10.1 Una rivoluzione lenta: l’industrializzazione in Europa

Per riprendere il filo…

Dalla seconda metà del Settecento alcune circoscritte zone del Regno Unito avevano conosciuto una rapida meccanizzazione e un accentramento della produzione, soprattutto nel settore tessile. Con il tempo, la rivoluzione demografica e quella industriale avevano prodotto conseguenze economiche (aumento della produttività, nuovi equilibri fra lavoro agricolo e artigianato), sociali (inurbamento, mobilità, pauperismo), urbanistiche (urbanizzazione, riorganizzazione degli spazi cittadini) ed energetiche (massiccio uso del carbone). A questi cambiamenti si erano sommati gli effetti della Rivoluzione francese e delle riforme napoleoniche, lasciando in eredità al XIX secolo società e sistemi produttivi ormai in parte diversi da quelli preindustriali.

10.1 Una rivoluzione lenta: l’industrializzazione in Europa

Un mondo ancora largamente preindustriale
Ancora a metà Ottocento gran parte d’Europa e la quasi totalità del mondo non erano stati investiti dai processi di modernizzazione e industrializzazione avviati in Inghilterra nel secolo precedente [▶ cap. 2.2].

Ciò non significava però che nelle campagne il tempo si fosse fermato, né che l’agricoltura costituisse l’unica alternativa all’industria accentrata. Il mondo rurale era anzi assai articolato, con attività differenti e non di rado dagli interessi contrapposti, come la produzione a domicilio, lo sfruttamento dei boschi, l’allevamento e la pastorizia: lavori che potevano esser parte della tradizionale pluriattività contadina oppure contendere spazi e risorse all’agricoltura modernizzata. Quest’ultima aveva globalmente esteso le superfici coltivate, aveva innovato tecniche e strumenti (la trebbiatrice e l’aratro a vapore, rotazioni e concimazioni più efficaci, selezioni meglio studiate) e adeguava sistemi produttivi e relazioni di lavoro ai regimi giuridico-istituzionali e al rapporto che ogni singola area instaurava con il mercato.

La coesistenza di attività, realtà produttive (moderne aziende capitalistiche, latifondi a coltura estensiva, piccola proprietà) e contratti agrari diversi (lavoro salariato, a cottimo, stagionale,  mezzadria) produceva all’interno delle società rurali una molteplicità di figure: il latifondista, l’imprenditore agricolo, il contadino proprietario che curava personalmente il suo podere, l’affittuario che lavorava terra altrui, il bracciante salariato ma libero e infine gli schiavi e i servi, dove questi istituti resistevano.

In ambienti contrassegnati da una minore mobilità sociale rispetto a quelli urbani, il possesso di terra restava una decisiva discriminante sociale e costituiva l’obiettivo di chi non ne aveva. Ma per la maggior parte della popolazione rurale era già tanto sopravvivere.

La crescita demografica avviata nel secolo precedente, e forte soprattutto nelle campagne, aveva infatti portato al raddoppio del tasso di crescita e a un aumento del 42% della popolazione europea nel cinquantennio 1820-70. E, a metà secolo, ciò produceva ormai una pressione sulla terra superiore al passato, aggravata dal fatto che le nazionalizzazioni dei beni ecclesiastici di epoca rivoluzionaria [▶ cap. 5.1] e la vendita di beni demaniali avevano ingrossato soprattutto i possedimenti di vecchie e nuove nobiltà senza produrre significativi benefici per i ceti rurali inferiori. Anzi, ora questi ultimi si ritrovarono spesso privati pure dei  diritti consuetudinari all’accesso alle risorse prima comuni (boschi, campi, corsi d’acqua, strade).

 >> pagina 296 

La scarsezza di terre incideva su una qualità della vita già assai modesta per le sue stesse caratteristiche: la durezza del lavoro nei campi; gli spostamenti difficili e pericolosi ( transumanze, migrazioni stagionali); la sottoalimentazione [▶ oggetti], diffusa nonostante le nuove colture (mais, patata); l’ignoranza, che precludeva l’acquisizione di nuove competenze e la tradizionale ostilità alle pratiche di igiene e alla medicalizzazione, causa di  morbilità e mortalità elevate.

In questo quadro, aggravato dagli abusi dei notabili locali e da forme di giustizia comunitaria extralegale (“tribunali di popolo”, faide, linciaggi) che limitavano l’azione amministrativa e sanzionatoria dello Stato, la condizione di molti contadini era estremamente precaria [ 1]. Bastava un peggioramento delle condizioni lavorative, un raccolto perso, una malattia, un lieve aumento della pressione fiscale, un calo dei prezzi agricoli o la perdita delle fonti accessorie di reddito garantite da norme consuetudinarie per morire di fame, come durante le carestie del 1816-17 e del 1845-50.

L’Inghilterra e le altre “officine del mondo”
L’unica area con un sistema industriale maturo era la Gran Bretagna, dove ancora nel 1850 si concentrava quasi il 60% della capacità produttiva mondiale. Quello britannico era un primato indiscusso, al quale contribuivano diversi fattori:
  • un ampio mercato interno;
  • un impero coloniale globale che forniva materie prime e ulteriori mercati;
  • l’influenza internazionale derivante dalla potenza marittima e militare;
  • il ruolo ancora insostituibile delle conoscenze tecniche, dei materiali e dei ca­pitali britannici nello sviluppo economico e sulle piazze finanziarie di tutto il mondo.
Esattamente come in Inghilterra, anche sul continente l’industrializzazione fu un fenomeno a dimensione regionale, che rimase a lungo circoscritto alle zone con lunga tradizione manifatturiera e condizioni simili a quelle inglesi (disponibilità di carbone, ferro, vie di comunicazione e corsi d’acqua). Tanto meno essa intaccò in alcun modo il primato dell’agricoltura e dell’industria decentrata nel  prodotto interno lordo e nel numero di occupati. Infatti, a conoscere uno slancio furono per primi il Belgio, l’Olanda, alcuni cantoni svizzeri, la Renania e alcune province francesi (Parigi, Lille e le zone lungo i fiumi Loira e Rodano): aree cui si aggiunsero man mano la Prussia, la Boemia, la Slesia, la Sassonia, gli Stati nordorientali degli Stati Uniti e infine la Pianura Padana e il Piemonte.
Analogamente, come oltremanica anche nell’Europa continentale l’industrializzazione fu favorita e a sua volta stimolò l’innovazione tecnologica in diversi ambiti. Furono inventate macchine agricole come quella per estrarre zucchero dalle barbabietole. Lo statunitense Isaac Singer ideò la macchina per cucire a casa. Scatole di latta saldata, congegni per la fabbricazione del ghiaccio e celle frigorifere agevolarono la conservazione dei cibi. Infine, furono perfezionati la locomotiva a vapore, l’elica per la navigazione a vapore, nonché il convertitore e il forno Martin-Siemens, che rendevano più economica e rapida la conversione della ghisa in acciaio.

Se anche il tessile crebbe in investimenti e produttività grazie al telaio a vapore, a beneficiare della meccanizzazione furono però in misura maggiore i settori meccanico e siderurgico, che aumentarono e concentrarono nei principali distretti industriali produzioni strategiche quali il carbone (+250% fra il 1850 e il 1870) e il ferro (+1200% fra 1800 e il 1870[ 2]. D’altronde, fu proprio il ruolo trainante di settori che, rispetto al tessile, erano bisognosi di capitali maggiori a rendere l’industrializzazione continentale diversa dal modello inglese in due aspetti fondamentali: la natura delle imprese e i modi di reperire il denaro per avviarle. L’insufficienza dei patrimoni familiari e la maggiore integrazione fra i mercati finanziari spinse infatti molti imprenditori a costituire  società per azioni per attirare investitori remunerandoli con  obbligazioni o quote dei profitti (dividendi). Così, oltre alle somme raccolte fra gli azionisti privati, in molte S.p.A. poterono confluire sia finanziamenti pubblici sia i prestiti di alcune grandi  banche di investimento miste, che iniziarono a investire i risparmi loro affidati in attività industriali.

  oggetti

Mais, fish & chips e roast beef

L’Ottocento segnò il compiersi della “rivoluzione alimentare” avviata in età moderna. La diffusione della risicoltura e delle colture americane contribuì a ridurre gli effetti delle carestie e a migliorare la dieta dei ceti rurali più poveri. Patate, mais e persino il pane bianco, un tempo status symbol delle classi agiate, integrarono le polente e i cereali poveri (farro, crusca, avena). Il consumo di carne e pesce restava però limitato e gli alimenti più energetici erano di solito riservati ai più deboli (bambini, malati) o alle fasi di lavoro più duro, magari accompagnati da un maggior consumo di alcol a integrarne l’apporto ca­lorico.

Peggiore era la sottoalimentazione dei poveri in città, so­prat­tutto quando i lunghi turni in fabbrica impedivano di associare al lavoro operaio la piccola produzione di beni alimentari o di mantenere legami con le comunità di origine. Così, mentre chi era al servizio di famiglie benestanti (camerieri, cocchieri, maggiordomi) poteva contare sugli scarti dei padroni, per gli operai la situazione era difficile. Le basse paghe e il costo della vita in città obbligavano molti a nutrirsi quasi solo di pane, verdure, cipolle e vino. A ciò si alternava quel misto di patate fritte e pezzi di pesce di risulta noto co­me fish & chips, venduto a pochi centesimi in oltre 25 000 friggitorie solo nel Regno Unito.

In confronto a quella dei ceti popolari, la dieta dei borghesi appariva straordinaria. Le nuove tecniche di conservazione e i com­merci internazionali misero infatti a loro disposizione alimenti prima inaccessibili o introvabili fuori stagione: diverse verdure in inverno, frutti esotici e quella carne bovina spesso condita con brodo o ricercate salse a base di burro, che divenne abituale sulle tavole e nei ristoranti arrostita all’inglese come roast beef o lessa alla francese.

Alle modifiche nell’alimentazione si aggiunsero quelle nel servizio e nei discorsi sul cibo.

Da un lato, con la metà del secolo il servizio “alla francese” (tutte le portate assieme a centro tavola) fu soppiantato da quello “alla russa” (così detto perché introdotto da un diplomatico russo), che proponeva una pietanza alla volta disegnando un’ideale parabola in sei momenti (an­tipasto, minestra, entrée, piatto principale, tramesso e dessert) con apice nel piatto a base di carne.

Dall’altro lato, prima di tutto in Francia fiorì una stampa gastronomica (neologismo coniato da un poeta francese nel 1800) fatta di guide turistiche per la ristorazione e riviste specializzate. Ciò mentre la figura dello chef guadagnava reputazione e diventava elemento di prestigio per case pri­vate e locali pubblici, alimentando il gusto per la sperimentazione, la personalizzazione e la decorazione dei piatti. Il cibo e la cucina divennero così oggetto di mode e un tratto distintivo della borghesia in tutt’Europa, benché ancora condizionati dalle tradizioni locali.

Le comunicazioni

Decisivo fu, in questa fase, lo sviluppo infrastrutturale e dei trasporti. Esso infatti non solo assicurò una massiccia domanda alle industrie carbonifere, meccaniche e siderurgiche, ma consentì che il mondo fosse interconnesso in modo più costante, veloce e sicuro grazie al treno, alla nave a vapore e al telegrafo.

Se a metà secolo la Gran Bretagna aveva già una capillare rete ferroviaria [ 3], dagli anni Trenta i paesi che ne stavano seguendo l’esempio avviarono infatti, a loro volta, la costruzione di strade ferrate e il miglioramento della rete viaria grazie a nuove tecniche di pavimentazione stradale.

Allo stesso modo progredirono i mezzi di trasporto su acqua. Sia le chiatte a motore, che stavano sostituendo quelle a trazione animale lungo i tanti nuovi canali navigabili costruiti in questi anni, sia le navi a vapore, che giunsero a scalzare la navigazione a vela solo a fine secolo ma che, fra il 1850 e il 1880, crebbero di quasi otto volte. Nuove rotte furono aperte e i trasporti via mare e su rotaia si integrarono sempre più.

 >> pagina 300 

Rivoluzionario fu infine il telegrafo, la cui prima linea fu inaugurata nel 1844 negli Usa, e che ebbe rapida diffusione anche in Europa. Una comunicazione in tempi strettissimi in un codice universale (il codice Morse) consentì infatti ai giornali e alle neonate agenzie di stampa di riferire notizie che in precedenza sarebbero giunte dopo settimane; permise a più operatori di fare affari su piazze prima accessibili solo alle società con vaste reti di corrispondenti e costituì un efficace strumento di potere, fornendo alle autorità tempestivi aggiornamenti su quanto accadeva nei loro territori e un decisivo vantaggio contro nemici sprovvisti di simili tecnologie [ 4].

10.2 Gli effetti globali di una rivoluzione circoscritta

Un mondo più unito e più diviso
Queste innovazioni tecnologiche avviarono processi destinati a rafforzarsi nell’ultimo quarto del secolo. Da un lato, sin dagli anni Quaranta aumentarono le migrazioni a lungo raggio. Dall’altro, la sterlina inglese fu vincolata alla  parità aurea (Gold standard) consentendo la creazione di uno stabile sistema monetario internazionale che contribuì a interconnettere i mercati mondiali e a incrementare il volume del commercio fra i diversi paesi, raddoppiato fra 1800 e 1840 e addirittura triplicato nel ventennio successivo.

Fu proprio la progressiva interdipendenza dei sistemi produttivi e dei mercati a ridefinire i rapporti di forza economici globali e locali, scavando un solco fra le aree più avanzate e quelle meno progredite. Incapaci di reggere la concorrenza e a volte soggette alle pressioni delle grandi potenze, molte regioni europee e soprattutto extreuropee abbandonarono le attività manifatturiere per orientare le proprie produzioni verso beni complementari a quelli esportati dalle potenze industriali, funzionali alle loro esigenze produttive o semplicemente più richiesti dai mercati internazionali: monocolture di materie prime per l’industria (cotone, canapa) e derrate alimentari (tè, zucchero, cereali) da destinare a paesi sempre meno autosufficienti dal punto di vista alimentare. A sua volta, il minor costo dei prodotti agricoli d’oltreoceano – in particolare i grani – rendeva poco competitive le produzioni europee, favorendo l’inurbamento di molti contadini e l’emigrazione verso il Nuovo Mondo: una situazione compensata, per il momento, dalla crescente domanda di cibo e manodopera delle grandi città, ma destinata a precipitare negli anni Settanta.

 >> pagina 301 
Crescita demografica e urbanizzazione

Il legame fra questa modernizzazione e la crescita demografica iniziata nel Settecento [▶ cap. 2.1] è assai complesso. Senza dubbio, infatti, la modernizzazione ebbe ricadute anche sul piano demografico, migliorando sia la quantità e la varietà dei cibi disponibili sia le condizioni igienico-sanitarie, almeno in taluni contesti. D’altro canto, proprio l’aumento della popolazione fu una delle spinte alla modernizzazione perché impose di adottare tecniche e colture che migliorassero la produttività dei terreni, mise a disposizione più manodopera e costrinse le persone a una maggiore mobilità geografica, alla ricerca di nuove terre o di un lavoro in città. Ciò senza dimenticare che un aumento della natalità, seppur più contenuto, si registrò pure nei centri urbani, creando un nesso fra “rivoluzione demografica” e urbanizzazione indipendente dall’inurbamento contadino.

L’inurbamento di ingenti masse contadine e la progressiva urbanizzazione furono fenomeni macroscopici e strettamente legati già nella percezione dei contemporanei. Ad alimentarli non era però tanto l’offerta di lavoro nelle fabbriche, quanto piuttosto il consolidamento degli apparati statali e lo sviluppo del  settore terziario. Il che spiegava perché inurbamento e urbanizzazione riguardarono più le capitali che le città industriali, modificando poco le tradizionali gerarchie urbane e territoriali [ 5].

Centri industriali, amministrativi e  città-emporio conobbero comunque fenomeni simili a quelli già verificatisi nei decenni precedenti nel Regno Unito [▶ cap. 2.5]. Uno sviluppo spesso caotico portò al rapido inglobamento del contado circostante e a profondi cambiamenti nei profili urbani. A innovazioni come l’illuminazione a gas (installata a Berlino nel 1828, a Parigi l’anno dopo, a Londra nel 1832, a Vienna nel 1833) e all’ampliamento delle reti di trasporto pubblico, si associò infatti una diversa gerarchizzazione e un’articolazione dello spazio urbano in zone più nettamente distinte in base alle attività prevalenti e al livello socioeconomico dei residenti. Non solo dunque si moltiplicarono negozi, uffici e luoghi di cultura e socialità (teatri, caffè, tribunali), ma alcuni edifici finirono per assurgere a luoghi-simbolo e per costituire i nuovi centri della vita cittadina (la Borsa, le stazioni). Pur con le peculiarità connesse al preesistente tessuto urbano di ogni città, si vennero così a creare un po’ ovunque:

  • quartieri residenziali più chic e dotati di infrastrutture all’avanguardia (illuminazione a gas, acqua potabile, fogne), occupati dai ceti più danarosi;
  • quartieri residenziali meno esclusivi, dove alloggiavano i ceti medi impiegatizi o del commercio minuto;
  • quartieri degli affari (come la City di Londra) di solito situati attorno ai luoghi delle transazioni finanziarie o degli scambi commerciali (la Borsa, le stazioni, i porti);
  • sobborghi operai squallidi, sovrappopolati, malsani e privi di servizi [ 6].

 >> pagina 302 

10.3 Un universo articolato: le società borghesi

Profili di borghesie europee

Era soprattutto nei centri urbani che crescevano i cosiddetti “ceti medi” e i “borghesi” si andavano affermando come classe emergente, pur restando in Europa appena il 5-9% degli attivi, circa il 13-15% della popolazione (meno del 20% in Gran Bretagna) e addirittura il 2% laddove, con “borghese”, s’intendeva esclusivamente l’élite urbana non nobiliare.

Più ancora che in altri insiemi sociali, a rientrare nella categoria di “borghese” era infatti una vasta gamma di posizioni economico-professionali e status sociali. Che cosa fosse la borghesia, come si articolasse al suo interno e quali relazioni instaurasse con gli altri gruppi dipendeva insomma dal quadro giuridico-istituzionale e socioeconomico di ogni paese.

In Gran Bretagna, per esempio, la precoce industrializzazione aveva prodotto una rapida integrazione fra nobiltà, grandi mercanti-banchieri e imprenditori. Era questo influente e ricco insieme dalle caratteristiche ibride a esser considerato propriamente “borghese”, e anzi ad assurgere a idealtipo borghese ben distinto sia dagli strati medio-bassi del piccolo commercio e dell’artigianato sia da intellettuali e membri della burocrazia statale, designati non a caso con termini alternativi (middle class, professionals, civil servants).
In Francia, invece, prima la Rivoluzione, poi l’età napoleonica e infine la monarchia orleanista avevano inferto un duro colpo al secolare primato della vecchia aristocrazia e aperto ai non-nobili l’accesso all’amministrazione e alle cariche negli organi rappresentativi [▶ capp. 6.1 e 9.3]. La condivisione di luoghi fisici e di un simile prestigio sociale contribuì a omogeneizzare le diverse anime della borghesia francese (imprenditori, finanzieri, burocrati) in un gruppo cementato anche da matrimoni, studi comuni e da una continua osmosi fra percorsi professionali. Tuttavia, a rendere la Francia la nazione borghese per eccellenza era soprattutto la larga fetta di popolazione attiva appartenente ai livelli inferiori dell’universo borghese: un variegato assieme di soggetti residenti in città dal profilo socioculturale assai modesto (osti, bottegai, artigiani), che contribuiva ad alimentare l’idea dispregiativa di “borghese” come “individuo privo di istruzione” ancora attestata nei dizionari di metà XIX secolo.
In area tedesca, un’industrializzazione più tardiva e una statualità già ben sviluppata favorirono invece l’imporsi delle borghesie colte e delle professioni, assorbite come funzionari o docenti negli apparati burocratici. Solo con l’espansione del capitalismo industriale e con l’unificazione nazionale del 1871 anche gli uomini d’affari avrebbero iniziato ad acquisire un peso, legandosi doppiamente allo Stato (come fornitori di beni e fruitori dell’eccellente sistema educativo tedesco) e convergendo, con la borghesia colta e l’aristocrazia terriera – ancora politicamente dominante – su posizioni conservatrici, ostili alle rivendicazioni liberali e operaie.
Anche nella penisola italiana la frammentazione politica e la scarsa industrializzazione incisero sulla natura delle borghesie. Qui le riforme napoleoniche e poi l’azione centralizzatrice dei regimi restaurati avevano rafforzato gli apparati statali e ridotto la componente aristocratica al loro interno. Tuttavia, i timori delle dinastie regnanti e le pressioni dei vecchi ceti dirigenti gelosi delle loro prerogative limitarono l’ascesa delle locali borghesie professionali [▶ capp. 6.3 e 9.1]. In questo contesto, le borghesie agrarie e imprenditoriali poterono affermarsi solo nelle ristrette aree in via di modernizzazione, restando comunque lontane dal prestigio dei ceti nobiliari, che le guardavano per lo più con disprezzo.

Ancora diverso fu infine il caso dell’Europa orientale, divisa fra i grandi imperi multinazionali ottomano, russo e asburgico. Qui i poteri centrali impedirono che le élite nazionali penetrassero massicciamente gli alti gradi dell’amministrazione e favorirono le iniziative imprenditoriali e finanziarie di operatori stranieri o vicini al governo (tedeschi, russi, ebrei, britannici). Anche se con eccezioni importanti come quella boema, ciò frenò la nascita di borghesie imprenditorial-mercantili autoctone.

 >> pagina 304
Alcuni caratteri comuni
Pur nella varietà delle sue configurazioni, il principale elemento comune alle borghesie europee era il loro costituire gruppi sociali compositi, dall’elevata mobilità sociale e dai confini interni ed esterni labili. Lo era stato nel secolo precedente, quando esse avevano definito se stesse e le loro gerarchie interne per contrasto con i ceti detentori di potere per nascita o condizione (aristocratici, clero). E restava tale nell’Ottocento, quando crebbe sempre più la contrapposizione nei confronti dei ceti inferiori, a difesa di una condizione privilegiata rispetto a quelle di operai, salariati e contadini.
Da questa “posizione di mezzo” e dal constante tentativo di avvicinarsi all’élite rimarcando la distanza dalla massa derivava la seconda caratteristica comune ai borghesi: l’irrequietezza, la precarietà e il rapporto ambiguo che essi instauravano con la propria condizione, sempre in bilico fra l’orgoglio e i tentativi di emanciparsene. Da un lato, i borghesi più influenti e agiati rivendicavano la propria alterità rispetto a quelli considerati indegni dello status, in quanto più vicini all’universo popolare. Dall’altro cercavano ogni modo per favorire la fusione con i ceti nobiliari (matrimoni, partnership in affari, acquisto di beni-simbolo come la terra e il debito pubblico), nonostante la ritrosia dei patrizi di più antico lignaggio e delle aristocrazie dei paesi dove la tradizionale distinzione cetuale era ancora marcata.

Proprio ad assimilarsi all’élite e a distinguersi dai comportamenti dei ceti inferiori mirava un insieme tutto sommato coerente e comune di norme, pratiche sociali, atteggiamenti economici, modelli di socialità, dottrine pedagogico-filosofiche e un sistema di valori che, pur adattato al contesto e al posto preciso occupato nella scala sociale, si fondava su:

  • rispettabilità, valore borghese per eccellenza perché garantiva al non-nobile dal comportamento inappuntabile quell’onorabilità assicurata all’aristocratico dal titolo nobiliare;
  • iniziativa individuale e merito, fattori più moderni ed equi – rispetto alla nascita – nel legittimare un ruolo preminente nella società, che trovava campo privilegiato di applicazione nel lavoro (non manuale come quello operaio) e riconoscimento materiale nella ricchezza;
  • spirito di avventura, apertura al cambiamento e ricerca dell’innovazione per superare gli schemi mentali e culturali risalenti all’antico regime; al contempo, però, piena adesione e conformistico rispetto dei nuovi dettami comportamentali imposti dalla società, che implicava una ferma condanna di ogni forma di devianza quale frutto di malattia, perversione o incapacità di adattamento alla moderna civiltà;
  • responsabilità individuale mista a un forte moralismo, che contrapponeva l’alto senso etico e dell’onore personale tipico del gentleman alla disonesta dissolutezza delle classi lavoratrici inferiori (operai despecializzati, ambulanti), ma sfociava spesso in un perbenismo ipocrita, indulgente sui comportamenti disdicevoli (ubriachezza, violenza, infedeltà coniugale) purché confinati in una sfera privata rigorosamente distinta da quella pubblica;
  • buone maniere, mutuate dall’etichetta aristocratica ma rese economicamente e praticamente accessibili a persone estranee a quegli ambienti e con minori mezzi;
  • frugalità, chiave per fare del risparmio la prova del successo professionale, il mezzo per permettersi i lussi necessari a emulare i nobili e a segnare la distanza dai ceti inferiori, accusati di provocare la propria indigenza con spese dettate dall’incapacità di contenere i bassi istinti (alcol, prostitute);
  • attaccamento all’ordine, rigorosa osservanza delle regole e ossequioso rispetto della gerarchia, sintomi di piena integrazione nella società e cardini della polemica contro intemperanze e tentativi di scalata sociale da parte dei ceti inferiori, nonché strumento per sottolineare la distanza dai dipendenti e affermare l’autorità del capofamiglia.

 >> pagina 305 
Vite borghesi

Proprio la concezione e la struttura familiare costituivano due delle principali novità di questa fase. I ceti urbani medio-alti tesero infatti a distinguersi tanto dalla famiglia allargata, ancora prevalente soprattutto nelle campagne, quanto da quella dei ceti inferiori urbani, costretta a far lavorare fuori casa donne e bambini. All’una e all’altra essi opposero una  famiglia ristretta, fondata su vincoli affettivi piuttosto che utilitaristici e costituita come spazio privato al riparo dagli estranei e dalle ingerenze statali.

A ciò si accompagnarono un più attento controllo delle nascite e il mantenimento di una netta distinzione di ruoli fra donne e uomini, benché anch’essa in evoluzione e differente da contesto a contesto. Le prime vedevano sancita legalmente la loro subordinazione ed erano escluse dall’istruzione superiore per essere educate, sin da bambine, ai ruoli tipicamente femminili. Al capofamiglia maschio spettava invece un’indiscussa autorità sia sui figli (ai quali doveva offrire l’istruzione adeguata alla propria condizione, per preservarli dal lavoro minorile diffuso nei ceti inferiori) sia sulla moglie e le sorelle nubili, delle quali doveva però garantire la rispettabilità con un tenore di vita che consentisse loro di dedicarsi solo alle mansioni genitoriali e domestiche, coadiuvate da personale di servizio.

L’aspetto era il primo segno esteriore di rispettabilità e doveva perciò esprimere la sobria eleganza e la decenza tipiche del borghese, ma anche un benessere precluso ai ceti inferiori [ 7].

Vestito “alla moda”, il borghese godeva di uno dei beni immateriali che più lo distingueva dai ceti inferiori: il tempo libero. Per i meno facoltosi questi spazi erano rappresentati dalle funzioni religiose, dalle feste pubbliche, dalle ricorrenze familiari, da passeggiate nelle zone eleganti e da qualche consumazione in ristoranti o caffè. Più dichiaratamente ispirati ai modelli di ozio aristocratici erano invece la socialità e i consumi degli strati superiori, che servivano a dimostrare non solo ricchezza e livello culturale, ma il pieno inserimento nelle reti relazionali nobiliari: la frequentazione di club esclusivi, sfarzose feste private, un palco a teatro sino a sontuosi funerali e una tomba – magari monumentale – in un cimitero prestigioso.

 >> pagina 306 
Un altro elemento distintivo era l’istruzione. In società ancora largamente analfabete, la capacità di tenere una conversazione, il possesso di un diploma o di libri, qualche pur vaga nozione di cultura classica e di musica erano per pochi. Così come lo era quell’istruzione superiore tecnica che iniziava lentamente a formare manager e ingegneri: nuove figure professionali ancora confinate nelle aziende più grandi e complesse (20 000 gli ingegneri in tutta Europa nel 1860), ma destinate a diventare centrali con lo sviluppo del capitalismo industriale nell’ultimo quarto di secolo.

Il principale status symbol borghese era però costituito dalla casa [ 8]. Già solo il possesso era un privilegio, tanto più man mano che la crescente domanda di alloggi ne fece lievitare i prezzi. Ma erano soprattutto la distribuzione degli spazi e l’arredamento a esprimere i valori borghesi. Le case dei ceti medi non potevano certo avvicinare lo sfarzo dei palazzi aristocratici. La loro diversità dalle residenze operaie veniva allora marcata attraverso la divisione funzionale dei vani, la privacy garantita da camere da letto distinte, il decoro dato dalla pulizia e l’ostentazione di oggetti non necessari (soprammobili, tendaggi, quadri, stampe) o che sottintendevano una certa cultura (libri, mappamondi), quasi sempre concentrati nella stanza di rappresentanza (salotto) piuttosto che nei più spartani ambienti privati. Le abitazioni di uomini d’affari e alti funzionari miravano invece a sottolineare al contempo la dimensione professionale alla base del benessere raggiunto e la piena assimilazione all’élite. Poste nei quartieri più esclusivi, queste case riproponevano dunque l’articolazione e gli arredi dei palazzi nobiliari, ma vi aggiungevano uno studio e oggetti riconducibili all’attività svolta dal capofamiglia [ 9].

Idee borghesi
In tutt’Europa, l’universo borghese produsse e costituì il pubblico intenzionale di un’enorme produzione artistico-letteraria. Il teatro di soggetto “borghese, portato a fama nel tardo Settecento da drammaturghi come Carlo Goldoni e Gotthold Ephraim Lessing, si diffuse largamente. Ciò mentre giungevaa maturità ilromanzo, genere borghese per eccellenza. Allo stesso modo, autori di nobili e meno nobili natali indagarono le mille sfaccettature della classe borghese e del tipo di società che essa stava costruendo, sia allo scopo di esaltarla come massima “espressione dei tempi” sia al contrario per criticarne le figure grigie, grette, avide di denaro e di carriera.

 >> pagina 307 

In molti casi queste opere travalicarono abbondantemente i confini del pur ampio ambiente sociale borghese, finendo per configurarsi come alcune delle migliori espressioni artistiche del tempo e per diffondere un modello culturale composito ma comunque piuttosto omogeneo. Esso esprimeva e al contempo contribuiva a diffondere alcune delle principali correnti filosofico-letterarie, pedagogiche e socioeconomiche del tempo, accostandole, ibridandole e selezionandone gli elementi più funzionali alle esigenze e all’autorappresentazione dei settori sociali emergenti. Ne risultava una visione del mondo tipicamente borghese proprio nel suo essere sincretica, ispirata a:

  • il liberismo economico e i principi liberali, nelle diverse declinazioni proposte dai loro principali teorici [▶ cap. 9.1];
  • liberismo e malthusianesimo, con una cieca fiducia nelle leggi del libero mercato individuate dagli economisti “classici” (Adam Smith, David Ricardo) e ritenute la migliore spiegazione del progresso economico degli ultimi decenni [▶ cap. 2.3];
  • le teorie malthusiane sul nesso fra popolazione e risorse [▶ cap. 2.1];
  • gli echi dell’idealismo hegeliano, rassicurante nel legittimare una realtà necessaria e razionale da contrapporre alle rivendicazioni eversive delle forze antisistema;
  • alcuni tratti dell’utilitarismo di Jeremy Bentham, secondo il quale la moralità di un’azione si giudicava in base al misurabile principio di «massima felicità per il maggior numero di individui», legittimando così comportamenti altrimenti immorali in sé;
  • il cosiddetto selfhelpismo, una linea pedagogica che dell’utilitarismo condivideva l’invito alla laboriosità, l’esaltazione dell’iniziativa personale e la polemica contro assistenzialismo ed egualitarismo, e che in una versione meno individualistica e antiassistenzialista si affermò come il principale modello educativo del tempo anche nei paesi cattolici [ 10];
  • le concezioni poetico-filosofiche del Romanticismo, da cui si espungevano le critiche agli aspetti razionali e utilitaristici della modernità per assorbirne il fascino dell’eroe solitario, lo spirito d’avventura, la rivalutazione delle radici nazionali e la componente sentimentale;
  • la filosofia positivista del francese Auguste Comte, con la sua esaltazione della tecnologia, la convinzione di poter prevedere l’agire umano mediante un’apposita scienza (la sociologia) e un’idea di progresso che sarebbe presto stata travisata dai suoi divulgatori che la configurarono come un processo lineare quanto inarrestabile;
  • levoluzionismo, ossia la teoria sostenuta dal naturalista inglese Charles R. Darwin nel suo L’origine delle specie (1859), secondo la quale il processo di evoluzione degli organismi viventi era l’esito di costanti mutazioni e della sopravvivenza di quelle più adatte all’ambiente: una tesi che, nonostante le resistenze del mondo accademico e religioso, riscosse un immediato e planetario successo perché forniva un convincente quanto rivoluzionario modello biologico di spiegazione della realtà, alternativo a quello  creazionista cristiano e coerente con l’idea positivista di un indefinito progresso dell’umanità;
  • il darwinismo sociale dello scienziato inglese Herbert Spencer, ossia l’idea che si potesse trasferire il principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto all’analisi dei rapporti fra individui e popoli: una dottrina abbracciata dalle classi dirigenti di mezzo mondo, anche perché capace di giustificare la guerra come espressione della naturale lotta per la sopravvivenza e fondare su basi scientifiche il diritto dei più forti a sottomettere i più deboli, sia nei rapporti fra classi sociali sia fra Stati.

 >> pagina 308 

10.4 “Classi laboriose” e “classi pericolose”

L’articolato universo urbano
Per quanto tendessero a travalicare i confini del loro emergente gruppo sociale, stili, mentalità e idee borghesi non riuscirono a egemonizzare l’intera società, nemmeno in quei contesti dove pure essi si diffusero meglio e giunsero a costituire un modello di riferimento. Accanto al mondo borghese resistevano, infatti, ampi universi spaziali e sociali estranei al sistema di valori, alle dottrine, alle pratiche, all’idilliaco quadro della modernità tratteggiato dai suoi fautori e alla stessa idea di progresso che ne era l’ottimistico presupposto concettuale. Lo erano senza dubbio le campagne e le masse rurali. Ma lo erano altresì le vecchie aristocrazie, restie a commistioni con quelli che consideravano dei  parvenu. Infine, lo erano larghe fette delle masse urbane, che pure con i borghesi entravano costantemente in contatto.
Il fatto stesso che, man mano che ci si inoltrava nel XIX secolo, la crescita economica fosse in larga parte alimentata da  beni capitali e non di consumo era un segno della modesta capacità di spesa della stragrande maggioranza della popolazione, sia nelle campagne sia nelle città. Nei centri urbani si addensava un universo di persone che si arrangiava dedicandosi – spesso sommandole o alternandole – alle mille attività connesse alla grande e articolata domanda di beni e servizi prodotta dalla città: dal servizio presso famiglie benestanti al facchinaggio, dall’impiego in bottega al commercio ambulante, dai lavori giornalieri alle attività di manutenzione più gravose e pericolose (la pulizia dei camini, delle fogne).

La situazione di queste persone, oltre che dai bassi stipendi, era aggravata dal più alto costo della vita in città, dall’assenza delle reti di solidarietà tipiche delle comunità di villaggio, dalla precarietà del lavoro e dall’assenza sia di  ammortizzatori sociali nei momenti di disoccupazione sia di assicurazioni in caso di infortunio. Insomma, nel complesso le condizioni economiche dei contadini che si inurbavano erano non di rado migliori di quelle lasciate alle spalle, ma non per questo esse erano soddisfacenti. Tanto più laddove la città favoriva un contatto più quotidiano e diretto con i ceti benestanti, che acuiva la percezione di miseria e l’invidia.

Come accadeva nelle città britanniche fin dall’inizio del processo di industrializzazione, ciò spingeva molti a far lavorare anche i bambini e ad accettare condizioni di lavoro molto dure, con conseguenze non solo sulla mortalità infantile (persino superiore a quella nelle campagne) ma anche sui bassissimi livelli di scolarizzazione. Spesso però neanche questo bastava. E allora vagabondaggio, accattonaggio, criminalità, prostituzione e alcolismo diventavano anche sul continente il corollario della condizione di tanti inurbati, rendendo assai labile il confine fra le “classi laboriose” e le “classi pericolose”. Anche questo alimentava le paure dei ceti elevati e il desiderio di distinguersi di chi riusciva a emanciparsi dai lavori più umili [ 11].

 >> pagina 309 

Figura in parte diversa era quella dell’operaio, il cui salario, per quanto diversificato in base a genere, età e livello di specializzazione (donne, bambini e personale non qualificato erano pagati molto meno), era mediamente superiore a quelli agricoli. Si trattava però di somme anch’esse appena al di sopra della soglia di sussistenza e per di più corrisposte a fronte di giornate di lavoro lunghe e faticose, trascorse in ambienti pericolosi e insalubri.

Anche grazie alla quotidiana e prolungata condivisione di uno stesso spazio di lavoro, gli operai mostrarono però – almeno nei contesti più evoluti – una tendenza più spiccata di altre categorie a costruire una socialità di classe. Essi iniziarono così a prender coscienza dei loro comuni interessi, non solo ritrovandosi in osterie sempre più connotate come “luogo del dopolavoro operaio”, ma anche iniziando a costituire le prime società di mutuo soccorso e associazioni di mestiere.

Salvo che nel Regno Unito [▶ cap. 9.4], quasi ovunque la legge poneva limiti rigidi all’associazionismo popolare, tanto più a quello di natura sindacale. Né a metà Ottocento si poteva già dire che gli operai avessero maturato una diffusa coscienza di classe. Ma questi erano i presupposti e i primi passi del movimento operaio.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900