8.1 L’indipendenza dell’America Latina

Per riprendere il filo…

Se a fine Settecento la Guerra d’indipendenza aveva sancito la nascita degli Stati Uniti d’America, la Rivoluzione francese e l’epopea napoleonica avevano prodotto conseguenze importanti anche in altre aree del continente: il conflitto anglo-americano del 1812-14, il crescere dell’influenza britannica sui commerci con le colonie spagnole e portoghesi a causa del blocco continentale, nonché la forte instabilità di questi domini dopo la conquista napoleonica di Spagna e Portogallo. Le Americhe erano in fermento, ma il Congresso di Vienna aveva guardato al Nuovo Mondo quasi solo in relazione a temi come la tratta degli schiavi.

8.1 L’indipendenza dell’America Latina

Disomogeneità sociale e varietà ideologica
All’inizio dell’Ottocento la stabilità dei domini coloniali europei in America Latina era pregiudicata dall’incapacità dei conquistatori di gestire territori immensi e dalle profonde trasformazioni politiche, sociali ed economiche che in essi avevano luogo. Nel corso del tempo, sia i Borbone spagnoli sia i Braganza portoghesi avevano tentato di ridurre le autonomie godute dalle società locali e dalla Chiesa, riservando l’amministrazione dei possedimenti a uomini inviati appositamente dalla madrepatria. E, in parallelo, notevoli sforzi erano stati fatti per consolidare la supremazia della popolazione di origine europea gerarchizzando la società in base al grado di whiteness (“bianchezza”) [▶ fenomeni, p. 236].

Alla componente europea, però, veniva progressivamente sottratta forza: essa restava ovunque in netta minoranza, mentre cresceva rapidamente il numero dei creoli (i bianchi nati in America Latina da immigrati europei), quello dei discendenti degli schiavi africani e quello degli indios (la popolazione indigena), in ripresa dopo gli stermini perpetrati dai colonizzatori cinque-seicenteschi; senza contare le tante unioni miste che, nei secoli, avevano prodotto una notevole commistione etnica.

Inoltre, in queste società etnicamente disomogenee e fortemente polarizzate sul piano socioeconomico, si andavano elaborando originali declinazioni dei principi liberali, che si intrecciavano con elementi diversi: il profondo attaccamento popolare alla religione cattolica; un sentimento di appartenenza nazionale ancora perlopiù coincidente con un senso di alterità rispetto ai dominatori europei; le più disparate istanze emancipazioniste, egualitariste, autonomiste e indipendentiste; infine, le reazioni corporative delle élite locali ai tentativi ispano-portoghesi di accentramento amministrativo, di ulteriore subordinazione economica delle colonie alle esigenze della madrepatria e di più incisiva interferenza nelle dinamiche interne alle società locali.

Sui già precari equilibri che reggevano queste complesse realtà demografiche, socioeconomiche e politico-istituzionali si abbatterono gli effetti delle vicende che scossero l’area euroatlantica fra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Gli echi dell’indipendenza statunitense, quelli della Rivoluzione francese, la crescente influenza britannica sui commerci transatlantici (conseguenza del blocco continentale) e la destabilizzazione politica seguita alla conquista napoleonica di Spagna e Portogallo [▶ cap. 6.2] furono dunque la scintilla per incendi che covavano da tempo sotto le ceneri. Tempistiche, avvenimenti e protagonisti variarono da area ad area, ma portarono quasi ovunque al medesimo esito: l’indipendenza. E si trattò di un risultato duraturo. Anche perché, se nel 1814-15 il Congresso di Vienna aveva tacitamente confermato i possedimenti coloniali ispano-portoghesi senza dar troppo peso ai segnali d’instabilità che già provenivano da quell’area, negli anni della Restaurazione le grandi potenze europee decisero di non intervenire contro le popolazioni americane insorte e anzi il Regno Unito in particolare si oppose a qualsiasi ipotesi di riconquista borbonica.

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La nascita dell’Impero brasiliano
In Brasile il processo di liberazione dal dominio portoghese fu sostanzialmente pacifico. Questo grande territorio era stato innalzato al rango di regno durante la forzata permanenza dei Braganza a Rio de Janeiro. Dopo la fine dell’età napoleonica la nobiltà portoghese tentò di ripristinarvi un’amministrazione propriamente coloniale, ma si scontrò con il forte sentimento antiportoghese delle élite creole. Così, nel 1822 il Brasile si costituì in impero indipendente sotto Pietro I Braganza [ 1], figlio di Giovanni VI, che era rientrato frettolosamente a Lisbona sotto la pressione dei moti scoppiati nella penisola iberica nel 1820-21. Le resistenze delle  Côrtes lusitane ritardarono il riconoscimento dell’indipendenza brasiliana. Ma essa non fu mai seriamente messa in discussione e, nel 1825, fu formalmente concessa dal re portoghese con l’avallo del governo britannico.

Nasceva così il più grande Stato del Sud America, un paese la cui economia era in crescita grazie al vigoroso sviluppo del settore estrattivo (oro e altri metalli preziosi), alla coltivazione del caffè e al commercio di schiavi, ma ancora incapace di promuovere una vera svolta in tema di eguaglianza sociale e razziale. Le rivolte emancipazioniste da parte di gruppi di indios e di neri erano dunque ancora frequenti e, nonostante le affermazioni di principio di Pietro I, l’istituto della schiavitù era ancora in vigore.

L’indipendenza non contribuì nemmeno all’affermazione di un compiuto sistema parlamentare, né a una significativa estensione dei diritti politici o alla stabilità interna. Non solo Pietro fu fermo nell’imporre una Costituzione che lasciava all’imperatore amplissimi poteri a scapito del parlamento, ma diversi tentativi secessionisti furono sedati dall’esercito in province scontente delle politiche economiche imposte dal potere centrale. Più di tutto, però, incise negativamente un sistema politico incapace di resistere alle pressioni dei proprietari terrieri. Così l’imperatore non riuscì a svolgere la prevista funzione di equilibratore né fra i divergenti interessi delle varie province né fra quelli delle diverse classi sociali. La situazione non migliorò con la sua abdicazione, giacché gli succedettero prima tre reggenti e poi il figlio appena quattordicenne, Pietro II.

  fenomeni

La whiteness

Gli storici hanno letto a lungo il rapporto fra colonizzatori e colonizzati – in America, in Asia e in Africa – alla luce di categorie razziali fondate sul colore della pelle, distinguendo quindi oggettivamente i “bianchi” dominatori dai “neri”/“indios”/“gialli” loro sottoposti. In realtà, però, nelle concrete relazioni fra colonizzatori e colonizzati la “bianchezza” (whiteness) della pelle non costituiva una categoria né oggettiva né fisica.

Al contrario, essa era una costruzione socioculturale e politica alimentata dai conquistatori, che non di rado prescindeva dal dato biologico. Erano i colonizzatori che, dando per scontata la propria superiorità in quanto “bianchi”, concedevano agli altri individui e alle comunità (famiglie, tribù, gruppi etnici) prestigio sociale e diritti in proporzione a “quanto bianca” essi reputavano la loro pelle. Ciò rendeva la whiteness un attributo arbitrario nel quadro della gerarchia razziale prodotta dal gruppo dominante, perciò fluida, rinegoziabile e soggetta a cambiamenti anche repentini.

Il riconoscimento di una maggiore “bianchezza” fu infatti spesso usato dalle classi dirigenti come efficace strumento di potere, facendone un modo per rompere l’unità delle popolazioni assoggettate e così controllarle meglio, un ambito premio per chi si dimostrava fedele, nonché una legittimazione della propria naturale superiorità tanto interiorizzata dagli indigeni da indurli a una serena accettazione della loro subordinazione e persino a tentativi di “sbiancamento” attraverso l’imitazione di elementi culturali e materiali propri dei dominatori (lingua, religione, abitudini).

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La fine del mondo borbonico transatlantico
Nelle colonie spagnole l’indipendenza fu invece strappata con le armi. In Messico, nel 1810, il repentino aumento dei prezzi generato da una grave carestia spinse alla rivolta migliaia di indios, contadini e schiavi. L’insurrezione, nata come moto emancipazionista e dal forte afflato religioso contro il mal gobierno spagnolo, si trasformò presto in una lunga guerriglia rivoluzionaria. Il conflitto si concluse solo nel 1822 quando, sfruttando il concomitante impegno dei Borbone nel fronteggiare i moti del 1820-21 nella penisola iberica, il generale creolo Agustín de Itúrbide si ribellò al re di Spagna che lo aveva inviato a sedare la rivolta e prese il potere come imperatore di un Messico finalmente indipendente.
Tuttavia, il regime di Itúrbide crollò già nel 1823. L’impero si trasformò così nella Repubblica federale del Messico (1824). Il nuovo Stato, capace di resistere senza il riconoscimento ufficiale della Spagna fino al 1836, era però destinato a perdere pezzi importanti: nel 1823 si staccarono le province meridionali (Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica) per convergere in una federazione ispirata agli Usa, gli Stati Uniti dell’America Centrale; poi ampi territori del nord, a lungo repressi nelle loro istanze secessioniste e difesi dalle mire espansionistiche statunitensi, come vedremo furono infine ceduti agli Usa nel 1848 dopo pesanti sconfitte militari.

Nei vicereami di Nuova Granada (gli attuali Venezuela, Ecuador e Colombia), di Rio de la Plata (Argentina, Bolivia, Uruguay e Paraguay) e del Perù (Perù, alcuni territori della Bolivia e Cile) si giunse invece alla lotta per l’indipendenza al termine di un processo non molto lungo ma assai articolato. In un primo momento le principali città sudamericane reagirono allo scompiglio per la detronizzazione di Ferdinando VII nel 1808 [▶ cap. 6.2] con la creazione di  Juntas che gestissero il potere in attesa del suo ritorno, ancora considerato come legittimo e finanche auspicato (il re era infatti chiamato El deseado, “Il desiderato”). Presto però le élite creole cercarono – proprio attraverso le Juntas – di recuperare le autonomie erose dalle riforme borboniche in senso centralistico, avviando la cosiddetta “fase autonomista” (1808-13). Un’ulteriore svolta fu poi determinata dalla decisione dell’assemblea costituente riunita a Cadice nel 1812 di ribadire il primato spagnolo sulle “Indie” americane e, due anni dopo, dal rifiuto del restaurato Ferdinando VII di venire incontro alle richieste di maggior riconoscimento e autonomia delle colonie. Deluse le loro attese, i creoli radicalizzarono progressivamente le loro posizioni, avanzando rivendicazioni decisamente indipendentiste che, in risposta all’intervento armato voluto da Ferdinando nel 1814, condussero a veri e propri conflitti.

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Queste guerre d’indipendenza assunsero però anche il carattere di guerre civili, dal momento che le popolazioni delle varie colonie si spaccarono fra  lealisti e indipendentisti. Si aprirono così nel corpo sociale fratture profonde, che attraversavano tanto l’asse etnico quanto quello socioeconomico. Larghi strati dei ceti inferiori si schierarono apertamente da una parte o dall’altra e parteciparono attivamente agli scontri. Migliaia di pastori, agricoltori e uomini di colore combatterono per l’indipendenza insieme ai volontari giunti dall’Europa, mentre altrettanti contadini (sia indios che meticci) si unirono ai proprietari terrieri (indigeni ma anche creoli) per sostenere l’esercito lealista, spaventati dal carattere rivoluzionario del movimento o spinti dalla capillare propaganda del clero filospagnolo [ 2].

A guidare le armate indipendentiste che liberarono Argentina (1816) e Cile (1818) fu José de San Martín, un ufficiale creolo (argentino di padre castigliano) formatosi a Madrid e reduce dalla guerra di liberazione spagnola contro l’occupazione napoleonica [▶ cap. 6.2]. Creolo era anche Simón Bolívar, l’altro eroe delle guerre d’indipendenza sudamericane, partito autonomamente ma presto finito a collaborare con San Martín contro il comune nemico spagnolo. Nato a Caracas, Bolívar aveva trascorso anni in Europa e negli Usa, rielaborando in modo originale dottrine liberali e rivoluzionarie: simpatizzava per la Rivoluzione francese ma diffidava dei suoi estremismi; oscillava fra il repubblicanesimo illuminista e ammirazione per il  costituzionalismo britannico; apprezzava la democrazia statunitense ma ne criticava le ambiguità sullo schiavismo e ne giudicava inapplicabile il sistema istituzionale in America Latina. Tornato in patria impugnò le armi e divenne il Libertador di Venezuela (1817), Colombia (1819), Perù (1821) e Bolivia (1825).

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Fu grazie alle sue imprese che, nel 1819, nacque la Repubblica di Gran Colombia [ 3]: uno Stato indipendente presieduto dallo stesso Bolívar, inizialmente composto da Colombia e Venezuela e, dal 1821-22, anche da Panama e dall’Ecuador liberato dal generale Antonio José de Sucre su mandato del Libertador. Si trattò tuttavia di un esperimento di breve durata, minato alla base dalle dispute fra gli Stati federati e finito con la separazione dei tre paesi nel 1830. La stessa dinamica aveva già impedito una possibile federazione fra Repubblica argentina, Uruguay, Bolivia e Paraguay e nel 1839 portò alla dissoluzione degli Stati Uniti dell’America Centrale nei cinque Stati che li avevano costituiti.

I limiti strutturali degli Stati sudamericani indipendenti
Il progetto federale di Bolívar si dimostrò presto velleitario, lasciando nel Libertador la disincantata consapevolezza che, per governare le nuove entità statali, fossero necessari regimi autoritari e centralizzati. In molti Stati, infatti, le leadership politico-militari assunsero un carattere violento e personale. Il potere dei  caudillos si fondava al contempo sulla forza e su vaste reti clientelari che li legavano ai leader nelle varie province, cui offrivano protezione dalle fazioni locali concorrenti in cambio di fedeltà.

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Al problema del caudillismo se ne sommavano altri non meno importanti:

  • l’assenza di classi dirigenti abituate all’autogoverno, dopo secoli di amministrazione coloniale affidata a funzionari inviati da Madrid;
  • l’eterogeneità etnica e lo scarso senso di appartenenza nazionale delle popolazioni (fatto che, insieme all’esigenza di contrapporsi al vecchio centralismo spagnolo, portò molti nuovi Stati a scegliere un’articolazione federale);
  • l’incapacità di risolvere i notevoli squilibri economico-sociali e le ancor più pesanti discriminazioni razziali ereditati dal passato, nonostante la formale abolizione della schiavitù (per altro avvenuta in tempi differenti) [ 4];
  • la stagnazione economica, dovuta al secolare monopolio commerciale spagnolo, a una rete infrastrutturale molto carente e alla crescente sudditanza agli interessi britannici, che impedivano la differenziazione delle economie locali in favore della sola attività estrattiva, utile alle industrie inglesi;
  • la scarsezza del gettito fiscale e quindi sofferenza delle finanze pubbliche, insufficienti a sostenere il processo di  State building senza l’aiuto finanziario straniero, e in particolare britannico;
  • le difficoltà di legittimare Stati nati da movimenti rivoluzionari proprio negli anni della Restaurazione e, di conseguenza, l’urgente necessità di ricorrere al decisivo sostegno di potenze “amiche” ma non certo disinteressate, come il Regno Unito e gli Stati Uniti.

Insomma, i nuovi Stati esistevano più sulla carta che nella realtà, restando strutturalmente deboli sul piano politico-istituzionale e socioeconomico, oltre che soggetti a forme d’ingerenza esterna meno istituzionalizzate di quella spagnola ma non meno invadenti. Né le svariate reinterpretazioni dei principi liberali sanciti nelle loro Costituzioni erano state capaci di plasmare società nuove, plurali e caratterizzate da una più estesa partecipazione alla cosa pubblica; al massimo, erano riuscite ad abbattere il vecchio ordine coloniale. Le realtà sociali sudamericane rimanevano quindi attraversate da tensioni e improntate a un tradizionale corporativismo, gestibile solo quando vi si imponeva un potere forte, non dissimile nei fatti da quello prima esercitato dalla monarchia spagnola.

Eppure, nessuno di questi Stati tornò a essere colonia europea. L’inizio dell’Ottocento segnò così un passo decisivo nello sviluppo dei movimenti nazionali in Occidente e nella rielaborazione di dottrine ed esperienze politiche europee, costituendo a sua volta la scintilla e un precedente importante per rivolte e progetti antiassolutistici o indipendentisti nel Vecchio continente.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900