10.6 I critici dell’industrialismo

10.6 I critici dell’industrialismo

I liberali critici, la galassia socialista e le altre forme di anticapitalismo
Sin dalla fine del Settecento, le condizioni di vita delle classi meno abbienti avevano sollecitato una riflessione sulla natura del capitalismo e sull’impatto sociale dell’industrialismo [▶ cap. 2.5]. Critiche e proposte di correttivi erano così giunte non solo da quegli anticapitalisti “romantici” che rievocavano nostalgicamente il passato preindustriale (come il romanziere Charles Dickens), ma anche da convinti liberali. Fra loro l’economista e filosofo di orientamento utilitarista John Stuart Mill, perplesso circa la capacità del sistema capitalistico di garantire una dignitosa sopravvivenza a tutti e favorevole perciò a un intervento dello Stato per riequilibrare la distribuzione della ricchezza, oltre che sostenitore dell’emancipazionismo femminile.
Più drastiche erano però le risposte di altri soggetti e famiglie politiche. Da un lato c’erano i luddisti: un movimento dai contorni vaghi e le cui gesta erano avvolte da un’aura mitica, ma ai quali nel Regno Unito si attribuiva già la distruzione di macchinari e altre forme di protesta violenta [▶ cap. 2.5]. Dall’altro lato c’erano invece gli sviluppi, in Francia e in area tedesca, delle riflessioni e delle esperienze socialiste.
Si trattava in realtà di analisi e soluzioni differenti al problema, che tuttavia iniziarono a circolare fra gli intellettuali più sensibili al tema quando ancora, quasi ovunque, gli operai erano troppo pochi e soprattutto troppo disorganizzati per prendere coscienza di avere interessi comuni.

Alcuni, come Charles Fourier, attaccavano in particolare il ruolo degli speculatori nel determinare i prezzi delle merci indipendentemente dal loro reale valore, gli stretti nessi fra industria e finanza, la centralità di quest’ultima nel sistema capitalistico e l’ipocrita morale borghese. Essi restavano legati al collettivismo egualitario dei primi esperimenti inglesi, vagheggiando comunità residenziali e produttive (falansteri) di uomini e donne con pari diritti, liberi dai vincoli della  monogamia e impegnati in mansioni sempre diverse, retribuite in modo da favorire la meritocrazia e il progressivo arricchimento dei più poveri [ 16].

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Altri invece – fra cui Claude-Henri de Saint-Simon – pensavano in pieno accordo con lo spirito dei tempi che un ruolo decisivo lo dovessero giocare la scienza e la tecnica. Solo una  tecnocrazia – secondo il pensatore francese – avrebbe infatti assicurato una riorganizzazione della società e del sistema economico vantaggiosa per la collettività. Rispetto al ruolo dello Stato si differenziavano anche le posizioni di altri esponenti del socialismo ottocentesco. Louis Blanc gli affidava infatti il compito di regolamentare l’attività privata e poi un giorno sostituirla mediante “fabbriche sociali” che eliminassero la disoccupazione e garantissero un equo salario ai loro operai. Al contrario, Auguste Blanqui considerava lo Stato un’espressione della borghesia in ogni caso dannosa per gli operai. Perciò, mirava ad abbatterlo mediante cospirazioni che istaurassero una dittatura del proletariato, inizio di una nuova era comunista.

Ancor più radicalmente antistatalista era infine la corrente anarchica guidata prima da Pierre-Joseph Proudhon e in seguito dal russo Michail Bakunin. Fu però solo con quest’ultimo che l’anarchismo assunse posizioni ancora più estreme: una linea che equiparava ogni proprietà privata a “un furto”, rifiutava il principio di autorità in sé e negava quindi legittimità a ogni forma di Stato (anche quello guidato dai proletari), individuando il motore della necessaria rivoluzione nelle masse rurali in quanto ancor più povere e meno investite dai processi di State e Nation building rispetto a quelle urbane e agli operai.

Il socialismo di Marx ed Engels e la Prima Internazionale
 Maggiore efficacia analitica e argomentativa aveva l’approccio cosiddetto “scientifico” al socialismo promosso da due giovani tedeschi, Karl Marx e Friedrich Engels. Quello che la Quanta cura definiva «il funestissimo errore del Comunismo e del Socialismo» trovò infatti nel 1848 una nuova formulazione nel loro Manifesto del Partito comunista [▶ FONTI]. Esso mirava a una società comunista senza Stato né proprietà privata, ma considerava quest’obiettivo non il prodotto dell’intervento pubblico o della paternalistica benevolenza delle élite, quanto l’esito necessario di un sistema economico che per sua natura avrebbe prodotto con il tempo un progressivo impoverimento degli operai e la crescita delle disuguaglianze sociali. Perciò, esortava gli operai di tutto il mondo a prendere coscienza di costituire un’unica  classe strutturalmente e inconciliabilmente contrapposta alla borghesia, sino a sovvertire i rapporti di produzione e le loro espressioni culturali, politiche e istituzionali mediante una rivoluzione.

Il marxismo ebbe diffusione abbastanza limitata per oltre un decennio, durante il quale Marx ed Engles rimasero in esilio a Londra perché invisi alle autorità di diversi paesi e al contempo convinti che la rivoluzione dovesse scoppiare proprio in Inghilterra, unico paese con un’ampia e consapevole classe operaia.

Proprio a Londra infatti, nel 1864, operai inglesi e francesi organizzarono una manifestazione di solidarietà verso la Polonia insorta contro la dominazione zarista. E che la questione operaia s’intrecciasse con quelle nazionali [▶ idee, p. 320]. lo dimostrò subito dopo la nascita dell’Associazione internazionale dei lavoratori, divenuta poi nota come Prima Internazionale [ 17], che riuniva rappresentanti di diversi movimenti operai, degli artigiani e i principali esponenti delle diverse anime del socialismo: i democratici mazziniani, che vedevano nell’attenzione alla questione sociale soprattutto uno strumento per sensibilizzare le masse alla causa nazionale; i proudhoniani, fautori delle autonomie locali e di un sistema produttivo basato sulle cooperative; gli anarchici guidati da Bakunin e i marxisti. Fu proprio Marx, intervenuto a titolo personale, a redigere lo statuto dell’associazione, che pur connotandola con alcuni tratti caratteristici dell’analisi marxista, la tratteggiava come un organismo in grado di coordinare le lotte operaie nei vari paesi, mirando per il momento a ottenere concreti miglioramenti nella condizione dei lavoratori. Lo statuto fu perciò approvato all’unanimità.

Si trattò tuttavia di un accordo destinato a durare poco. Già nei congressi successivi l’Internazionale fu percorsa da contrasti personali e ideologici tali da provocare prima la fuoriuscita dei mazziniani e dei proudhoniani, poi la lunga e aspra polemica fra Bakunin e Marx sul programma dell’associazione e sull’opportunità di costituire partiti operai legali nei diversi paesi. Furono proprio le profonde divisioni interne e la vaghezza del suo profilo ideologico a limitare di molto l’effettiva capacità di azione dell’Internazionale, che pure restava uno spauracchio per i governi e un punto di riferimento ideale per le lotte dei lavoratori.

FONTI

Il Manifesto del Partito comunista

Dopo alcuni deludenti tentativi (fra cui i Principi del Comunismo di Engels), nel 1847 la Lega dei comunisti commissionò a Marx il manifesto dell’associazione, uscito a Londra nel febbraio 1848 anonimo e in tedesco. Il Manifesto – scritto a quattro mani con Engels – riassumeva la dottrina comunista (termine usato come sinonimo di “socialista” ma anche in polemica con il “socialismo” non scientifico) e incitava i proletari alla lotta, ma incise poco sulle rivoluzioni del 1848. Ebbe infatti eco soprattutto in area tedesca e solo dagli anni Settanta circolò ampiamente, diventando uno dei testi-simbolo del socialismo mondiale.

Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, […] la borghesia […] si è infine conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno.

[…] Lo scopo immediato dei comunisti è […]: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato. […] Quel che contraddistingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.

[…] Queste misure saranno naturalmente differenti nei vari paesi. Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1. Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2. Imposta fortemente progressiva.

3. Abolizione del diritto di successione.

4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5. Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6. Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7. Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.

9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo fra città e campagna.

10. Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell’istruzione con la produzione materiale e così via.

[…] Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, e abolendo con la forza […] gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe. […] Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti. […] In una parola: i comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario contro le situazioni sociali e politiche attuali. […]

Proletari di tutti i paesi unitevi!

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900