8.2 Una democrazia in espansione e le sue contraddizioni: gli Stati Uniti d’America

8.2 Una democrazia in espansione e le sue contraddizioni: gli Stati Uniti d’America

«L’America agli americani»: la dottrina Monroe

Le vicende che stavano sconvolgendo i secolari equilibri geopolitici nel Sud del continente americano non potevano lasciare indifferenti gli Stati Uniti. Quando il ministro degli Esteri britannico Cunning offrì al governo statunitense di emettere una dichiarazione congiunta contro ogni ricolonizzazione nelle Americhe (una prestigiosa offerta di alleanza strategica che legittimava le ex colonie americane come interlocutore paritario nell’area), il governo rifiutò per non precludersi future espansioni sul continente.

Poi, nel dicembre 1823, il presidente James Monroe pronunciò di fronte al Congresso un discorso in cui dichiarava atto ostile qualsiasi tentativo d’ingerenza europea negli affari americani, tanto in America settentrionale quanto meridionale, ribadendo per contro l’impegno statunitense a non interferire nelle questioni relative al Vecchio continente. Alla base della simpatia espressa nei confronti dei «fratelli meridionali» non c’era però solo un’esplicita dichiarazione anticolonialista in nome dei principi sanciti dalla Costituzione statunitense; né si trattava solo di porre un preventivo veto al paventato intervento della Santa Alleanza per ripristinare il dominio borbonico in Sud America, rinforzando così l’ostilità di alcune potenze europee nei confronti di un paese considerato idealmente vicino alla Francia rivoluzionaria. Il discorso di Monroe era anche espressione della forza di un paese in rapida ascesa, che si apprestava a rivendicare per sé un ruolo egemone su tutto il continente. Il progetto politico del presidente, denominato in seguito “dottrina Monroe”, consisteva insomma in una linea d’azione a metà fra l’ isolazionismo e velleità da grande potenza [▶ FONTI, p. 242]: un’idea ancora non sostenuta da un’adeguata potenza militare o marittima (la dichiarazione fu infatti accolta dalle cancellerie europee con un misto di sorpresa indignazione e di miope sufficienza), ma che avrà importanti conseguenze nel prosieguo del secolo, sia dentro sia fuori il continente americano.

La Jacksonian Democracy

Negli stessi anni in cui i neonati Stati latinoamericani provavano con fatica a stabilizzare i propri fragili assetti, negli Stati Uniti proseguiva un parallelo processo di consolidamento politico-istituzionale. In più occasioni, infatti, il potere federale riaffermò la propria autorità sui membri dell’Unione attraverso compromessi o interventi militari (come avvenne nei numerosi casi in cui singoli Stati minacciarono la secessione per protesta contro la politica economica nazionale).

Inoltre, il sistema dei partiti fu rimodellato, dando avvio al cosiddetto Second Party System (“Secondo sistema partitico”) e alla Jacksonian Democracy (“democrazia jacksoniana”),in contrapposizione al precedente sistema (il First Party System), dominato dalla figura del presidente Jefferson (Jeffersonian Democracy). Dopo la fase della contrapposizione fra federalisti e repubblicani [▶ cap. 5.4], nei tardi anni Venti il partito federalista scomparve, mentre i repubblicani si divisero. Da un lato si formò la fazione di orientamento liberale dei repubblicani nazionali, per lo più espressione degli interessi commerciali e finanziari delle grandi città centrosettentrionali. Dall’altro si collocarono i repubblicano-democratici (detti semplicemente “democratici”) guidati da Andrew Jackson e accomunati da una marcata diffidenza nei confronti delle collusioni con i potentati economici (banche, grandi aziende) che influenzavano le scelte della classe dirigente.

Le campagne contro un governo federale ritenuto invasivo, l’esaltazione dei tradizionali valori della società contadina, slogan come “La sovranità al popolo” e la polemica contro la classe dirigente ricca e acculturata costarono a Jackson e ai democratici l’ironica associazione del loro partito a un asino [ 5], ma gli garantirono un ampio sostegno: gli agricoltori dei territori più interni, gli immigrati cattolici, i ceti urbani meno abbienti, i proprietari di cotone meridionali antiprotezionisti, nonché diversi uomini d’affari insofferenti alle politiche economico-monetarie del governo federale. Alle elezioni presidenziali del 1828, Jackson ottenne così una larga vittoria, divenendo il primo presidente a fare del­l’Inauguration day e del successivo ricevimento una cerimonia pubblica, cui accorse una folla traboccante [ 6].

FONTI

La dottrina Monroe

La dottrina Monroe, ispirata dal segretario di Stato e futuro presidente John Quincy Adams, s’inseriva nel quadro degli attriti con le potenze europee legati alle indipendenze latinoamericane e all’espansione dell’Unione verso ovest. Essa richiamava il principio di equilibrio, universalistiche affermazioni anticoloniali e l’eccezionalità degli Usa per legittimarne le pretese egemoniche in America a scapito di un’Europa descritta come bellicosa e prevaricatrice. La dottrina fu un cardine della politica estera statunitense perché il suo ambiguo slogan «l’America agli americani» poteva assumere un’accezione difensiva e isolazionista (“il continente americano ai suoi popoli”), ma anche una aggressiva e imperialista (“le Americhe agli statunitensi”).

Degli eventi in quella parte di globo, coi quali abbiamo avuto molto a che fare e dai quali deriviamo la nostra origine, noi siamo sempre stati spettatori attenti e interessati. I cittadini degli Stati Uniti provano un fortissimo sentimento di simpatia per la libertà e la felicita di tutti gli uomini che, come loro, abitano di là dell’Atlantico. Non abbiamo mai preso parte alle guerre degli Stati europei sorte da questioni fra loro, né la nostra politica comporta che vi partecipiamo. Solo quando i nostri diritti sono attaccati o seriamente minacciati noi ci risentiamo e prepariamo la nostra difesa. Siamo di necessità più direttamente interessati ai movimenti in questo emisfero […]. Noi dobbiamo quindi dichiarare che considereremmo pericoloso per la nostra pace e per la nostra sicurezza ogni loro tentativo di estendere il loro sistema politico ad una qualsiasi area di questo emisfero. Noi non abbiamo interferito nelle colonie o nei possedimenti detenuti attualmente da qualsiasi potenza europea, né lo faremo. [...] noi non potremmo considerare che come un atto ostile nei confronti degli Stati Uniti qualsiasi intervento di una potenza europea teso a opprimerli o a controllarne in un qualsiasi altro modo il destino. [...]

La nostra politica nei confronti dell’Europa, adottata sin dalle prime fasi delle guerre che hanno così a lungo agitato quella parte del mondo, rimane sempre la stessa, ossia non interferire negli affari interni di nessuna di quelle potenze; considerare i governi esistenti come legittimi; coltivare con loro relazioni amichevoli e preservarle attraverso una politica franca, ferma e virile, che venga incontro a tutte le loro giuste rivendicazioni ma non tolleri aggressioni da nessuno. Tuttavia, con riferimento a questi continenti le circostanze sono totalmente e nettamente diverse. È impossibile che le potenze alleate possano estendere il loro sistema politico a una qualsiasi area delle due senza mettere in pericolo la nostra pace e la nostra felicità. Né qualcuno può credere che i nostri fratelli meridionali, se lasciati decidere da soli, lo adotterebbero di loro spontanea volontà.

La presidenza Jackson
I democratici avviarono politiche tese a limitare il ruolo dell’amministrazione federale in ambito socioeconomico (per esempio con il rifiuto di istituire un sistema scolastico pubblico); tolsero alla Second Bank of the United States la funzione di controllo che esercitava su tutti gli istituti di credito e attraverso la quale promuoveva gli interessi delle attività commerciali e industriali a discapito dell’imprenditoria agricola (la cosiddetta Bank war del 1832-33); infine, estesero il diritto di voto a tutti i maschi bianchi nella maggioranza degli Stati dell’Unione, stimolando i ceti medio-bassi a partecipare alla politica attraverso la capillare diffusione della carta stampata, una fitta rete di club distribuiti sul territorio, l’organizzazione di feste pubbliche, di  conventions e di campagne elettorali rivolte sempre di più alla gente comune.

Al contempo, Jackson si rese però protagonista di atteggiamenti ambigui, a cominciare da una spiccata personalizzazione del potere e da un intenso ricorso allo  spoils system, presentato quale strumento ideale per coinvolgere un maggior numero di cittadini in una “democratica rotazione nelle cariche” che impedisse la formazione di un ceto di burocrati lontani dal popolo. E, in effetti, tale meccanismo contribuì non poco a favorire l’ingresso nella macchina statale di uomini delle classi medie (avvocati, giornalisti, commercianti), che vedevano nella politica una via di promozione sociale e che furono capaci di emancipare le istituzioni dal predomino delle vecchie élite. Tuttavia, lo spoils system offrì alle opposizioni fondati argomenti per ribattezzare ironicamente Jackson “Re Andrew I[ 7] e acuirono l’odio di alcuni nei suoi confronti fino a farne il primo presidente statunitense a subire un tentativo di attentato (1835).

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In un paese che andava sempre più configurandosi come una democrazia in cui i partiti plasmavano i comportamenti collettivi attraverso una massiccia propaganda e si facevano interpreti di interessi e valori contrapposti, l’azione di Jackson accentuò le già profonde divisioni politiche, sociali, economiche, culturali ed etnolinguistiche dell’Unione. Realizzare il programma di riforme dei democratici significava già da sé scontentare i fautori di politiche diverse – e sempre più inconciliabili – in campo economico come nei rapporti fra Stati e governo federale. E a queste fratture andarono via via sommandosi e intrecciandosi quelle legate al continuo arrivo di immigrati europei di lingue e confessioni diverse, che rendevano difficile l’affermazione di un forte senso di appartenenza nazionale e alimentavano particolarismi e forme di vero e proprio razzismo.

Schiavismo e abolizionismo
La questione che più minacciava l’unità della federazione era però ancora la schiavitù. Pur condannato anche dal Congresso di Vienna [▶ cap. 7.3], il commercio di schiavi restava un fenomeno enorme per dimensioni e giro d’affari, all’avanguardia per gli strumenti finanziari e pubblicitari con cui era condotto e ancor più stimolato dal decuplicarsi della produzione di cotone grazie all’invenzione della  sgranatrice [ 8].


Il fronte favorevole allo schiavismo andava perciò dai mercanti ai proprietari terrieri, sino agli imprenditori legati alla produzione e all’esportazione di cotone. Per sostenere questo istituto essi lo descrivevano come una forma di paternalistica premura nei confronti dei “primitivi” neri, assente invece negli Stati settentrionali dove uno spietato individualismo corrompeva i valori tradizionali (la solidarietà comunitaria, il senso della famiglia) e generava violente tensioni fra imprenditori e operai (definiti “schiavi del capitale”). Soprattutto dopo le ribellioni sventate in Virginia (1800 e 1831) e in South Carolina (1822), un altro argomento ampiamente usato per legittimare la schiavitù era lo spauracchio di una sollevazione generale come quella che aveva portato all’indipendenza di Haiti nel 1804 [▶ cap. 5.3], capace di sovvertire l’ordine sociale e politico dell’Unione. Tuttavia, ben più vero era che il lavoro coatto era insostituibile in un sistema economico come quello degli Stati del Sud, basato sulla coltivazione estensiva e poco meccanizzata di cotone e canna da zucchero, oltre che appunto sul business del commercio di schiavi.

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Se afroamericani come il pubblicista Frederick Douglass iniziarono a esser protagonisti delle campagne abolizioniste solo dagli anni Quaranta, già negli anni Venti l’abolizionismo era però sostenuto sia da chi lo considerava coerente con i principi del protestantesimo sia da chi l’associava alla lotta per l’emancipazione femminile in un’unica campagna per l’estensione dei diritti civili. Diverse associazioni di filantropi bianchi promossero infatti iniziative per liberare gli schiavi. Alcune organizzarono percorsi segreti per portarli di nascosto fuori dagli Stati schiavisti (la cosiddetta Underground Railroad), mentre l’American Colonization Society giunse addirittura ad acquistare dal Regno Unito un ampio territorio in Africa per inviarvi gli schiavi liberati. Nel 1847 ne nacque una repubblica indipendente chiamata Liberia, la cui capitale fu battezzata Monrovia in onore dell’ex presidente Monroe sotto il quale erano partiti i primi nuclei di ex schiavi rimpatriati.

Lo schiavismo e gli equilibri interni dell’Unione

Anche se lo schiavismo divideva il paese soprattutto lungo l’asse nord-sud, presto i territori dell’Ovest divennero l’ago della bilancia nella delicata disputa fra schiavisti e abolizionisti.

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Prima l’acquisto della Louisiana (1803) [▶ cap. 4.4], poi l’accordo del 1818 con il Regno Unito sui confini settentrionali e infine l’acquisizione della Florida spagnola nell’ambito del Trattato transcontinentale del 1819 con i Borbone estesero a dismisura i confini statunitensi, espellendo ogni presenza europea dalla costa orientale e aprendo la strada verso la “finestra” sul Pacifico ambita sin dall’indipendenza. La costituzione di nuovi Stati rischiava però di alterare l’equilibrio faticosamente raggiunto in Senato fra Stati schiavisti e Stati “liberi”, ognuno rappresentato da due delegati.

Infatti, nel 1819 il neonato Stato schiavista del Missouri chiese l’ammissione nell’Unione ma, per mantenere la parità fra Stati schiavisti e liberi, fu necessario approvare un accordo detto Compromesso del Missouri (1820), che prevedeva:

  • il divieto di introdurre e praticare la schiavitù nelle zone dell’ex Louisiana francese sopra il parallelo 36° 30 nord, con l’eccezione appunto del Missouri;
  • la trasformazione della parte settentrionale del Massachusetts nell’autonomo Stato antischiavista del Maine [ 9].

Approvato con una risicata maggioranza, il Compromesso consentì la temporanea ricomposizione dei contrasti, ma non risolse una questione assai complessa per il suo valore ideologico e per la sua rilevanza economica. L’ex presidente Thomas Jefferson aveva ragione quando scrisse: «questa è solo una tregua, non una soluzione definitiva. Una linea geografica, coincidente con un forte principio morale e politico, una volta definita e opposta alle forti passioni degli uomini, non sarà mai cancellata; e ogni nuova tensione la rimarcherà sempre con maggior forza». I successivi tentativi di rivedere il compromesso e la Guerra civile del 1861-65 (come vedremo) gli avrebbero dato ragione.

L’ulteriore espansione territoriale dell’Unione

Anche nei decenni successivi la questione della schiavitù seguitò a intrecciarsi con l’inarrestabile espansione territoriale degli Stati Uniti, la ridefinizione dei loro equilibri politico-istituzionali interni e lo sviluppo di relazioni commerciali con l’Asia. Attraverso una strategia fatta di accordi diplomatici, tacite occupazioni, guerre e acquisizioni di territori dalle potenze europee, fra il 1830 e il 1850 il governo statunitense ottenne infatti nuove immense regioni.

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Nel 1836 gli Usa sostennero la guerra di secessione del Texas dal Messico, iniziata l’anno precedente in risposta alla nuova costituzione centralista messicana e all’abolizione della schiavitù. Le ragioni di tale sostegno erano due: in primo luogo, i secessionisti erano perlopiù coloni statunitensi, attratti in Texas dalle terre a basso costo e dalle larghe autonomie concesse dal debole Stato centroamericano; in secondo luogo, nel corso del conflitto il massacro perpetrato dalle truppe messicane nell’assedio di Fort Alamo aveva suscitato sdegno nell’opinione pubblica. Il Texas, divenuto indipendente, chiese l’ingresso nell’Unione, ottenendola solo quando nel 1845 le ragioni dell’espansionismo prevalsero sulle obiezioni degli Stati “liberi”. Infine, tra il 1846 e il 1848 un sanguinosissimo conflitto provocato ad arte dal governo statunitense consentì agli Usa di strappare alla repubblica messicana altri vastissimi territori dove, nei decenni successivi, sarebbero sorti gli Stati di California (1850), Nevada (1864), Colorado (1876), Utah (1896), Arizona e New Mexico (1912).
Nel frattempo un ulteriore trattato bilaterale con il Regno Unito (1846) aveva consentito la pacifica acquisizione in esclusiva dell’Oregon in cambio del riconoscimento dei domini britannici oltre il 49°parallelo nord, garantendo ai commerci statunitensi l’agognata “via nordamericana per l’India”.

Alla metà del secolo gli Stati dell’Unione erano così passati dagli originari 13 a 31, con una popolazione quasi raddoppiata nel solo ventennio 1830-50 (da 12,8 milioni a oltre 23) e sempre più equamente distribuita fra Stati del Sud, del Nord e territori recentemente colonizzati nell’Ovest [ 10].

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Il Far West e le guerre indiane

A occupare questi sterminati spazi e a dar vita, in particolare, a una leggendaria corsa all’Ovest fu un gran numero di  pionieri, alla ricerca di pellicce, metalli preziosi, pascoli e terre da coltivare: individui che – singolarmente o in lunghe carovane – si incamminavano lungo piste (trails) sempre meglio definite e sostavano negli insediamenti civili e militari intermedi nati lungo le principali direttrici, facendo dei limiti dell’Unione un eccezionale caso di confine mobile e aperto. Con ciò nasceva il mito della frontiera americana (American Frontier), metafora dello spirito di avventura del popolo statunitense. Esso s’intrecciava con quello altrettanto peculiare del “sogno americano” (American Dream), ossia la promessa di arricchimento, libertà, uguaglianza e appunto assenza di barriere per chi fosse disposto a rischiare e a lavorare sodo [▶ fenomeni, p. 250].

Oltre che da una rete via via più fitta di infrastrutture, centri abitati e forti, la penetrazione verso il “lontano Ovest” (Far West) fu sostenuta anche da una serie di vere e proprie campagne militari, non solo contro Stati sovrani come il Messico, ma soprattutto contro le popolazioni native americane (i cosiddetti “indiani”) che occupavano parte dei territori ambiti dai pionieri bianchi. Per quanto violente e criticate da una minoranza dell’opinione pubblica, queste azioni erano legittimate dalla diffusa idea che i coloni e le istituzioni statunitensi fossero chiamati dalla Provvidenza divina a un “destino manifesto” di conquista e civilizzazione dell’intero continente (continentalismo). Le guerre indiane, che erano già state parte del più ampio scontro con il Regno Unito [▶ cap. 4.3], proseguirono così con maggiore intensità, protraendosi per buona parte del XIX secolo e rappresentando il lato più drammatico dell’epopea legata al Far West.

Abbandonate dall’alleato britannico, che le aveva spalleggiate sino alla conclusione della guerra con gli Usa, le tribù indiane combatterono eroicamente, ma nulla poterono contro la soverchiante potenza di fuoco dell’esercito statunitense. Già all’inizio degli anni Venti molti di quei popoli cui Jefferson, nel 1786, aveva promesso di non togliere «un metro di terra […] senza il loro consenso», furono massacrati senza pietà, deportati in campi di concentramento o spostati forzatamente in un’area loro destinata detta Territorio indiano, poi confluita nello Stato dell’Oklahoma.

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Spinta dalla fame di terre dei coloni degli Stati meridionali, negli anni Trenta l’amministrazione Jackson intensificò ulteriormente le campagne militari, emanando un discusso provvedimento, l’Indian Removal Act, che autorizzava il presidente a trattare il trasferimento delle tribù stanziate a sudest del Mississippi [ 11]. La negoziazione assunse presto le forme dell’imposizione e del conflitto. Il governo prima negò di fatto agli indiani lo status – già volutamente ambiguo – di “nazioni dipendenti”, con cui in precedenza la  Corte suprema aveva inteso evitarne l’indiscriminato assoggettamento dichiarandole popoli subordinati agli interessi statunitensi ma titolari di diritti negli spazi loro destinati. Poi dette il via a una seconda ondata di massacri [▶ cap. 4.3], di cui fecero le spese soprattutto i seminole della Florida, rinchiusi in una riserva dopo una guerra lunga ben 8 anni (1835-42), e i cherokee, deportati a migliaia lungo il cosiddetto “sentiero delle lacrime” (Trail of Tears), con un altissimo numero di vittime dovuto alla fame, alla sete e alle malattie [ 12].

La piccola repubblica nata nel 1776 in nome dei principi di libertà e autodeterminazione sanciti dalla sua Dichiarazione d’indipendenza era ormai diventata una grande democrazia elettorale (esclusivamente maschile), uno Stato moderno esteso su un territorio vastissimo e una potenza militare capace di rivendicare un ruolo egemone sull’intero continente, ma conservava in sé molte delle tensioni interne e delle profonde contraddizioni che ne avevano segnato i primi decenni di vita.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
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Dal 1715 al 1900