13.4 L’iniziativa garibaldina in Sicilia

13.4 L’iniziativa garibaldina in Sicilia

La spedizione dei “Mille”
Con il Regno di Sardegna esteso dalle Alpi alla Toscana, la Francia costretta a prenderne atto e gli Asburgo sollevati per aver conservato almeno il Veneto e le strategiche fortezze del “quadrilatero” (Legnago, Verona, Peschiera e Mantova), nella primavera del 1860 il governo sabaudo considerava chiusa la sua campagna di espansione con un successo persino superiore alle attese.
A ridare slancio al processo di unificazione fu l’iniziativa di alcuni democratici in Sicilia. Già in fibrillazione e fomentata da due esuli tornati apposta da Torino (Rosolino Pilo e Francesco Crispi), Palermo insorse a inizio aprile 1860. Così, benché inizialmente titubante, Garibaldi si decise a organizzare una spedizione per liberare l’isola.

Costretti a rifornirsi in itinere e con piani in realtà ben noti, i circa mille volontari garibaldini (per lo più borghesi e studenti del Nord) riuscirono comunque a sbarcare a Marsala l’11 maggio. Ciò anche grazie all’atteggiamento passivo della marina britannica e di quella borbonica, delusa da una dinastia che dopo il Quarantotto ne aveva mortificato le ambizioni con il suo atteggiamento isolazionista.

L’attitudine difensivistica e l’inettitudine dei comandi nemici agevolarono la successiva avanzata. Pur in larga superiorità numerica, essi sguarnirono infatti le zone occidentali dell’isola per meglio presidiare l’insorta Palermo, evitando lo scontro frontale fino alle battaglie poi risultate decisive. Pertanto, i cosiddetti “Mille” poterono prima vincere a Calatafimi (15 maggio), mostrando ai tanti isolani ancora incerti che l’autoproclamato “dittatore” Garibaldi era un’alternativa credibile al regime borbonico. Poi presero Palermo (27-30 maggio). Infine trionfarono a Milazzo (20 luglio), dove le motivazioni e l’esperienza delle molte “Camicie rosse” veterane del 1859 si sommarono all’abilità tattica del loro comandante e al supporto delle migliaia di siciliani aggregatisi alla milizia, che Garibaldi chiamava ormai “Esercito meridionale”.

Dopo le prime fasi, durante le quali i volontari erano stati accolti con sospetto da popolazioni con cui non riuscivano nemmeno a comunicare, presto la spedizione aveva infatti suscitato simpatia. Ciò sia per i radicati sentimenti antiborbonici, sia per gli orientamenti liberali prevalenti in grandi città come Messina e Catania (già insorte mentre i garibaldini avanzavano verso Palermo), sia per la presenza sull’isola di bande armate e milizie private pronte a sfruttare la situazione [▶ cap. 13.1].

Questo magmatico contesto era terreno fertile per Garibaldi, che poté fare proseliti in tutti i settori della società intrecciando la formula “Italia e Vittorio Emanuele” condivisa dai patrioti liberali, le rivendicazioni sociali e la fame di terra delle masse rurali e le istanze indipendentiste e antinapoletane delle élite isolane.

Tuttavia, né l’indipendentismo antiborbonico né la promessa di terra ai contadini spiegavano da soli un tale seguito in così breve tempo. Molto contavano infatti il fascino personale e l’abilità comunicativa del Generale. Da un lato Garibaldi usava al meglio il proprio carisma, la fama d’indomito guerriero e di geniale stratega, la reputazione integerrima e l’avventuroso esotismo alimentato dall’abbigliamento insolito (poncho, camicia rossa, jeans) [ 10] e dalla lunga esperienza di guerre non convenzionali in Sud America da cui il soprannome “eroe dei due mondi[▶ cap. 11.6]: tutti elementi che ne facevano un eroe dall’aura quasi mitica con ammiratori e ammiratrici soprattutto in Inghilterra. Dall’altro lato egli fu abile nel costruire teatrali apparizioni pubbliche, nel parlare alla gente sempre di temi a loro cari e con una retorica studiata per fondere solenne sacralità e quotidiana intimità. Il che, in un ambiente intriso di campanilismo e religiosità, significava recuperare strumentalmente un passato che combinasse glorie locali e patriottismo (i Vespri medievali in Sicilia, Murat sul continente), ricercare la collaborazione dei “preti buoni” (contrapposti al “dissoluto prete di Roma”), ostentare devozione ai culti più popolari (santa Rosalia a Palermo, san Gennaro a Napoli) e sfruttare la sua somiglianza con Gesù Cristo per apparire come un’icona quasi sacra agli occhi di donne e uomini in messianica attesa di un nuovo redentore [ 11].

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Governare il caos
A dare concretezza alle promesse di Garibaldi provò Crispi. Memore del Quarantotto [▶ cap. 11.6], egli introdusse una serie di misure tese a trasformare l’entusiasmo momentaneo generato dal passaggio del Generale in un più solido consenso. Le élite furono rassicurate su un punto cruciale: una più efficace tutela delle loro proprietà dalle rivendicazioni delle comunità locali. Ai ceti medi imprenditoriali e mercantili si provò a garantire l’espulsione dei gesuiti, investimenti in opere pubbliche e miglioramenti nell’istruzione superiore, che significava aprir loro la strada a grossi guadagni e a prestigiose carriere professionali o nella pubblica amministrazione. Infine, alle masse rurali si assicurò la cancellazione di pratiche tipiche delle precedenti gerarchie sociali (il baciamano, il titolo di “Eccellenza”), l’abolizione della tassa sul ▶ macinato, ricompense per chi avesse combattuto nell’esercito garibaldino e una redistribuzione delle terre, i cui termini restavano però assai vaghi. Tuttavia, le difficoltà nel realizzare cambiamenti così profondi condannarono l’azione di Crispi al fallimento, producendo anzi effetti talvolta opposti a quelli sperati.

Presto la delusione per le promesse disattese e l’intreccio fra battaglia politica, rivolta sociale, criminalità comune, vendette private e lotte intestine fra famiglie per l’egemonia locale resero la situazione ingestibile anche per i garibaldini. I democratici avevano sfruttato il vuoto di potere generato dal collasso delle autorità statali per prendere l’isola. Ma ora era necessario ripristinare l’ordine. Perciò, in qualità di “dittatore”, Garibaldi prima inasprì le pene per i reati contro persone e proprietà; poi istituì la leva per inquadrare in un esercito regolare al suo servizio almeno una parte degli uomini in possesso di armi.

Tuttavia, i modesti risultati spinsero i “liberatori” a ricorrere spesso e senza remore alla repressione armata. Come nel paesino di Bronte, dove nell’agosto 1860 le truppe del comandante Nino Bixio (1821-73) intervennero con durezza contro la plebe, responsabile del massacro di 16 notabili [ 12].

A metà agosto la Sicilia era dunque conquistata ma non pacificata, tanto meno era chiaro quale dovesse essere il suo rapporto con il nuovo Regno di Sardegna uscito dalla guerra del 1859. L’atteggiamento di Cavour nei confronti della spedizione era stato ambiguo fin dall’inizio, ma era ormai chiaro che l’aspirazione garibaldina di giungere a Napoli e poi a Roma rappresentava una minaccia sia all’egemonia moderata sul processo di unificazione, sia agli instabili equilibri geopolitici su cui si era fondata l’accettazione internazionale delle recenti conquiste piemontesi.

13.5 Il collasso delle Due Sicilie e la nascita del Regno d’Italia

Il regno implode
Alla guida di oltre 20 000 volontari siciliani, settentrionali e stranieri (ungheresi, polacchi e altri simpatizzanti delle cause nazionali), il 19 agosto Garibaldi sbarcò in Calabria con il tacito benestare della flotta britannica che pattugliava lo stretto. In realtà, Francia e Regno Unito osservavano diffidenti gli eventi che tanta eco avevano sulla stampa internazionale e fra gli esuli. A dispetto di opinioni pubbliche largamente filoitaliane, all’inizio entrambi avevano provato ad aiutare i Borbone, sollecitandoli ad accordarsi con Torino o ad aderire a una confederazione italiana con il Regno di Sardegna e lo Stato della Chiesa. Tuttavia ormai era tardi per salvare la Sicilia e serviva prudenza, anche se né Londra né Parigi pensavano che il regno potesse sfaldarsi.

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A decretare la fine della dinastia borbonica nel Mezzogiorno non furono quindi le antipatie e i disegni antiborbonici delle cancellerie europee, ma piuttosto l’incerta linea tenuta da Francesco II (1859-61), succeduto al padre nel 1859. Fu il giovane e timido sovrano a compiere un’inattesa e destabilizzante svolta in senso costituzionale, ripristinando la Carta del 1848, concedendo l’amnistia ai detenuti politici (25 giugno) e sostituendo al tradizionale vessillo borbonico il tricolore con al centro lo stemma dinastico [ 13]. L’intento era quello di riabilitarsi agli occhi degli antiassolutisti interni ed esteri, ma gli effetti furono opposti: democratici e liberali giudicarono la svolta ipocrita e tardiva, mentre i clerico-conservatori rimasero spiazzati e interpretarono la decisione come l’incoerente segno di debolezza di un regime in balia degli eventi.

Conseguenze ancor più devastanti ebbe poi un altro gesto teso ad avvicinare alla corona gli ambienti critici con il regime: la nomina a ministro degli Interni dell’ex oppositore Liborio Romano [▶ protagonisti]. Liberale ma pragmatico, in attesa di capire l’evoluzione della situazione Romano entrò in contatto sia con Cavour che con Garibaldi. Nel frattempo, però, nel tentativo di riavvicinare la dinastia ai liberali napoletani ne inserì molti nella pubblica amministrazione in luogo di fidati filoborbonici. Poi, per controllare la plebe urbana in fermento, arruolò diversi camorristi nella polizia, che già non era esente da collusioni con le locali organizzazioni criminali. Ciò gli consentì di evitare tumulti popolari, derive democratiche e colpi di coda dei Borbone, ma privò il regime dei due pilastri su cui aveva tradizionalmente contato nei momenti di pericolo: le plebi urbane e la burocrazia centrale e periferica.

Le politiche di Romano e la progressiva disaffezione delle vecchie élite portarono così l’intera macchina statale borbonica a un rapido collasso ben prima che Garibaldi sbarcasse sul continente, delegittimando la dinastia anche agli occhi dei vertici militari e aprendo la strada a un’avanzata che non incontrò ostacoli sino alle porte di Napoli.

  protagonisti

Liborio Romano

Figura solo in apparenza minore, Liborio Romano (1793-1867) giocò in realtà un ruolo centrale nell’unificazione italiana, incarnando le contraddizioni legate al crollo del Regno borbonico e il carattere di un’élite provinciale meridionale sempre cauta nel prendere posizione. Figlio di una ricca famiglia di proprietari terrieri salentini, si formò a Napoli, dove era ancora fresco il ricordo di Murat. 
Fu vicino alla Carboneria e partecipò ai moti del 1820-21, venendo perciò confinato. Rientrato due anni dopo, divenne fra i più noti legali del regno, patrocinando cause celebri e diversi accusati di cospirazione. Il ruolo svolto nella fazione moderata durante il Quarantotto gli costò nuovamente il carcere e l’esilio, da cui tornò non esitando a chiedere la grazia al re pur di salvare il patrimonio familiare in disfacimento.

Nel 1860, quando aveva ripreso l’attività forense e i legami con il variegato universo liberale meridionale, venne nominato ministro dell­’Interno da Francesco II, in cerca del sostegno degli antiassolutisti. In questo concitato frangente mostrò sia una profonda conoscenza dei meccanismi statali e dei notabilati provinciali, sia una notevole capacità di analisi politica e di manovra.

Romano era un liberale moderato neoguelfo, ma era soprattutto un uomo pragmatico. Perciò, se sin dagli anni Trenta aveva mantenuto fitte relazioni anche con i radicali, nei mesi da ministro non si fece scrupolo di aprire parallele linee di comunicazione con Cavour, Garibaldi e con i pezzi della classe dirigente borbonica più liberale, senza per questo rompere con lealisti e conservatori. Attento a non sbilanciarsi, Romano però nel frattempo agiva. Riuscì a tenere sotto controllo le plebi napoletane, non esitando a ricorrere alla criminalità organizzata; disarticolò le strutture di potere del regime borbonico; sventò un colpo di mano filoborbonico; prevenne i rischi di deriva democratica temuti da Cavour e preparò al contempo l’ingresso di Garibaldi in città e la fuga a Gaeta di Francesco II. Solo quando fu chiaro l’esito dell’avanzata garibaldina preferì la fedeltà al Generale a ogni velleitario dialogo con i Borbone e alle prestigiose proposte di collaborazione provenienti da Torino. Ciò gli garantì un posto di rilievo nei momenti immediatamente successivi alla presa di Napoli ma anche il rancore di Cavour, che lo escluse da incarichi di governo nonostante la larga affermazione alle elezioni del gennaio 1861.

Senza il sostegno dei moderati cavouriani e di un solido gruppo parlamentare, Romano fu presto marginalizzato. E, benché fautore dell’unità nazionale, finì per recuperare le sue originarie e ormai anacronistiche posizioni autonomiste, arroccandosi in una violenta polemica contro l’atteggiamento della classe dirigente sabauda verso il Sud.

L’egemonia dei moderati
A Napoli regnava l’incertezza, ma un numero crescente di uomini chiave del regime scelse di voltare le spalle al re che, abbandonato pure da quasi tutta la sua marina [ 14], il 6 settembre fuggì a Gaeta. Il giorno dopo Garibaldi poté entrare accolto da una folla festante in quella città dove – per dirla con Settembrini e altri liberali – sino a poche settimane prima erano «borbonici perfino i gatti di casa», e ora erano invece «diventati tutti liberali».

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Il successo garibaldino fu accolto con profonda preoccupazione da Cavour [▶ FONTI, p. 424], che già ai primi di agosto aveva cercato invano di sottrarre l’iniziativa al Generale mandando in incognito a Napoli navi e bersaglieri per suscitare una rivolta e istituire un governo liberalmoderato fedele a Vittorio Emanuele, con a capo lo stesso Romano. Ma il tentativo era fallito per la debolezza dei liberali nel Meridione e per l’opportunismo politico di Romano. Perciò, Cavour concordò con Napoleone III, che dal Quarantotto era il primo difensore del potere temporale del papa, l’invio di un contingente col compito di intercettare i garibaldini intenzionati a proseguire verso Roma per completare l’unificazione nazionale. Così, mentre l’Esercito meridionale vinceva l’armata borbonica lungo il fiume Volturno (1-2 ottobre), le truppe sabaude attraversarono i territori adriatici dello Stato pontificio e sbaragliarono le forze papaline a Castelfidardo e ad Ancona (18-29 settembre). Poi sconfissero a loro volta le truppe borboniche sul fiume Garigliano (29 ottobre). Infine, cinsero d’assedio Gaeta, dove ancora si trovava Francesco II [ 15].

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Nel frattempo, plebisciti analoghi a quelli svolti a marzo in Centro Italia sancirono l’annessione degli ex possedimenti pontifici e borbonici al Regno di Sardegna, registrando partecipazioni al voto e maggioranze altrettanto larghe. Forte di questa legittimazione popolare e di un ormai massiccio spiegamento di truppe nell’area, il 26 ottobre Vittorio Emanuele II incontrò Garibaldi a Teano: il Generale lo salutò come “re d’Italia” e, pur deluso di non poter completare il suo progetto di unità, gli consegnò le terre conquistate [ 16]. Il re poté dunque entrare a Napoli (7 novembre), mentre Napoleone III ritirava la minaccia di intervenire in difesa del papa. Ancora una volta Cavour era riuscito a risolvere a proprio favore una situazione complicata, giocando simultaneamente su più tavoli e modificando in corsa obiettivi, strumenti e argomenti utilizzati per perseguirli. Ne aveva ottenuto uno Stato molto più grande ed eterogeneo di quanto avrebbe desiderato, ma monarchico, liberale e soprattutto guidato da una classe dirigente moderata e piemontese, o almeno piemontesizzata.

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FONTI

Cavour e la spedizione garibaldina

Cavour intratteneva da sempre rapporti ambigui con Garibaldi. Aveva a più riprese cercato di sfruttarne le abilità militari e la fama, ma allo stesso tempo non aveva mai smesso di temerne l’indomabile spirito fiero e battagliero, i sentimenti repubblicani anche dopo l’alleanza tattica con la monarchia sabauda e l’ascendente sul popolo, tale da oscurare la figura meno carismatica di Vittorio Emanuele II. Fu per questo che lo statista piemontese osservò la spedizione dei Mille oscillando fra ammirato interesse, diffidente presa d’atto e ansiosa preoccupazione. Eppure, anche in questa circostanza egli mostrò grande lucidità e capacità d’adattamento a una situazione in rapida e inattesa evoluzione. Lo testimoniano due lettere al diplomatico sardo Costantino Nigra, inviato a Parigi con il compito di rassicurare Napoleone III sulla situazione nella penisola.

9 agosto 1860


Caro Nigra,

[…] Ora, per fare l’Italia in questo momento, non si deve porre in contrasto Vittorio Emanuele e Garibaldi. Garibaldi ha una grande forza morale, gode di un immenso prestigio non soltanto in Italia, ma soprattutto in Europa. […] Se domani entrassi in lotta con Garibaldi, potrei anche avere in mio favore la maggioranza dei vecchi diplomatici, ma l’opinione pubblica europea sarebbe contro di me, e l’opinione pubblica avrebbe ragione perché Garibaldi ha reso all’Italia il più grande dei servigi. […] Finché sarà fedele alla bandiera bisogna marciare d’accordo con lui.

Questo non impedisce che sarebbe estremamente desiderabile che la rivoluzione a Napoli si compisse senza di lui. Ciò infatti ridurrebbe la sua influenza alle sue giuste proporzioni. Ma, se malgrado i nostri sforzi, egli libera il continente […] non c’è scelta: bisogna appoggiarsi, e appoggiarsi con molta fermezza, su di lui.


12 settembre 1860


Caro Nigra,

Garibaldi è un invasato, che insperati successi hanno inebriato. Crede di aver ricevuto una missione dalla Provvidenza. […] Adesso si è fatto la convinzione di dover marciare verso gli Stati romani […]. Dichiaratelo apertamente all’Imperatore Napoleone: se Garibaldi persevera sulla via funesta che ha imboccato, entro quindici giorni noi andremo a ristabilire l’ordine a Napoli e a Palermo, anche se fosse necessario per questo gettare a mare tutti i Garibaldini.


Il carteggio Cavour-Nigra dal 1858 al 1861, vol. IV, Zanichelli, Bologna 1961

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La nascita del Regno d’Italia
La caduta di Gaeta dopo una strenua resistenza e la fuga di Francesco II a Roma (13 febbraio 1861) consentirono la formale nascita del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1861. Rispetto ai più ampi progetti unitari mancavano ancora il Veneto e il Lazio: il primo era rimasto all’Impero asburgico per l’anticipata conclusione della guerra del 1859, mentre il secondo restava in possesso del papa, difeso da una guarnigione francese di stanza a Roma. Si trattava però della più ampia conformazione possibile, per il cui necessario riconoscimento internazionale fu decisiva la natura monarchica e moderata del nuovo Stato.
Un’Italia così grande e in parte frutto di imprese rivoluzionarie (la Sicilia, i ducati centrali) costituiva un soggetto che alterava gli equilibri geopolitici continentali e mediterranei, dando per di più concretezza al principio di nazionalità ancora largamente disatteso in diverse aree del continente. Grazie però alle pressioni anglo-francesi, al lavoro diplomatico del governo italiano e al suo impegno nell’impedire derive democratiche (Mazzini non a caso disconobbe gli esiti dell’unificazione), paesi come l’Impero russo e la Prussia superarono presto le diffidenze iniziali e riconobbero l’Italia unita: cosa che invece non fecero sino a metà anni Sessanta la Spagna, solidale nei confronti della spodestata dinastia borbonica; l’Impero asburgico, estromesso dalla penisola; gli Stati della Confederazione germanica più vicini a Vienna e ovviamente il papa e i Borbone napoletani.
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Era passato poco tempo dai fallimenti del Quarantotto e degli anni Cinquanta. Eppure un insieme di fattori aveva portato a un esito tanto più eccezionale se comparato a quelli deludenti di altri movimenti nazionali (polacco, ungherese, ceco, tedesco, irlandese, ruteno, rumeno):

  • la preparazione diplomatica, logistica e militare della guerra contro l’Impero asburgico;
  • l’intreccio, non certo pianificato e tanto meno privo di attriti, fra la prontezza di spirito di Cavour e la capacità d’azione di un leader carismatico come Garibaldi;
  • la presenza in Piemonte e altrove di alcune delle migliori intelligenze meridionali, molte delle quali esuli dopo le rivoluzioni quarantottesche;
  • la capacità dei moderati in Centro Italia di mantenere compatti gli insorti e contemporaneamente organizzare i plebisciti, evitando le spaccature campanilistiche che erano state fatali in precedenti occasioni e le derive democratiche che avrebbero compromesso il riconoscimento internazionale delle annessioni;
  • il suicidio politico della dinastia borbonica, causa principale dell’improvvisa e inattesa implosione della macchina statale e militare duosiciliana;
  • le reciproche diffidenze fra le grandi potenze nel quadro di relazioni internazionali che, dopo il Quarantotto e la Guerra di Crimea, ormai non erano più né improntate al “concerto europeo” né vincolate ai principi e sanciti dal Congresso di Vienna.

Tutto ciò aveva fuso in un processo apparentemente unico e lineare una guerra dinastica tesa all’espansione territoriale al Nord, una serie di spontanee insurrezioni popolari al Centro, una spedizione di matrice democratica in Sicilia e il crollo di un regime sopravvissuto in passato agli scossoni rivoluzionari, napoleonici e liberali [ 17]. Più che l’esito di un progetto, il “Risorgimento” d’Italia era l’inattesa conseguenza di circostanze, aspirazioni e personaggi molto diversi fra loro.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900