La whiteness
Gli storici hanno letto a lungo il rapporto fra colonizzatori e colonizzati – in America, in Asia e in Africa – alla luce di categorie razziali fondate sul colore della pelle, distinguendo quindi oggettivamente i “bianchi” dominatori dai “neri”/“indios”/“gialli” loro sottoposti. In realtà, però, nelle concrete relazioni fra colonizzatori e colonizzati la “bianchezza” (whiteness) della pelle non costituiva una categoria né oggettiva né fisica.
Al contrario, essa era una costruzione socioculturale e politica alimentata dai conquistatori, che non di rado prescindeva dal dato biologico. Erano i colonizzatori che, dando per scontata la propria superiorità in quanto “bianchi”, concedevano agli altri individui e alle comunità (famiglie, tribù, gruppi etnici) prestigio sociale e diritti in proporzione a “quanto bianca” essi reputavano la loro pelle. Ciò rendeva la whiteness un attributo arbitrario nel quadro della gerarchia razziale prodotta dal gruppo dominante, perciò fluida, rinegoziabile e soggetta a cambiamenti anche repentini.
Il riconoscimento di una maggiore “bianchezza” fu infatti spesso usato dalle classi dirigenti come efficace strumento di potere, facendone un modo per rompere l’unità delle popolazioni assoggettate e così controllarle meglio, un ambito premio per chi si dimostrava fedele, nonché una legittimazione della propria naturale superiorità tanto interiorizzata dagli indigeni da indurli a una serena accettazione della loro subordinazione e persino a tentativi di “sbiancamento” attraverso l’imitazione di elementi culturali e materiali propri dei dominatori (lingua, religione, abitudini).