7.1 Da Lipsia al Congresso di Vienna

Per riprendere il filo…

La battaglia di Lipsia (ottobre 1813), quella di Waterloo (giugno 1815) e il definitivo esilio di Napoleone a Sant’Elena (agosto 1815) avevano segnato la fine del periodo rivoluzionario e il trionfo delle potenze che avevano formato la Sesta e la Settima coalizione per combattere la Francia. Sconfitti sul campo di battaglia, la Rivoluzione e l’impero lasciavano però un’Europa stravolta sul piano geopolitico, provata su quello economico, rivoluzionata negli assetti sociali e profondamente scossa nelle basi della sua cultura politica. Il passaggio da una società di ceti a una società di classi, la nascita dei moderni concetti di nazione e cittadinanza, la negazione dell’origine divina del potere regio, l’affermazione dei diritti universali dell’uomo e del cittadino, la costruzione dello Stato amministrativo, la coscrizione e un modo nuovo di concepire la guerra erano solo alcuni degli elementi che avevano contribuito a trasformare la vita di milioni di europei. Con questa eredità, i vittoriosi su Napoleone dovevano ora fare i conti.

7.1 Da Lipsia al Congresso di Vienna

La sconfitta di Napoleone
All’indomani della vittoria di Lipsia (ottobre 1813) [▶ cap. 6.4], le grandi potenze che avevano fatto parte della Sesta coalizione avevano la necessità di riaffermare la legittimità dell’assolutismo, messa in discussione dalla Rivoluzione; di trovare un’intesa sul destino della Francia; di ridisegnare il quadro geopolitico europeo sconvolto da oltre vent’anni di guerre. In un alternarsi di trattative diplomatiche e preparazione di nuove campagne militari, su iniziativa del ministro degli Esteri britannico Robert S. Castlereagh i rappresentanti di Prussia, Impero asburgico e Impero russo avviarono dei negoziati. Prima strinsero il Patto di Chaumont (9 marzo 1814), impegnandosi per vent’anni ad agire «in un perfetto concerto» contro l’espansionismo francese. Poi ottennero l’abdicazione incondizionata di Napoleone (6 aprile 1814) [ 1] e poco dopo la sua ratifica al Trattato di Fontainebleau (11 aprile 1814) e al Primo trattato di Parigi (30 maggio 1814), con i quali si sanciva il ritorno dei Borbone a Parigi, si concedeva allo sconfitto la sovranità sull’isola d’Elba e si ripristinavano i confini francesi «quali questi erano al 1º gennaio 1792».
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Gli accordi bilaterali di Castlereagh
Anche grazie al legame personale con il suo omologo asburgico, il principe Klemens Wenzel von Metternich, Castlereagh risolse per via  bilaterale alcuni dei nodi cruciali per il suo governo, allo scopo di non vederli discussi in consessi più ampi. Prima evitò che la Francia controllasse lo strategico porto di Anversa, siglando un trattato segreto, parallelo alla Pace di Parigi, che assegnava alle Province Unite olandesi i territori asburgici di Belgio e Lussemburgo; in cambio, Metternich aveva carta bianca nella penisola italiana. Poi indennizzò l’Olanda con 6 milioni di sterline al fine di mantenere le colonie strategiche del Capo di Buona Speranza, della Guiana e di Ceylon (l’attuale Sri Lanka), occupate dai britannici durante le guerre napoleoniche. Infine, siglò una pace vantaggiosa con gli Stati Uniti e strappò alla Spagna un trattato commerciale che garantiva alle navi britanniche speciali vantaggi nel commercio con le colonie sudamericane.
Verso il Congresso
Tuttavia, le questioni da affrontare erano ancora molte. Perciò, fu convocato a Vienna un congresso internazionale per definire l’assetto complessivo dell’Europa e garantire una pace duratura. Prima ancora che si aprissero i negoziati nella capitale austriaca, sovrani e ministri dei quattro Stati vincitori (Regno Unito, Regno di Prussia, Impero asburgico e Impero russo) si riunirono a Londra per preparare il congresso. Se le due città erano state scelte per sottolineare il ruolo dei britannici e degli Asburgo quali garanti del nascente equilibrio europeo, questi incontri formalizzarono anche la distinzione fra gli Stati medio-piccoli e le quattro “grandi potenze” firmatarie del Patto di Chaumont, le quali, in nome della stabilità continentale, si attribuirono «il diritto di prendere l’iniziativa» anche negli affari di altri paesi.

7.2 Il Congresso di Vienna

Vienna al centro della politica continentale
I lavori del Congresso di Vienna si aprirono il 1° novembre 1814 e si protrassero fino al 9 giugno 1815. Nel corso di questi mesi la capitale asburgica divenne il centro della politica continentale, ospitando oltre 200 delegazioni e circa 100 000 persone, che si stentò persino ad alloggiare in città. Di fatto ogni Stato europeo aveva un delegato e alcuni, come nel controverso caso del Regno di Napoli, persino due (uno in rappresentanza dei Borbone, l’altro di Murat).

A questi si aggiungevano gli inviati di singole città e dei cantoni elvetici, di corporazioni, abbazie, ordini religiosi, comunità come quella degli ebrei tedeschi, gruppi d’interesse vari e persino singoli influenti nobiluomini alla ricerca di rendite o titoli perduti, oltre ad alcuni parenti di Napoleone (la sorella Elisa e il figlio adottivo Eugenio di Beauharnais, ex re d’Italia). Il Congresso cercava insomma un difficile equilibrio non solo fra le aspirazioni dei diversi Stati, ma anche fra i tanti portatori di interessi particolari e collettivi invitati al tavolo.
I protagonisti
A dirigere le trattative fu il principe Metternich, già ambasciatore asburgico a Parigi su richiesta di Napoleone. Altrettanto decisivo risultò il delegato britannico Castlereagh, limitato nella sua azione dalla scarsa conoscenza del francese (la lingua ufficiale della diplomazia del tempo), ma, come abbiamo già visto, vero padre del nuovo ordine già prima che il Congresso aprisse i battenti. Accanto ai due principali protagonisti, poi, giocarono un ruolo importante anche i delegati delle altre due potenze vincitrici a Lipsia, il Regno di Prussia e l’Impero russo, rappresentato personalmente dallo zar Alessandro I.

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Ben presto, però, al tavolo dei vincitori si sedette anche il principale sconfitto, la Francia. La sua reintegrazione fra i grandi d’Europa a dispetto del suo recente passato rivoluzionario fu soprattutto merito del principe Charles-Maurice de Talleyrand, ministro degli Esteri dell’appena restaurato Luigi XVIII di Borbone (fratello minore del Luigi XVI ghigliottinato durante la Rivoluzione [▶ cap. 5.2]). Già apprezzato mediatore in occasione dei trattati di Fontainebleau e di Parigi, Talleyrand sfruttò l’appoggio degli Stati minori e le tensioni fra le principali potenze per vincere la diffidenza degli ex nemici e restituire alla Francia il diritto di dire la propria sul suo destino e sulla riorganizzazione dell’Europa [ 2].

Le altre delegazioni
Utilizzate strumentalmente soprattutto da Talleyrand per sostenere le proprie posizioni di fronte a interlocutori mal disposti, le delegazioni degli altri Stati si mostrarono da subito incapaci di dettare l’agenda dei lavori e di dialogare alla pari con i rappresentanti delle maggiori potenze, finendo per giocare così un ruolo marginale. Ciò avvenne sia per la loro modesta forza politico-militare sia per le modalità con cui si svolsero le trattative: disarticolate per temi e risolte all’interno di comitati ristretti formati dai “quattro grandi più uno” o condotte in incontri bilaterali e in sessioni informali a margine delle sedute ufficiali.

Pur di fatto tagliate fuori dai negoziati, le decine di delegazioni e teste coronate presenti a Vienna contribuirono in maniera decisiva a un altro fondamentale aspetto del Congresso. Sin dalla sua apertura, infatti, il consesso viennese non si configurò soltanto come il luogo in cui disegnare la nuova carta d’Europa, ma anche come l’occasione per ostentare la rinnovata forza dell’assolutismo monarchico, e in particolare della casata asburgica.

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La festa dell’assolutismo

L’eccezionale ospitalità offerta dall’imperatore Francesco I fece della conferenza uno dei più fastosi eventi mondani della storia europea, il cui splendore sembrò spesso relegare in secondo piano le questioni politico-militari. Mentre la popolazione subiva un forte aumento delle tasse per sostenerne i costi, le giornate dei congressisti trascorrevano fra rappresentazioni teatrali, battute di caccia, spettacoli pirotecnici, mongolfiere addobbate, balli, feste in maschera, banchetti con 20 000 commensali e concerti dei principali compositori dell’epoca (Schubert, Salieri e Beethoven, che pure s’era ispirato a Napoleone per la sua famosa terza sinfonia, l’Eroica). La miglior sintesi di quanto accadde nei primi mesi del consesso fu senza dubbio una frase divenuta proverbiale già al tempo: «Il Congresso non cammina, danza» [ 3].

Il recupero di rituali e simboli dell’antico regime dava luogo a una socialità ostentatamente aristocratica, anche se ormai influenzata dalle nuove mode (su tutte il valzer, preferito al più tradizionale minuetto), dalla presenza di una sempre più consistente componente borghese accanto alla vecchia nobiltà e da protocolli rivisti alla luce delle mutate esigenze della diplomazia [▶ fenomeni].

  fenomeni

Il cerimoniale diplomatico

La diplomazia tra passato e presente

Preoccupati di non alimentare le tensioni fra le delegazioni presenti a Vienna e di non urtare le suscettibilità individuali, i delegati delle grandi potenze, e in particolare Talleyrand, reputarono opportuno «prevenire gli imbarazzi che si erano sovente creati e che avrebbero potuto nascere ancora dalle pretese di precedenza fra i diversi agenti diplomatici», codificando un preciso protocollo da rispettare in occasione di incontri bilaterali e multilaterali. Nacque così l’allegato XVII dell’atto finale (detto “Regolamento di Vienna”), che, integrato dalle decisioni prese al Congresso di Aquisgrana del 1818, avrebbe costituito la base del cerimoniale diplomatico internazionale sino al 1961, quando sarebbe stata siglata la Convenzione sulle relazioni diplomatiche ancora oggi vigente.

Una questione di precedenza

I capi delle missioni diplomatiche furono divisi in classi: nella prima classe erano compresi ambasciatori, legati e nunzi; nella seconda ministri e inviati accreditati presso il capo dello Stato; nella terza gli incaricati accreditati presso il ministero degli Affari esteri. Le precedenze (nell’entrare in sala, nel prendere posto ecc.) erano stabilite in base alla classe di appartenenza. All’interno di ciascuna di esse vigeva poi il criterio dell’anzianità di accreditamento, con la sola eccezione degli Stati cattolici che concedevano priorità assoluta al rappresentante del papa. Irrilevanti erano invece sia i vincoli parentali e dinastici, sia le eventuali alleanze fra Stato ospite e Stato rappresentato dal delegato, mentre un sorteggio stabiliva l’ordine con cui i plenipotenziari (cioè coloro che avevano la piena facoltà di condurre e portare a termine una trattativa) avrebbero dovuto firmare gli atti. Infine, soltanto gli ambasciatori avevano accesso al capo dello Stato ospite, in quanto unici rappresentanti dei loro sovrani. Ciò in ossequio a un’idea del diritto internazionale e della diplomazia come rapporto tra monarchi, non fra popoli.

Con i suoi meccanismi trasparenti e quasi oggettivi, il cerimoniale definito a Vienna costituì un notevole passo in avanti nel prevenire le polemiche frequentemente registrate in precedenti occasioni e segnò perciò una pietra miliare nella storia delle relazioni internazionali.

Le difficili negoziazioni
Anche se c’era chi si sfogava contro queste «feste continue» che «occupavano tutto il nostro tempo», alla lentezza delle trattative contribuivano però anche altri due fattori. Da un lato la convinzione dei delegati (che, come vedremo, presto sarebbe stata smentita) di avere ormai debellato il germe della Rivoluzione e di aver reso inoffensivo Napoleone con l’esilio all’Elba; dall’altro, la difficoltà nel trovare accordi soddisfacenti e la diffidenza fra gli Stati, tutti impegnati in una serrata attività di spionaggio attraverso pedinamenti, corrieri corrotti che intercettavano la corrispondenza, interi uffici della polizia politica destinati a decifrarla, uomini e donne che carpivano informazioni durante le feste o nelle camere da letto [▶ protagonisti, p. 218] e personale di servizio assoldato per rovistare in cestini e camini alla ricerca delle bozze dei documenti.
Già risolta con il Primo trattato di Parigi la questione dei territori che la Francia aveva annesso tra il 1795 e il 1810, restava da sciogliere il nodo legato alle mire espansionistiche dello zar Alessandro e del re di Prussia. I due raggiunsero presto un’intesa bilaterale volta a garantirsi una posizione dominante nell’Europa centrorientale. Il primo sfruttava la presenza delle sue truppe in territorio polacco per rivendicare la corona dell’istituendo Regno di Polonia (uno Stato creato da Napoleone nel 1807 sotto il nome di Granducato di Varsavia e affidato a Federico Augusto, duca di Sassonia, fino all’occupazione zarista del 1813); il secondo accettava l’espansione dell’ingombrante vicino russo perché ne riceveva in cambio la Sassonia, già di fatto annessa a seguito di un precedente accordo bilaterale con lo zar: il Trattato di Kalisz del 28 febbraio 1813.
Metternich, Castlereagh e Talleyrand si opposero fermamente a questa soluzione. Concedere alla Prussia un ampio territorio a maggioranza tedesca come la Sassonia significava non solo certificarne il rango di grande potenza, ma anche mettere in discussione l’egemonia asburgica in area germanica. L’espansione zarista verso ovest poteva inoltre preludere a un’ulteriore penetrazione russa nei Balcani (resa più facile dal contemporaneo indebolimento dell’Impero ottomano), eventualità malvista soprattutto dagli Asburgo. Infine, l’esistenza di un ampio Stato slavo e filozarista come la Polonia al confine settentrionale dell’Impero asburgico rappresentava un grave rischio, sia per la facilità con cui le truppe di Alessandro avrebbero potuto attaccare Vienna da nordest, sia perché un tale cedimento al sentimento nazionale slavo avrebbe costituito un precedente per le rivendicazioni autonomiste dei popoli sottomessi al potere asburgico, a cominciare appunto da quelli slavi (serbi, croati, cechi).

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La tensione salì. Nel gennaio 1815 FranciaRegno Unito e Impero asburgico giunsero al punto di siglare un accordo segreto sull’obbligo di dichiarare guerra agli ormai ex alleati nel caso in cui lo zar Alessandro e Federico Guglielmo III di Prussia non avessero rinunciato alle loro pretese. Talleyrand colse l’occasione per far uscire definitivamente la Francia dall’isolamento in cui si trovava solo pochi mesi prima: «la coalizione è sciolta e lo è per sempre», si affrettò a scrivere a Parigi. Ma nessuno voleva e poteva veramente affrontare un’altra guerra. Il braccio di ferro sulla Sassonia paralizzò il Congresso per mesi e rischiò persino di farlo fallire, ma non degenerò in conflitto armato.

  protagonisti

Le donne al Congresso di Vienna

Politica e intrighi sentimentali

Le società di corte europee erano ambienti i cui membri erano spesso legati da parentela, matrimoni o rapporti extraconiugali. Pertanto, non stupisce che negli appartamenti privati dei partecipanti al Congresso s’intrecciasse un groviglio di intrighi sentimentali. Grazie a queste relazioni – a volte contingenti, a volte risalenti a prima del 1814 –, alcune delegazioni poterono usare le donne come efficaci strumenti di manipolazione degli interlocutori nelle trattative. Le più abili e intraprendenti, inoltre, riuscirono a influenzare personalmente le decisioni dei potenti della terra, anche su temi importanti. Fra queste vi furono la principessa Dorotea di Curlandia, giovane brillante imparentata con Talleyrand; sua sorella Guglielmina duchessa di Sagan, animatrice del più influente salotto di Vienna e amante di Metternich, che la considerava alla stessa stregua dei suoi più fidati consiglieri; nonché la principessa russa Caterina Bagration, cugina e amante di Alessandro I disposta a tramare contro gli Asburgo per fedeltà alla famiglia ma anche per vendicare l’abbandono subito in precedenza da parte di Metternich, da cui aveva avuto una figlia. Invece la seconda moglie di Napoleone, Maria Luisa d’Austria, che pur aveva dimostrato fedeltà agli Asburgo, fu tenuta sotto stretta sorveglianza, a riprova dell’ascendente che avrebbe potuto esercitare.

Non si trattava di figure paragonabili alle dame di corte del Settecento né per autonomia né per influenza, ma di donne comunque dotate di una certa visione politica e capaci di orchestrare strategie anche spregiudicate, utilizzando le armi della seduzione sia per tornaconto personale sia nell’interesse degli uomini che intendevano compiacere. Il più delle volte, tuttavia, esse erano guidate dai più abili fra i negoziatori presenti a Vienna. Talleyrand, per esempio, sfruttò i buoni uffici di Dorotea per ottenere un invito al ballo organizzato a Palazzo Metternich, che equivaleva di fatto a una legittimazione quale interlocutore delle potenze vincitrici. Lo zar Alessandro chiese invece a Caterina Bagration di sedurre diversi delegati, fra cui l’ex amante Metternich, allo scopo di ammorbidirne le posizioni rispetto alle pretese russe. L’ampia rete di relazioni istaurata da Guglielmina e il suo avvicinamento allo zar dopo che Metternich rifiutò di aiutarla, fu invece funzionale soprattutto a un obiettivo personale: riavere con sé la figlia avuta da un nobile svedese.

Donne, potere e diplomazia all’inizio dell’Ottocento

Durante il Congresso, nella stragrande maggioranza dei casi, le donne riuscirono a influire sulle decisioni delle grandi potenze senza nemmeno essere ammesse nelle stanze delle trattative, rivestendo ufficialmente il ruolo di semplici accompagnatrici degli uomini che componevano gli staff diplomatici. Da questo punto di vista, quindi, rimanevano in un rapporto di subalternità e – non di rado – di strumentalità rispetto agli uomini di potere e ai loro interessi personali e politici: una condizione che ne avrebbe contrassegnato e condizionato l’agire anche in altri momenti importanti della diplomazia europea ottocentesca. Tuttavia, quella del Congresso di Vienna e di altri consessi analoghi sono storie che non si comprendono appieno se non vi si includono la componente femminile e la sfera privata degli uomini pubblici, che s’intrecciava sistematicamente con gli interessi geopolitici ed economici in gioco.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900