PROTAGONISTI - I Rothschild, banchieri della Restaurazione

Insomma, pur con modi e tempi diversi, un po’ ovunque i sovrani restaurati tornarono a riconoscere e a mediare con quei particolarismi che lo Stato amministrativo napoleonico aveva invece superato in nome del  principio di omogeneità giuridico-istituzionale. A ciò si aggiungevano la scarsa rappresentatività degli organi elettivi (quando presenti), l’assenza di Costituzioni, i rigidi controlli su movimenti di merci e persone, le politiche protezionistiche, le forti tasse sui consumi, la repressione del dissenso e la censura. Senza dimenticare che il ricorso dei governi restaurati a norme e meccanismi amministrativi napoleonici rispondeva alla loro necessità di ulteriore accentramento, fungendo prima di tutto da strumento per rendere effettivo su tutto il territorio il potere regio, a discapito dei tradizionali potentati locali.

Eppure, non mancavano le continuità con il recente passato: i titoli nobiliari non implicavano più le prerogative tradizionali, il feudalesimo restava ormai residuale anche dove alcuni istituti erano stati reintrodotti, l’architettura istituzionale piramidale ricalcava il modello francese [▶ capp. 6.2 e 6.3] e, almeno da qualche parte, vi era pure una certa libertà di espressione, di stampa e divieti di lettura che prevedevano frequenti eccezioni a favore delle classi più elevate e colte.

La realtà politica, istituzionale e giuridica degli Stati italiani restaurati – e non solo di quelli italiani – era insomma un impasto di elementi vecchi e nuovi.

La campagna preventiva nel Lombardo-Veneto

In questo quadro si inserivano le attività cospirative promosse in molti Stati della penisola italiana dalle società segrete di orientamenti liberali. Nel Lombardo-Veneto l’attenta opera repressiva del governo asburgico impedì che si giungesse a forme aperte di rivolta. Nel 1819, infatti, le autorità soppressero Il Conciliatore, una rivista che aveva presto tradito gli intenti moderati sottesi al suo titolo per assumere un orientamento antiassolutistico e antiasburgico. Poi, l’anno successivo ne arrestarono il direttore, quel Silvio Pellico membro della setta dei Federati che sarebbe diventato autore di uno dei testi di riferimento dell’indipendentismo italiano (Le mie prigioni, 1832).

Il 1820-21 nelle Due Sicilie
Nelle Due Sicilie, invece, scoppiarono vere e proprie rivolte. Seguendo l’esempio degli ammutinati spagnoli, alcune guarnigioni legate alla Carboneria si ribellarono e imposero a Ferdinando I la concessione di una Costituzione ispirata a quella di Cadice (6 luglio 1820). A Palermo ciò indusse aristocratici e maestranze artigiane a sollevarsi e a chiedere il ripristino della Costituzione emanata in Sicilia nel 1812.

Tuttavia, le fratture interne indebolirono il movimento siciliano e lo stesso governo costituzionale napoletano inviò delle forze per reprimere l’insurrezione isolana [ 2], che aveva assunto i caratteri di una vera e propria secessione: una soluzione inaccettabile tanto per la monarchia e l’aristocrazia più reazionaria quanto per i tanti liberali che non riconoscevano legittimità a una nazione siciliana. Ciò spaccò ulteriormente il fronte antiassolutista e facilitò Ferdinando, che in nome del principio d’intervento ottenne dalla Santa Alleanza [▶ cap. 7.4] un esercito capace in breve di sconfiggere le truppe del governo costituzionale guidate da Guglielmo Pepe, ponendo fine alla parentesi costituzionale (24 marzo 1821).

L’assolutismo e l’integrità territoriale delle Due Sicilie erano salvi, ma a un prezzo altissimo. La dura repressione, pur non riuscendo a sradicare il settarismo, portò infatti all’epurazione di un’intera generazione di intellettuali e funzionari qualificati (formatisi in età murattiana), sostituiti da un’aristocrazia fedele ai Borbone ma incapace di gestire la complessa macchina amministrativa ereditata dai francesi. Finiva così la moderata politica di conciliazione condotta dopo il 1815 su indicazione di Metternich. Fatto ancor più grave, quest’ultimo non intese sostenere le spese dell’intervento militare. Perciò, costrinse Ferdinando a contrarre un ingente prestito dalla Banca Rothschild [▶ protagonisti, p. 263] per sovvenzionare la spedizione e poi la permanenza di un contingente asburgico a sua tutela: un debito che avrebbe condizionato le politiche economiche e fiscali del regno sino alla caduta dei Borbone.

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Il moto piemontese del1821
Contigua cronologicamente e sempre guidata da militari, ma generata da istanze in parte diverse, fu la rivolta esplosa in Piemonte nel marzo 1821. Qui, contando sulle simpatie liberali del principe Carlo Alberto (nipote di re Vittorio Emanuele I), Santorre di Santarosa e altri generali di sentimenti filocostituzionali e antiasburgici si ribellarono innalzando la bandiera tricolore del Regno d’Italia napoleonico. Prima chiesero una Costituzione, pur dividendosi fra chi propendeva per quella di Cadice e chi per testi più moderati come la Costituzione siciliana del 1812 o quella francese del 1814. Poi provarono a sfruttare l’impegno asburgico nelle Due Sicilie per dichiarare guerra agli Asburgo. Contrario a entrambe le richieste, Vittorio Emanuele abdicò in favore del fratello Carlo Felice, che era però momentaneamente assente dal regno. Così, non senza qualche esitazione, Carlo Alberto sfruttò l’assenza dello zio e la sua condizione di secondo nella linea di discendenza al trono per concedere una Carta costituzionale e varare un governo provvisorio.

Anche in Piemonte, tuttavia, la vittoria dei rivoltosi fu effimera. Carlo Felice tornò a Torino e revocò la Costituzione, mentre lo stesso Carlo Alberto si mostrò fermamente contrario a un conflitto con la potenza asburgica. Così, prima garantì supporto militare alle truppe inviate dalla Santa Alleanza per sedare l’insurrezione. Poi, per rifarsi una reputazione agli occhi dei regimi restaurati, prese parte alla spedizione promossa dalla stessa Santa Alleanza per schiacciare l’insurrezione in Spagna.

La fine dell’esperienza costituzionale in Spagna
C’era dunque anche Carlo Alberto con le truppe francesi inviate dalla Santa Alleanza a espugnare il Trocadero (il forte a difesa della città simbolo di Cadice) e liberare Ferdinando VII (settembre 1823).

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La fine del triennio liberale aprì però una lunga fase di instabilità. Tornato sul trono, Ferdinando dovette infatti fronteggiare sia il peso del debito contratto con i Rothschild nel 1822 per provare a ripristinare da sé l’assolutismo, sia la mancanza di eredi maschi: un vuoto che lo costrinse a emanare una Prammatica sanzione (1830) per poter incoronare la figlia Isabella, una volta adulta. Alla morte del re, reazionari, aree rurali, autonomisti baschi e catalani non riconobbero però né la reggenza della moglie di Ferdinando né l’autorità della regina designata, appoggiando il diritto al trono del primo erede maschio, il fratello di Ferdinando Carlo di Borbone. Ne seguirono le cosiddette “guerre carliste”, dal nome dato ai sostenitori di Carlo.

La prima (1833-40) vide prevalere la fazione di Isabella, grazie all’appoggio franco-britannico [ 3]. Tuttavia, ciò non pose fine né alle violenze né ai tentativi eversivi, che infatti nel 1868 portarono la regina ad abdicare in favore del figlio Alfonso XII, in esilio però come lei.

La seconda scoppiò nel 1870. I sostenitori di Carlo VII (nipote di Carlo di Borbone) non accettarono l’incoronazione di Amedeo I di Savoia, voluta dai liberali moderati per salvare una Spagna alla deriva sotto una serie di governi inconcludenti. Lo scontro durò sino al 1876 quando, tornato in patria, Alfonso XII sbaragliò gli ultracattolici antiliberali e gli autonomisti baschi e catalani che appoggiavano Carlo VII. Si restaurava così il potere monarchico, da sei anni supplito di fatto da un regime democratico poi noto come “Sessennio democratico” del 1868-74. Guerre civili così sanguinose avevano però minato non solo l’economia di un paese rimasto infatti indietro rispetto ad altri Stati occidentali, ma anche la coesione interna e un processo di costruzione della nazione [▶ fenomeni, p. 264], reso già particolarmente complicato dal forte senso identitario di popoli come i baschi e i catalani.

L’eccezione portoghese
A tre anni dall’ammutinamento di Cadice del 1820 l’assolutismo era dunque ripristinato un po’ ovunque in Europa. L’unica eccezione fu il Portogallo. Qui l’insurrezione guidata dai militari di stanza a Oporto (24 agosto 1820), pur avvenuta a seguito di quella spagnola, fu caratterizzata da un ancor più stretto intreccio fra le istanze costituzionali e la questione delle indipendenze coloniali. I militari ammutinati e i rivoltosi cercavano infatti in primo luogo di restituire centralità al Portogallo nel più ampio quadro dell’impero e di ripristinare il monopolio portoghese sul commercio con il Brasile. La rivolta in realtà finì con il favorire l’indipendenza brasiliana osteggiata dalle Côrtes portoghesi [▶ cap. 8.1] ma, per il resto, riuscì nel suo intento. Le corone portoghese e brasiliana furono separate; il sovrano tornò a Lisbona e nacque un regime monarchico-costituzionale (1822) capace di sopravvivere ai reiterati tentativi di destabilizzazione operati dalle fazioni filoborboniche e assolutiste, riconducibili alla moglie spagnola di Giovanni VI e a suo figlio Michele.

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  protagonisti

I Rothschild, banchieri della Restaurazione

Ai tavoli del potere

La Banca Rothschild fu il più importante istituto di credito privato dell’Ottocento. Nata nel 1760 a Francoforte per opera dell’ebreo Mayer Amschel Rothschild, ampliò e diversificò le proprie attività spaziando dal commercio internazionale alle speculazioni borsistiche, sino agli investimenti industriali e al credito a privati e governi. Fu proprio il bisogno di denaro del governo britannico durante le guerre napoleoniche a fornire ai Rothschild l’occasione per affermarsi oltre l’area tedesca. Così, dopo la parentesi rivoluzionaria, tre dei figli di Mayer erano ormai fra i principali protagonisti dell’alta finanza mondiale, avendo aggiunto alla sede originaria filiali a Londra, a Parigi e a Vienna. E fu in questa veste che essi parteciparono al Congresso nella capitale austriaca e ai successivi incontri previsti dal sistema dei congressi, riuscendo a monopolizzare – insieme a poche altre banche – i flussi di denaro legati ai danni di guerra, alle occupazioni militari previste dai trattati, alle spedizioni contro i ribelli del 1820-21 e alla gestione delle sempre più complesse amministrazioni statali europee. Se molti regimi poterono reggere il peso economico delle funzioni e delle competenze di uno Stato moderno, e se a Cadice come a Napoli la Santa Alleanza poté riaffermare con le armi i cardini dell’assolutismo legittimista, fu grazie ai prestiti dei “banchieri della Restaurazione”, che non a caso proprio nelle Due Sicilie istallarono nel 1821 la loro quinta sede con a capo il quarto fratello, Carl Mayer.

Le ragioni del successo

Alla base del successo dei Rothschild vi furono molti fattori. Oltre a un’immensa liquidità e alle influenti amicizie in molte cancellerie europee, un ruolo importante fu giocato dal mantenimento – anche attraverso un’accorta politica matrimoniale – della struttura familiare dell’attività, che garantiva un perfetto equilibrio fra autonomia di gestione e stretta collaborazione tra i fratelli. I Rothschild sfruttarono anche le reti di relazione tipiche di una banca etnica, facendosi punto di riferimento per le comunità ebraiche delle loro città. Eppure non rinunciarono a far affari con persone di altre fedi, fra cui il papa. Furono essenziali, inoltre, la diversificazione degli investimenti e la notevole capacità di riconvertire le attività e di adeguarle alle diverse piazze: i Rothschild, infatti, non disdegnarono operazioni minori là dove non si poteva far altro (Napoli). Ma furono assai intraprendenti in contesti come Parigi e Londra, dove potevano sfruttare la crescita del settore industriale e ferroviario (furono coinvolti fra l’altro nella costruzione del canale di Suez e della rete ferroviaria francese). Infine, poterono contare su un’efficientissima rete di informatori, che consentiva loro di manovrare in anticipo il mercato azionario e dei cambi: il mito vuole che Nathan Rothschild avesse guadagnato migliaia di sterline in Borsa sapendo l’esito della battaglia di Waterloo persino prima del governo inglese.

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  fenomeni

La costruzione della nazione

Una costruzione politico-culturale

L’Ottocento fu senza dubbio il secolo delle nazioni. Ma, come disse lo storico francese Ernest Renan nel 1882, l’essere una nazione è «un plebiscito di ogni giorno», frutto di una quotidiana quanto tacita scelta individuale e collettiva di accettare e perpetuare una peculiare costruzione politico-culturale. Le nazioni, infatti, sono composte da individui che “immaginano” di essere una comunità, presupponendo fra loro una maggior affinità culturale o spirituale rispetto a soggetti di altri gruppi. Esse sono pertanto prodotti artificiali, costituiti mediante un processo spesso molto lungo, ma a volte accelerato dal bisogno di compattare popoli venutisi a trovare in situazioni particolari. Tale processo prende il nome di Nation building (“costruzione della nazione”) e consiste nell’adozione di una serie di politiche, iniziative, discorsi, rappresentazioni e simboli che producono:

  • l’omogeneizzazione linguistica della popolazione (con la costruzione e la diffusione di una lingua nazionale standard, cui si attribuisce un valore letterario e che viene difesa da dialetti e forestierismi);
  • la definizione di un patrimonio artistico-letterario (con l’individuazione di un canone di opere letterarie, musicali, pittoriche, architettoniche ecc. considerate indispensabili al bagaglio culturale di ogni membro della nazione);
  • l’elaborazione di una memoria storica condivisa (mediante la ricostruzione operata dall’archeologia, dai musei e da una storiografia nazionale, che leggono il passato in modo da retrodatare l’esistenza della nazione, glorificarne i momenti fondativi e legittimarne le rivendicazioni);
  • la familiarizzazione con il territorio identificato come patrio (attraverso il turismo, club alpini ed eventi sportivi itineranti);
  • l’individuazione di costumi e di una cultura materiale tipici (credenze, abbigliamento, cucina ecc.);
  • l’aggregazione e la celebrazione dei membri della comunità (esaltandone i personaggi illustri, il contributo al progresso dell’umanità, il ruolo provvidenziale nella storia e la superiorità rispetto alle altre nazioni).

Nel produrre e limare costantemente la propria identità, le nazioni selezionano, cancellano, sminuiscono e prendono a prestito elementi in modo relativamente arbitrario. In altre parole, inventano le proprie tradizioni o le retrodatano per riconnetterle a un passato appositamente ricostruito, rendendole funzionali alle esigenze contingenti del Nation building. Esempi di “tradizioni inventate” sono le arti marziali in Giappone, la cultura celtica, la lingua basca nonché i “miti” connessi alle rivendicazioni “nazionaliste” meridionali e “padane” in Italia.

Stato e nazione

La formazione della nazione non coincide né va per forza di pari passo con il processo di costruzione dello Stato (State building), tanto negli Stati-nazione la cui popolazione è piuttosto omogenea, quanto negli imperi in cui convivono più comunità linguistiche e culturali di una certa consistenza. Nei fatti, però, Nation building e State building si sono spesso intrecciati. A volte un già diffuso senso di appartenenza nazionale ha contribuito alla nascita e al consolidamento di uno Stato nazionale, oppure all’implosione di imperi irrispettosi della volontà indipendentista delle nazioni che vi abitavano. Altre volte, invece, lo Stato ha promosso o avversato il Nation building mediante politiche linguistiche (ammettendo bilinguismi, imponendo o vietando idiomi), scolastiche (la scelta di materie, programmi e materiali di studio) e toponomastiche (la dedica di strade e piazze).

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9.2 L’Impero russo, l’Impero ottomano e la “questione d’Oriente”

Alessandro I tra riforme e reazione
Mentre l’Europa occidentale viveva una breve parentesi costituzionale, gli imperi dell’Est conoscevano una lunga fase di tensioni interne che ne avrebbe presto mostrato le debolezze e la crescente marginalità.

Pur essendo fra i promotori della Santa Alleanza, negli anni successivi al Congresso di Vienna lo zar Alessandro I si era mostrato piuttosto liberale, emancipando i servi della gleba nelle province baltiche e ipotizzando persino di concedere di una Costituzione. Presto, però, il timore per quelli che giudicava gli eccessi del liberalismo occidentale si tradusse in una serie di provvedimenti avversati non solo dalle masse contadine, ma anche e soprattutto dai tanti giovani ufficiali dell’esercito, rientrati dalle campagne antinapoleoniche in Occidente e colpiti dall’arretratezza e dall’illiberalità del loro paese.

Così, alle rivolte nelle campagne, duramente represse, si affiancò l’attivismo delle società di stampo massonico che, pur divise fra repubblicane e monarchico-costituzionali, videro aderire molti militari.

Nel dicembre 1825 alcuni ufficiali si sollevarono [ 4], sfruttando l’improvvisa morte dello zar e le incertezze sulla sua successione (erede di Alessandro era il fratello Costantino, granduca di Polonia, che nel 1822 aveva però segretamente rinunciato al trono). La rivolta fu però subito soffocata dal nuovo sovrano (l’altro fratello di Alessandro, Nicola I Romanov) e l’insurrezione decabrista (da dekabr’, “dicembre”) si rivelò un fallimento.

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Il regno di Nicola I
Negli anni seguenti Nicola proseguì l’espansione territoriale nel Caucaso meridionale, strappato alla Persia ma particolarmente difficile da tenere sotto controllo per le forti resistenze dei circassi sulle coste del Mar Nero e delle popolazioni musulmane di Cecenia e Daghestan [ 5].
In campo economico, lo zar favorì un primo modesto sviluppo industriale delle province baltiche, polacche e finniche grazie a dazi doganali, all’istituzione di scuole superiori commerciali e alla costruzione delle prime ferrovie, realizzate ricorrendo a tecnici e tecnologie statunitensi. In ambito giuridico, infine, la sua azione riformista si concretizzò nella pubblicazione della Collezione completa delle leggi dell’impero, base del diritto russo fino al 1917.

Nicola restava però convinto che il riformismo liberale fosse sinonimo di rivoluzione e che defeudalizzazione e industrializzazione avrebbero minato le fondamenta socioeconomiche su cui reggeva l’impero. Acuì perciò il carattere repressivo, centralista e autocratico del regime, procedendo a una decisa  russificazione della società e della Chiesa ortodossa, sempre più asservita al potere zarista.

Il clima oppressivo non impedì l’attività di una ristretta cerchia di intellettuali (intelligencija), ma ne limitò l’azione al dibattito letterario e all’analisi dell’arretratezza russa. Tanto più che la capacità d’azione di questi intellettuali era pregiudicata dall’essere concentrati a San Pietroburgo e dalle divisioni interne: da una parte c’erano infatti i circoli liberali filoccidentali, affascinati dalla cultura francese e tedesca; dall’altra il movimento slavofilo, che rivendicava orgogliosamente l’alterità della tradizione culturale slava e ne valorizzava l’armonica integrazione fra paternalismo nobiliare e comunità contadine (mir). D’altronde, proprio la solidarietà comunitaria era da molti considerata l’antidoto ai mali delle conflittuali e corrotte società industriali occidentali.

L’Impero ottomano e le sue irrequiete province
Ancor più instabile era il dominio ottomano in vaste regioni dell’impero di fatto autonome. Tale era la ricca e popolosa provincia egiziana, controllata sin dal 1805 dal governatore Mehmet Alì, sostenuto dai capitribù indigeni e capace di modernizzarla, rinnovarne l’esercito e porsi così di fatto alla pari del sultano.

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Altro focolaio di rivolta erano i principati danubiani di Moldavia e Valacchia (oggi regioni della Romania, della Moldavia e dell’Ucraina), dove le istanze indipendentiste a sfondo religioso e le aspirazioni dinastiche di alcuni principi locali convergevano in un generico sentimento antiottomano.

Tuttavia, fu dalla Grecia che vennero le maggiori preoccupazioni per il sultano. Sfruttando l’impegno delle truppe ottomane nella repressione di disordini scoppiati in Egitto e nell’area danubiana, i capi del movimento indipendentista greco dettero avvio a una ribellione destinata a scuotere l’impero. Il 25 marzo 1821 il  metropolita di Patrasso dichiarò aperta la guerra di liberazione nazionale e in breve la rivolta dilagò nel Peloponneso, in Macedonia, a Creta e a Cipro. L’insurrezione, condotta in principio da esponenti del clero ortodosso e della Filikí Etería, assunse così i caratteri di una vera e propria guerra d’indipendenza nazionale, sostenuta da strati relativamente ampi della popolazione, supportata da intellettuali detti perciò “filelleni” e vista con simpatia dalle opinioni pubbliche occidentali di orientamenti liberali.

La spinta eversiva nei principati danubiani si esaurì presto, tradita tanto dal mancato supporto militare degli Asburgo o dello zar (che pure aspiravano a subentrare al sultano nel controllo dell’area) quanto dalla locale élite greca, fedele a un sultano che già le garantiva ruoli prestigiosi nell’amministrazione di quei territori.

In Grecia, invece, l’insurrezione proseguì, sebbene ora fosse guidata da mercanti e alti funzionari che – più della causa nazionale – difendevano la propria autonomia erosa dalle riforme in senso centralistico avviate dal sultano sin dall’età napoleonica. La mancanza di una leadership forte ritardò l’azione rivoluzionaria, lasciando che le sue vittorie fossero dovute soprattutto al carattere episodico (benché brutale) della repressione ottomana, ai finanziamenti provenienti dai comitati filelleni sorti in tutt’Europa e alla partecipazione personale di tanti volontari stranieri, incarnazione del­l’internazionalismo tipico dei movimenti nazionali ottocenteschi [ 6].
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L’intervento internazionale e l’indipendenza greca
Le conquiste dei ribelli furono presto frustrate. Da una parte, le lotte di potere fra i vari capi militari e i dissidi per il controllo delle nascenti istituzioni nazionali fra i greci del Peloponneso e quelli della parte continentale e delle isole portarono a ben due guerre civili (1824-25). Dall’altra, il sultano si decise a chiedere aiuto al suo vassallo egiziano. Così Ibrahim Pasha (figlio di Mehmet Alì) riprese il Peloponneso e la città di Missolungi (1826) [ 7]. Sarebbe stata una vittoria decisiva, ma le 3000 teste mozzate appese da Ibrahim Pasha alle mura di Missolungi e la morte di Lord Byron (dovuta in realtà alla febbre) scandalizzarono l’Europa, guadagnando alla propaganda antiottomana non solo i liberali, ma persino i reazionari.

La svolta si verificò però con l’ascesa al trono russo di Nicola I. Poiché la rivolta greca minacciava l’equilibrio europeo in un’area ambita dallo zar, le grandi potenze intervennero. In realtà, gli zar avevano spesso alimentato il malcontento greco-ortodosso nei confronti del sultano come pretesto per subentrare al dominio ottomano nei Balcani. Tuttavia, nel 1821 Metternich era riuscito a convincere Alessandro I a restare neutrale, denunciando l’illegittimità delle pretese avanzate dai ribelli. Al contrario Nicola, pur già impegnato militarmente nel Caucaso, decise di aiutarli per non lasciare a francesi e britannici la riorganizzazione della regione una volta terminato il conflitto.

Francia, Regno Unito e Impero russo decisero allora un intervento congiunto in favore di una Grecia da costituirsi come Stato autonomo ma vassallo del sultano. Così, mentre una flotta della coalizione affondava quasi tutte le navi turco-egiziane nella baia di Navarino (20 ottobre 1827), una spedizione francese aiutava i greci a cacciare dal Peloponneso le truppe ottomane: nel 1829 il paese era nelle mani di un governo provvisorio capeggiato da Ioannis Antonios Kapodistrias, ex ambasciatore filelleno di Alessandro I e ora eroe nazionale.

Preceduto da frenetiche consultazioni fra i vincitori per limitare l’influenza russa e individuare un sovrano, il Trattato di Costantinopoli (1832) sancì infine la nascita di uno Stato monarchico e indipendente affidato al principe bavarese Otto von Wittelsbach. Come capitale fu scelta Atene, al tempo un piccolo centro, ma simbolo di quella classicità che doveva costituire la base della nascente identità nazionale greca. Proprio l’influenza delle grandi potenze, un monarca straniero e gli stretti confini del nuovo Stato (il 75% dei greci ottomani restava fuori dal paese) lasciavano però insoddisfatti i nazionalisti più intransigenti, sedotti dalla Megàle Idèa (“Grande Idea”) di una Grecia comprendente tutte le aree dell’Impero ottomano a maggioranza greco-ortodossa.

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Questione d’Oriente e orientalismi
Per il sultano, la forzata rinuncia a questa fetta del suo impero non rappresentò un danno grave né dal punto di vista territoriale né strategico. Ben peggiori erano state le altre perdite subite in questi stessi anni [ 8]:

  • la Serbia, sebbene obbligata a pagare un tributo annuale alla Sublime Porta, fu costituita in principato autonomo sul piano amministrativo-giudiziario e dotata di un proprio sovrano ereditario, posto sotto l’ala protettrice dello zar;
  • il Montenegro e i principati danubiani di Moldavia e Valacchia acquisirono una condizione di semiautonomia e furono sorretti dal supporto politico-finanziario zarista;
  • l’Algeria fu occupata dai francesi a partire dal 1830;
  • la Siria fu conquistata da Ibrahim Pasha che, da alleato prezioso nella campagna in Grecia, era passato a sfruttare la debolezza del sultano per minacciare a più riprese persino Istanbul, prima di essere costretto da britannici, prussiani, Asburgo e dallo zar a limitare i suoi possedimenti ereditari al solo Egitto (Convenzione di Londra, 1840).

Non furono dunque le perdite territoriali a fare della vicenda greca uno spartiacque della storia europea e ottomana, quanto i suoi effetti. Da un lato essa mostrò il crescente consenso internazionale attorno alle istanze liberali e nazionali, benché subordinato agli interessi delle grandi potenze e ancora per lo più limitato a élite colte. Dall’altro, costituì un modello di successo per analoghe rivendicazioni di popoli ancora sottomessi al potere ottomano, facendo dell’instabilità una caratteristica di fondo dell’area balcanico-caucasica: una situazione nota come “questione d’Oriente”. In più, dette impulso alla riformulazione di un’identità europeo-occidentale contrapposta e ritenuta superiore al mondo arabo-islamico, visto come arretrato, illiberale e brutale secondo gli stereotipi di un orientalismo che si affiancò sempre più alla tradizionale fascinazione occidentale per le culture orientali [▶ fenomeni, p. 272].

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La lotta per l’indipendenza greca, infine, rese evidente la fine del sistema dei congressi, ormai incapace di conciliare la tendenza sempre più filoliberale della politica estera britannica, i disegni egemonici degli Asburgo nei Balcani perseguiti sin dal 1815 [▶ cap. 7.3], le mire espansionistiche dell’Impero russo e il crescente coinvolgimento della Francia restaurata nei consessi diplomatici cui era demandata l’applicazione dei principi sanciti a Vienna.

9.3 Insurrezioni e rivoluzioni negli anni Trenta

Luigi XVIII “re di Francia”
Il ruolo avuto nella crisi spagnola segnò il rapido ritorno della Francia fra le grandi potenze, trasformando di fatto la Quadruplice [▶ cap. 7.4] in Quintuplice Alleanza.

Protagonista ne era stato il restaurato Luigi XVIII che, dopo aver concesso una Carta in cui restava comunque re di Francia “per grazia di Dio”, aveva assunto presto posizioni dichiaratamente reazionarie.

Le novità non mancavano (laicizzazione di funzioni pubbliche prima affidate al clero, mobilità sociale legata al servizio allo Stato, riduzione di ordini e corpi intermedi), ma la Francia restaurata non era molto diversa da quella di antico regime: l’accesso al voto restava legato al censo, l’80% della popolazione viveva in campagna e l’abolizione dei diritti feudali aveva inciso poco sulle condizioni di vita e sulle gerarchie sociali, con contadini che continuavano a percepirsi come servi e molti nobili o ricchi borghesi che avevano recuperato i patrimoni loro confiscati durante la Rivoluzione, e anzi li avevano incrementati acquistando i beni nazionalizzati.

Così, più che i lasciti della Rivoluzione, a creare problemi a Luigi XVIII fu l’instabilità generata dalle divisioni interne alla classe dirigente, spaccata fra diverse componenti assai difficili a conciliare fra loro:

  • gli ultrarealisti (detti ultras), capeggiati dal fratello minore del re, il futuro Carlo X, e fautori dell’assolutismo di antico regime quale ordine provvidenziale garantito dalla Chiesa;
  • i costituzionali o dottrinari, come François Guizot, favorevoli a un’interpretazione liberale della Carta concessa nel 1814 ma poco influenti perché così pochi «da poter sedere tutti su un divano»;
  • i liberali, guidati dal duca d’Orléans e da Adolphe Thiers, espressione di classi emergenti come la borghesia d’affari e la nuova nobiltà, e perciò liberisti in economia e sostenitori di un sistema costituzionale simile a quello britannico;
  • i repubblicani e i bonapartisti, numerosi fra gli antiassolutisti nostalgici dei fasti napoleonici (ex soldati, ceti inferiori, borghesia del commercio e delle professioni).

Per barcamenarsi fra spinte incompatibili ma tutte critiche nei suoi confronti, il re finì per dar vita a un regime più autoritario di quello che lui stesso avrebbe voluto [ 9]. Era sostenuto da piccoli e grandi proprietari terrieri, ma ricorse a continui stratagemmi legislativi (emendamenti alla Carta, riforme elettorali favorevoli ai ricchi) e feroci repressioni, come il cosiddetto “Terrore bianco”: 70 000 sospettati di bonapartismo e simpatie repubblicane arrestati, esiliati o uccisi fra il 1815 e il 1816. Insomma, in Francia la Restaurazione presentava una delle sue facce più truci.

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La Francia di Carlo X
Il regno di Carlo X, salito al trono nel 1824 alla morte di Lui­gi XVIII, non modificò sensibilmente il quadro demografico, economico e sociale della Francia. La popolazione continuò ad aumentare, ma meno che in altri paesi. Ciò perché la natalità recuperava lentamente i decessi e lo squilibrio tra donne e uomini prodotti da vent’anni di guerre e da una mortalità ancora alta sia nelle campagne (segnate da indigenza, analfabetismo, diffusione della violenza e rifiuto della medicalizzazione) sia nelle città, che l’assenza di infrastrutture, l’iponutrizione, l’inquinamento, l’alcolismo e le carenze igieniche trasformavano in un vero e proprio “cimitero della gente”.

Pur ancora gravato dal costo delle riparazioni di guerra e delle truppe d’occupazione, il paese sperimentò in questi anni una fragile e parziale “modernizzazione senza slancio”: l’economia francese beneficiava infatti delle scoperte dei suoi scienziati-ingegneri, di un marcato protezionismo (divieto di importazione del cotone, dazio del 120% sul ferro) e dell’afflusso di capitali stranieri, ma produceva soprattutto  beni di consumo (i più soggetti al mutare della domanda) ed era tagliata fuori dai  transfer tecnologici e dai commerci di materie prime provenienti dal Regno Unito a causa delle politiche protezioniste in vigore ai due lati della Manica. Completavano il quadro infrastrutture inadeguate, l’elevato costo del carbone locale e una rete creditizia assai esile al di fuori di Parigi, schiacciata dall’ Alta banca (Rothschild, Fould, Laffitte). A tutte queste criticità si aggiungevano le conseguenze della crisi agricola del 1816-17, il rigore del governo nel risanare le finanze pubbliche nonché la scarsa manodopera industriale disponibile, limitata in parte dalla modesta crescita demografica e in parte dalla diffusione ancora notevole dei sistemi produttivi a domicilio.

Le classi lavoratrici urbane restavano infatti composte più da domestici, ambulanti e garzoni che da operai impiegati in fabbriche accentrate, mentre una nuova élite notabilare si affermava facendo del denaro il suo principale elemento di distinzione: un gruppo assai composito, formato da antica aristocrazia, uomini di più recente nobiltà, titolari di fortunate attività imprenditoriali (talvolta frutto di scalate sociali avvenute in più generazioni), possessori di saperi tecnici e da chi si era arricchito con la finanza o acquistando beni nazionali durante la Rivoluzione [▶ cap. 5.1].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900