Liberalismo e liberalismi
Le declinazioni del liberalismo “classico”
Con il termine “liberalismo” la storia della filosofia identifica l’insieme di teorie politico-economiche di pensatori come John Locke (1632-1704) e John Stuart Mill (1806-73) in Inghilterra, Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) in area tedesca, il barone di Montesquieu (1689-1755) e Benjamin Constant (1767-1830) in Francia. Fra queste dottrine non mancavano differenze anche significative (gli auspicati assetti istituzionali, la diversa ripartizione e gli equilibri fra i poteri, l’identificazione dei diritti inalienabili), essendo state prodotte in diversi contesti geografici, cronologici e politico-istituzionali. Eppure tali differenze sono spesso sottovalutate in nome di alcuni tratti condivisi: la centralità della libertà individuale, il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali (vita, proprietà privata, pensiero, espressione ecc.) e l’idea che Costituzioni e sistemi parlamentari fossero gli strumenti giuridico-istituzionali più efficaci per garantirli contro le pretese dei regimi assolutistici e teocratici. Inoltre, pur fautrici di un ampliamento del suffragio, nessuna dottrina liberale giungeva a teorizzare una compiuta democrazia.
D’altronde, lo Stato non era considerato un luogo di realizzazione della libertà individuale mediante il contributo (diretto o per mezzo di rappresentanti) del cittadino al processo decisionale, ma uno strumento che una minoranza qualificata da un elevato status socioeconomico e culturale aveva il diritto-dovere di usare per garantire diritti e libertà a una maggioranza di governati, perlopiù esclusi dal voto e oggetto delle paternalistiche cure della classe dirigente. Da qui derivava l’idea di uno Stato agile e meno invadente possibile (ma pure sul grado di intervento vi erano differenze notevoli fra i liberali), che lasciasse appunto libertà agli individui nel loro agire sociale, nella formazione culturale, in materia religiosa come nelle loro iniziative economiche. La libertà delle imprese di perseguire il proprio profitto e la rigida limitazione all’intervento dello Stato negli equilibri del mercato (ritenuto capace di autoregolarsi) furono i cardini di alcuni teorici del liberalismo britannico come Adam Smith (1720-90), detti perciò “liberisti”.
Le successive ibridazioni
Con la loro progressiva diffusione, i diversi liberalismi finirono poi per mescolarsi sempre più con altre idee (a volte anche teoricamente inconciliabili), producendo dottrine tanto sincretiche da risultare a volte difficilmente riconducibili ai canoni del liberalismo “classico” europeo. Il risultato di queste ibridazioni fu la pluralità dei movimenti “liberali” ottocenteschi e degli obiettivi che essi si prefiggevano. I più moderati intendevano semplicemente mitigare l’assolutismo mediante Costituzioni e istituzioni rappresentative a suffragio più o meno ristretto; altri legavano le riforme politiche alle istanze indipendentiste di popoli sottoposti a dominazioni straniere; i liberali laici e i cattolico-liberali miravano a conciliare liberalismo e cristianesimo; gli emancipazionisti volevano combinare riforme politiche e sociali per migliorare le condizioni di vita dei più poveri; altri, meno interessati alla questione sociale, pensavano piuttosto a garantire l’economia dall’ingerenza statale senza pretendere modifiche né politico-istituzionali né sociali. Insomma, una Costituzione e/o un parlamento potevano essere da sé il risultato a cui mirare oppure esser visti come prerequisiti per ulteriori passi in avanti, quali l’indipendenza nazionale, il liberismo economico o profonde riforme sociali.
D’altro canto, nonostante i tanti prestiti e vicendevoli adattamenti fra le Carte scritte in questa fase, erano spesso diversi i tipi di Costituzione che i “liberali” chiedevano (scritta o consuetudinaria, rigida o flessibile ecc.) e i loro modelli di riferimento (quelle napoleoniche, quella inglese, quella statunitense, quelle francesi del 1814 e del 1830). Allo stesso modo, esistevano divergenze circa l’articolazione del sistema parlamentare (monocamerale, bicamerale), sui rapporti con il capo dello Stato e nel delimitare ampiezza del corpo elettorale e criteri della sua selezione (limiti di censo, livello culturale, età ecc.).
Tutto ciò, senza dimenticare che spesso gli uomini che si batterono per cause “liberali” – in Europa come nelle Americhe – avevano una conoscenza assai superficiale e confusa delle dottrine cui si richiamavano i loro leader, a loro volta non sempre profondi conoscitori dei testi “classici”. Così, mentre i Bolívar, i gran maestri carbonari, i Guglielmo Pepe e i capi della Filikí Etería li interpretavano e li combinavano in modo originale, i loro seguaci combattevano per avere un mondo migliore, meno iniquo e un po’ più libero. In fondo, per molti di loro, “liberalismo” significava semplicemente questo.