdinando aveva delle incontrollabili plebi urbane, soprattutto napoletane.

Più articolato era il quadro socioeconomico. Napoli restava un universo a sé. La città era un immenso mercato di consumo, il principale porto del paese, un attivo centro culturale, un’apprezzata meta turistica e la sede di una folta corte e di una sin troppo ampia burocrazia. Ma era anche percorsa dall’insofferenza degli intellettuali, della borghesia professionale e dei ceti medi per la stretta repressiva, la povertà, la criminalità e i problemi sanitari che affliggevano le antiquate strutture urbanistiche di una delle più grandi metropoli europee (450 000 abitanti, quanti Torino, Milano e Bologna assieme).

Fuori dalla capitale si alternavano a macchia di leopardo aree escluse dallo sviluppo mercantile ottocentesco e aree al contrario agganciate a queste dinamiche: a volte passivamente, altre volte invece capaci di decidere le strategie produttive e trattenere sul territorio almeno una quota dei profitti.

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I problemi erano però tanti, peraltro aggravati dalla sfavorevole congiuntura economica dei tardi anni Cinquanta. La cerealicoltura, che si stava estendendo a danno di produzioni più costose, restava a bassa produttività, sempre più soggetta alle fluttuazioni dei mercati e non competitiva rispetto ai principali esportatori.

Il regno restava subordinato agli interessi commerciali delle grandi potenze anche in altri settori. Era difficile ottenere credito da un sistema bancario povero, concentrato nella capitale e per lo più in mano straniera. Infine, le strade erano poche e insicure, mentre la rete ferroviaria era limitata alla Napoli-Portici e ad alcuni ampliamenti anch’essi dettati da ragioni di prestigio più che da utilità economica. Né le prospettive di crescita erano rosee, dal momento che gli investimenti pubblici erano minimi: da un lato per l’alto debito pubblico, gravato dagli interessi dovuti ai Rothschild per i prestiti degli anni Venti [▶ cap. 9.1]; dall’altro per la priorità data dal governo al mantenimento della tranquillità fra le turbolente plebi napoletane, ottenuta mediante una bassa pressione fiscale e approvvigionamenti alimentari garantiti a prezzi contenuti.

Il regno, però, poteva vantare anche alcune eccellenze. In qualche zona resistevano produzioni agricole di qualità (olio, agrumi, tessuti). C’erano importanti città portuali e miriadi di piccoli porti improvvisati sulle coste, dai quali passavano fitti traffici legali e di contrabbando. C’erano città come Bari, in grado di strutturare le proprie relazioni con i mercati e con il contado circostante emancipandosi dagli operatori napoletani. Non mancavano nemmeno alcuni impianti industriali di notevoli dimensioni, sebbene fossero per lo più gestiti dallo Stato o da imprenditori stranieri con il sostegno delle politiche protezioniste borboniche. Infine, non tutti i latifondi praticavano un’agricoltura estensiva e poco meccanizzata, dato che alcuni erano al contrario imprese capaci di stare sul mercato grazie alla pluralità di forme contrattuali che vi si applicavano, al basso costo della manodopera e alla coesistenza di colture per l’autoconsumo e per la commercializzazione.

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In questo contesto agivano le diverse forze che minavano la stabilità del regno. I movimenti liberali e democratici erano piuttosto deboli, falcidiati dalla repressione post 1848 e senza un seguito sufficiente. Perciò i loro tentativi insurrezionali furono tutti fallimentari, come la spedizione organizzata nel 1857 dal nobile napoletano Carlo Pisacane (1818-57). Reduce dalla Repubblica romana [▶ cap. 11.6] e convinto di guadagnare i ceti inferiori rurali alla causa nazionale connettendola alla lotta per la loro emancipazione socioeconomica, Pisacane e i suoi trecento compagni sbarcarono a Sapri con l’intento di suscitare una sollevazione popolare e poi marciare su Napoli. Ma, ancor prima che arrivassero le truppe borboniche, furono scambiati per briganti e aggrediti proprio dai contadini, sordi al discorso patriottico. Più forte era invece l’indipendentismo della “nazione siciliana”, che la feroce repressione sull’isola aveva rinfocolato e connotato in senso ancor più antiborbonico.

Infine, c’era la “questione demaniale”, ossia la tendenza dei nobili locali a negare arbitrariamente ai contadini l’uso gratuito dei beni comuni (terre, acque, foreste, strade). E questo atteggiamento fomentava violenza perché, in un contesto dove le norme erano spesso indeterminate e lo Stato stentava ad affermare la propria autorità, i notabili assumevano bande di contadini armati e banditi a difesa dei propri interessi e molte comunità difendevano a loro volta con le armi i diritti consuetudinari, che per molti costituivano delle risorse decisive per sopravvivere.

Insomma, l’economia meridionale presentava un quadro articolato sia sul piano territoriale sia sul piano settoriale. Tuttavia, nel complesso soffriva ancora molte criticità e non costituiva un sistema competitivo né rispetto alle aree più avanzate della penisola né rispetto ai più progrediti Stati europei [ 4]. A ciò si sommavano tensioni sociali e nazionali che covavano sempre più forti. E che suggerivano non solo ai federalisti di immaginare un ingresso graduale o limitato del Mezzogiorno in un’eventuale Italia unita [▶ cap. 11.5]. Eppure, ancora nei tardi anni Cinquanta, nulla lasciava prevedere un crollo del Regno borbonico.

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Il Regno di Sardegna
Diverso dal Mezzogiorno era il Regno di Sardegna, uscito dalla bufera quarantottesca e dalla guerra contro l’Impero asburgico con condizioni di pace non gravose e con un regime liberale. Le prime si dovevano all’esigenza asburgica di conservargli la funzione di Stato-cuscinetto in chiave antifrancese e di non indebolire troppo la monarchia sabauda all’interno e favorire così il rafforzamento del movimento democratico: una minaccia concreta, per reprimere la quale nell’aprile 1849 l’esercito era stato costretto a bombardare e saccheggiare Genova in rivolta.

La scelta di mantenere lo Statuto albertino e di garantire più libertà che altrove era invece frutto dell’opportunismo politico di Vittorio Emanuele II. In questo modo, infatti, egli faceva del Regno di Sardegna (in cui appena il 2% della popolazione era ammesso al voto) un punto di riferimento per le borghesie professionali, per una fetta di nobiltà e per gli esuli di altri Stati [▶ fenomeni], che potevano vedere nella fedeltà ai Savoia non solo una via di affermazione sociale attraverso carriere nella pubblica amministrazione, ma anche uno strumento per concretizzare le proprie istanze liberalnazionali.

Considerati i rischi corsi nel Quarantotto, per la monarchia si trattava di un risultato notevole. Anche se ciò comportò di fatto la rinuncia alle statutarie prerogative regie su nomina e mantenimento in carica del governo, che in questi anni cominciarono a dipendere dall’appoggio della maggioranza in parlamento come nei ▶ regimi parlamentari.

  fenomeni

L’esilio               

Identità, ruoli e ideologie

Nel corso dell’Ottocento furono diverse le persone che dovettero espatriare perché invise ai regimi italiani preunitari. In larga parte si trattava di esponenti politicizzati dei ceti medio-alti (nobili, borghesi, studenti), e che dunque potevano disporre di denaro, reti di relazioni e competenze necessarie per vivere a lungo all’estero.

La presenza in America e nelle capitali europee di personaggi come Santorre di Santarosa, Giuseppe Mazzini, Daniele Manin, Carlo Pisacane, Francesco Crispi e Carlo Cattaneo contribuì alla costruzione di un’idea condivisa di nazione italiana e a sensibilizzare alla causa nazionale opinioni pubbliche e governi stranieri, anche se non ne determinò davvero le decisioni. Inoltre, in società ospiti che fissavano in maniera meno rigida i ruoli di genere, molte donne (come Cristina Trivulzio Barbiano di Belgioioso) poterono partecipare attivamente al successo del movimento risorgimentale, andando ben oltre i compiti di compagne, madri ed educatrici.

All’estero gli esuli più arditi acquisirono esperienza militare e fama, come Garibaldi, mentre altri crearono associazioni (fra cui la Giovine Italia), raccolsero fondi, tennero comizi, diressero giornali, organizzarono salotti e soprattutto produssero scritti e opere che valorizzavano e diffondevano la cultura italiana, denunciavano l’illiberalità delle dinastie regnanti e sollecitavano la mobilitazione per l’unità.

Il fuoriuscitismo non fu però un fenomeno esclusivamente italiano né contribuì solo alla formazione di un senso di comune appartenenza alla nazione italiana. Espatriati polacchi, ungheresi, greci, spagnoli e irlandesi ebbero infatti una parte non meno importante nelle vicende dei loro paesi e l’esilio, mettendo in contatto persone di nazionalità, culture, retroterra e idee differenti, favorì la creazione di identità multiple (l’“italo-greco” Ugo Foscolo), concezioni di appartenenza nazionale non fondate su base linguistico-culturale, e vere e proprie comunità transnazionali.

Oltre alle appartenenze, a subire continue ridefinizioni e impensabili ibridazioni era anche la piattaforma ideologica degli esiliati, che – proprio grazie al serrato gioco di confronti – poteva essere declinata in modo funzionale ai singoli contesti oppure diventare strumento utile ad ampliare liberalismi e progetti politici originariamente concepiti in un’ottica municipalista.

Gli affetti

L’esperienza dell’esilio aveva però anche un’importante dimensione emozionale e affettiva. Memorie e biografie mostrano infatti la pressoché totale sovrapposizione fra destino personale e nazionale degli esiliati, seppur vissuta diversamente in base al ceto, al genere, alla storia e all’indole dei singoli individui. I fuoriusciti mantenevano con le famiglie in patria rapporti diversi. Alcuni ne erano sostenuti idealmente e materialmente. Altri invece vi entravano in aperto conflitto, o per la mancata condivisione delle idee politiche (dei fratelli Pisacane, uno era legittimista, l’altro cospiratore) o per i danni provocati ai congiunti (confische, sorveglianza, discredito).

Allo stesso modo, l’esilio e persino la prigionia potevano essere occasioni per stringere unioni durature, come quelle fra Jessie White e Alberto Mario o fra Anita e Giuseppe Garibaldi. Al tempo stesso, però, potevano anche spezzare rapporti altrimenti solidi e costringere a scelte dolorose: a volte l’amore rappresentava un inaccettabile vincolo alla libertà di movimento e d’azione che la causa nazionale richiedeva, spingendo esuli eccellenti come Mazzini a «strapparsi il cuore dal petto» per non ostacolare l’adempimento dei «doveri verso la Patria».

Fu dunque grazie alle decisioni difficili, alle sofferenze e all’instancabile impegno di queste persone che una parte dell’unità d’Italia fu preparata e in seguito compiuta all’estero.

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13.2 Da Stato-cuscinetto a potenza regionale: il Piemonte di Cavour

Cavour dagli esordi al “connubio”

Già a inizio anni Cinquanta, la vicenda politica ed economica del Regno di Sardegna prese una direzione diversa da quella di tutti gli altri Stati della penisola. A incarnarla fu Camillo Benso conte di Cavour (1810-61), un ex ufficiale aristocratico reduce da un lungo viaggio fra Svizzera, Francia e Regno Unito durante il quale aveva consolidato le sue competenze tecnico-commerciali e rafforzato il laicismo, la fede nel liberismo, l’apprezzamento per la modernità e le convinzioni liberali già espresse in gioventù [▶ cap. 9.3].

Già ministro dell’Agricoltura e del Commercio nel governo guidato da Massimo d’Azeglio, grazie all’acume politico e alla capacità di negoziazione, nel 1852 Cavour riuscì a diventare presidente del Consiglio sfruttando le spaccature nella sinistra per stringere un accordo con la sua parte moderata guidata da Urbano Rattazzi (1808-73): una mossa necessaria per prendere così le distanze dai conservatori, ormai schiacciati sulle posizioni reazionarie prevalenti in Europa dopo il Quarantotto.

Per quanto nuovo nella prassi parlamentare e perciò polemicamente battezzato “connubio” dai suoi critici, questo “matrimonio” politico era espressione di due dati convergenti. Da un lato emergevano nella classe dirigente moderata alcuni orientamenti comuni: predilezione per regimi liberalcostituzionali, favore a una guerra contro gli Asburgo per la Lombardia e apprezzamento per l’innovazione e lo spirito imprenditoriale. Dall’altro lato si evidenziava la progressiva integrazione fra le vecchie élite aristocratiche (in maggioranza cavouriane) e gli strati più elevati dell’universo produttivo-mercantile (per lo più rattazziani): gruppi disomogenei sul piano sociale ma che condividevano sempre più socialità, stili di vita e relazioni professionali.

Fu grazie al connubio che Cavour, abile a eludere il parlamento o usarlo per forzare la mano al re, poté imprimere la sua impronta a questa fase e perseguire i suoi scopi: modernizzare il paese, laicizzare lo Stato, impedire svolte illiberali, reprimere i tentativi sovversivi orchestrati dai mazziniani e conquistare al Regno di Sardegna una posizione centrale nello scacchiere diplomatico e geopolitico italiano [ 5].

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Un regno moderno, laico, liberale e “italiano”
Partendo da una situazione non troppo diversa da quella di altri Stati della penisola, sul piano economico Cavour ottenne grandi risultati: razionalizzò la contabilità statale e lavorò al ▶ pareggio di bilancio; abbassò unilateralmente i dazi doganali e strinse trattati di libero scambio con ben dieci paesi; riordinò il sistema creditizio e favorì l’impresa privata, senza però rinunciare al protezionismo e all’iniziativa statale nei settori ritenuti strategici. Il Regno sardo triplicò così il suo volume commerciale, dette forte impulso all’industrializzazione e allestì una ramificata rete ferroviaria interna e verso l’estero (nel 1857 iniziarono i lavori per il traforo del Fréjus verso la Francia), contraendo prestiti con i Rothschild e altre importanti banche senza però rimanerne succube.
Gli sforzi per laicizzare lo Stato erano invece stati avviati già prima, secondo le idee utilitaristiche [▶ cap. 1.3] dei liberali al governo e l’eredità antigesuitica del Quarantotto. Nel 1850 la legge Siccardi aveva infatti ridotto il numero delle festività religiose e abolito sia la ▶ giurisdizione speciale per gli ecclesiastici sia il diritto d’asilo nelle chiese. Tra il 1854 e il 1855, la feroce polemica antiliberale del clero contro la nuova norma, il bisogno di fondi e la volontà di ottenere il sostegno dei rattazziani a una politica estera più coraggiosa impressero un’accelerazione al processo di laicizzazione, portando all’abolizione degli ordini monastici contemplativi (non di quelli dediti all’assistenza e all’insegnamento) e alla nazionalizzazione dei loro beni. La legge inasprì i rapporti con la Chiesa (tutti i fautori della norma furono scomunicati), si rivelò assai impopolare e incontrò l’opposizione del re, che già mal sopportava Cavour. Il conte allora si dimise, ma Vittorio Emanuele non riuscì a trovare una maggioranza che sostenesse un governo alternativo e – per rispettare il sistema parlamentare – dovette affidargli di nuovo l’incarico, accettando l’approvazione della legge.

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La solida maggioranza parlamentare fondata sul connubio consentì a Cavour anche di resistere alle pressioni per una svolta illiberale invocata sia dai conservatori interni che dalle potenze vicine: l’Impero asburgico e quello appena creato in Francia da Luigi Napoleone con il nome di Napoleone III (lo vedremo più avanti), che temevano contagi rivoluzionari e chiedevano anche l’espulsione dei tanti esuli rifugiatisi in Piemonte. Era d’altronde proprio grazie agli esuli che gli orizzonti culturali sabaudi si stavano sprovincializzando e che gli ambienti liberali italiani immaginavano ormai progetti che coniugavano prospettive nazionali e obiettivi dinastici dei Savoia.

Così Cavour, che all’interno era inflessibile contro i repubblicani e le istanze autonomiste di sardi e liguri, riuscì a fare del binomio costituzione-principio di nazionalità un potente strumento di legittimazione degli interessi geopolitici sabaudi, che sempre più chiaramente si identificavano con un maggior prestigio internazionale e con la leadership in un Nord Italia unificato.

La partecipazione alla Guerra di Crimea
Per guadagnare la considerazione delle grandi potenze ed espandersi nel Nord Italia, Cavour orchestrò un articolato piano che intrecciava politiche economiche, diplomazia e campagne militari. Prima consolidò i rapporti con il Regno Unito, già buoni grazie all’apprezzamento dell’industria e dell’opinione pubblica britannici per il costituzionalismo e il liberoscambismo sabaudi.

Poi sfruttò il credito maturato nei confronti dei rattazziani con le leggi anticlericali del 1854-55 per aderire all’alleanza franco-britannica in Crimea [▶ cap. 12.3]. In realtà, il Regno di Sardegna era considerato una forza di second’ordine, cui ricorrere solo per l’urgente bisogno di uomini e con la rassicurazione di non sfruttare la situazione per strappare il Lombardo-Veneto agli Asburgo, il cui ingresso nella coalizione antizarista era ritenuto invece vitale. Né quest’immagine poté essere smentita, dato che la guerra terminò troppo presto per farne una dimostrazione di forza e i 15 000 soldati del generale Alfonso La Marmora fecero in tempo a combattere una sola battaglia, perdendo oltre 4500 uomini solo a causa delle epidemie scoppiate negli accampamenti. Tuttavia la partecipazione al conflitto si rivelò un passaggio cruciale, perché:

  • permise al Regno sardo di far parte di una prestigiosa coalizione internazionale impegnata in una grande guerra euroasiatica;
  • consentì a Cavour di denunciare alla Conferenza di Parigi del 1856 l’instabilità prodotta nella penisola dalla pervasiva e mal tollerata influenza di Vienna;
  • spezzò l’asse austro-francese abbozzato al tempo della neutralità asburgica  [▶ cap. 12.3] e accreditò il pur piccolo Regno di Sardegna come un nuovo, affidabile e strategico alleato per la Francia in chiave antiasburgica;
  • guadagnò ai progetti sabaudi di espansione nella penisola il sostegno britannico, dato che sempre più Londra vedeva uno Stato unitario e liberale del Nord Italia come un utile argine alle mire francesi e un partner politico e commerciale preferibile ai regimi autoritari e protezionisti dei Borbone e del papa.

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Gli accordi con la Francia
Dopo il conflitto, Cavour sfruttò sia la rottura degli equilibri sanciti dal Congresso di Vienna sia lo spezzarsi dell’asse austro-zarista decisivo nel Quarantotto sia l’ambiguo atteggiamento francese nei confronti dell’Italia: Napoleone III accarezzava da tempo l’idea di sostituire i Borbone con un sovrano amico ma al contempo ne temeva l’instabilità politica, derivante dall’irrisolta questione nazionale. Ad acuire i timori dell’imperatore giunse nel1858il fallito attentato ai suoi danni ordito dall’ex mazziniano Felice Orsini, che lo considerava un ostacolo all’unificazione italiana sin da quando l’allora presidente della Seconda repubblica francese aveva contribuito alla caduta della Repubblica romana nel1849 [▶ cap. 11.6].

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L’episodio, sommato al bisogno di recuperare consenso in patria, spinse Napoleone a siglare con Cavour prima un accordo segreto a Plombières (luglio 1858) e poi un’alleanza formale (gennaio 1859). Quest’ultima garantiva aiuto al Regno sardo se aggredito dagli Asburgo e, in caso di vittoria, prevedeva la cessione alla Francia della Savoia e di Nizza in cambio della creazione di un Regno dell’Alta Italia sotto Vittorio Emanuele II. Tale regno sarebbe stato composto dai territori già sabaudi, da quelli del Lombardo-Veneto asburgico e dai possedimenti emiliano-romagnoli del papa, il quale però avrebbe conservato Roma e la zona circostante a fondamento del suo potere temporale [ 6-7]. Il Regno di Sardegna aveva ora le spalle coperte non solo dalla simpatia britannica e dal potente alleato, ma anche dalla “benevola neutralità” che lo zar Alessandro II aveva promesso a Napoleone III in cambio dei «buoni uffici francesi per eventuali questioni future», ossia di un impegno a contenere l’espansionismo britannico in Asia. Non restava che scatenare la guerra.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900