7.3 La nuova Europa “restaurata”

7.3 La nuova Europa “restaurata”

Il ritorno di Napoleone e il raggiungimento dell’accordo
Benché costituisca l’evento-simbolo della cesura fra l’epoca delle rivoluzioni e l’età della Restaurazione, il Congresso si tenne nell’ultima fase dell’età napoleonica. Infatti, mentre a Vienna proseguivano le trattative, nel marzo 1815 si verificò un evento che i partecipanti non si attendevano e che era potenzialmente devastante per i già fragili equilibri diplomatici: il trionfale ritorno di Napoleone dall’Elba a Parigi e la sua proposta di mediazione [▶ cap. 6.4]. L’ex imperatore dei francesi era pronto a rinunciare a tutti i territori conquistati dopo il 1792, ma disconosceva il Trattato di Fontainebleau e pretendeva perciò il trono di Francia: come è stato scritto, «mancava poco perché Napoleone annunciasse il suo arrivo a Vienna per partecipare al Congresso!» [ 4].

L’offerta fu sdegnosamente respinta e il duca di Wellington, il plenipotenziario britannico che aveva sostituito Castlereagh a Vienna dal febbraio 1815, lasciò subito la capitale austriaca per organizzare l’esercito che avrebbe dovuto sconfiggere definitivamente l’armata napoleonica. Così, mentre ci si apprestava ad affrontare di nuovo Napoleone sul campo di battaglia, la rinnovata necessità di contrastare il nemico comune costrinse i delegati ad accelerare le trattative e a giungere a un compromesso. Solo nove giorni prima di Waterloo [▶ cap. 6.4], il Congresso ratificò il suo atto finale (9 giugno 1815): un documento di sintesi che di solito non veniva redatto, ma che fu preteso dalla delegazione britannica per vincolare lo zar alle decisioni prese. Esso fu firmato dalle quattro potenze antinapoleoniche, dalla Francia e da tutti gli Stati minori, salvo la Santa Sede, l’Impero ottomano e la Spagna (che lo avrebbe però ratificato nel 1817).
I cardini del sistema
L’accordo si fondava su due pilastri: il principio di legittimità e il principio di equilibrio. Il principio di legittimità riconosceva ai sovrani spodestati il diritto di tornare al trono in nome dell’origine divina del potere dinastico. Non era una novità assoluta: Talleyrand l’aveva invocato con successo già in occasione del Primo trattato di Parigi per presentare i Borbone come vittime della Rivoluzione e gustificarne così la restaurazione. 

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Il principio di equilibrio, teorizzato da Alessandro I nel 1804 e ribadito dai vincitori di Lipsia, affermava la necessità di non concedere ad alcun paese la supremazia territoriale nel continente. Esso muoveva da un’idea già formulata e applicata in età moderna (nella penisola italiana fra Quattrocento e Cinquecento, nell’Europa della prima metà del Settecento), ma ambiva a superarne la staticità. Per renderla più flessibile, infatti, Castlereagh elaborò un bilanciato sistema internazionale di pesi e contrappesi capace di assorbire, mediante compensazioni concordate, gli eventuali cambiamenti che sarebbero potuti intervenire dopo le attribuzioni territoriali definite dal Congresso. Ciò avrebbe mantenuto inalterati gli equilibri complessivi e messo un duraturo freno alle mire egemoniche dei diversi Stati, ponendo così le basi per la pace utile ai commerci britannici.

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Questi due principi non erano però né unanimemente condivisi né facili da conciliare. Se nella retorica ufficiale l’obiettivo di tutti i delegati era ripristinare la situazione del 1792, tra i rappresentanti delle grandi potenze era ancora vivo il ricordo degli sconvolgimenti prodotti dalla Rivoluzione e della rapidità con cui essa si era propagata in tutto il continente. Proprio il timore di recrudescenze rivoluzionarie spinse i nemici di Napoleone ad assumere un atteggiamento pragmatico, privilegiando l’equilibrio e richiamandosi al legittimismo solo quando non risultava in contrasto con esigenze geopolitiche e militari. La carta d’Europa disegnata dal Congresso risultava perciò profondamente diversa da quella prerivoluzionaria, non soltanto nei confini fra gli Stati, ma nella logica con cui essi erano tracciati [ 5-6].

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L’Impero russo e la Prussia
In aperta contraddizione con il legittimismo erano le concessioni fatte all’Impero russo e alla Prussia. La ferma volontà delle altre potenze di limitare l’influenza di questi Stati alla sola parte orientale del continente costrinse Alessandro I e Federico Guglielmo a rinunciare al loro precedente accordo, ma ciò nonostante entrambi uscirono rafforzati dal Congresso.

Lo zar conservò i possedimenti acquisiti in età napoleonica (la Finlandia, sottratta alla Svezia nel 1809, e la Bessarabia, ottomana sino al 1810). In più ottenne l’ unione dinastica perpetua con il neonato Regno di Polonia, ricalcato sul Ducato di Varsavia napoleonico ma privato del Granducato di Poznan‘ e della città di Cracovia.

Per bilanciare l’accresciuta presenza zarista in Europa orientale, alla Prussia furono assegnati vasti territori a est: il Granducato di Poznań, la Pomerania svedese e metà della Sassonia, la cui altra metà costituì invece l’autonomo Regno di Sassonia restituito per esigenze di equilibrio a Federico Augusto, nonostante la sua strenua fedeltà a Napoleone. A ovest la Prussia ottenne invece la Renania e l’ex Regno di Vestfalia (con i suoi ricchi giacimenti carboniferi): un’annessione che era stata pensata per arginare l’espansionismo francese, ma che ebbe anche l’effetto di aumentare l’omogeneità nazionale dei sudditi di Federico Guglielmo (i polacchi erano adesso solo il 15%) e di spostare il baricentro dell’azione prussiana verso occidente, facendo del Regno di Prussia il nuovo punto di riferimento per l’intera area germanofona.

Le misure antifrancesi
La ridefinizione dei confini prussiani si inseriva dunque in un più ampio progetto di contenimento della Francia [ 7], considerato vitale da tutti soprattutto alla luce del grande seguito raccolto da Napoleone al suo ritorno. E proprio per isolare la Francia furono prese altre decisioni che contraddicevano palesemente il principio di legittimità. 

Per prevenire sconfinamenti a nord, si ratificò quanto già stabilito negli accordi paralleli al Primo trattato di Parigi, ossia l’accorpamento dei territori asburgici del Belgio e del Lussemburgo con le Provincie Unite olandesi a costituire un nuovo più ampio Stato: il Regno Unito dei Paesi Bassi, affidato a Guglielmo I d’Orange. Inoltre, per creare un più solido argine a qualsiasi tentativo espansionistico nel cuore d’Europa, si decise di non ricostituire il Sacro Romano Impero sciolto da Napoleone nel 1806, riducendo da 360 a 39 gli staterelli tedeschi che ne erano parte e facendoli confluire in una Confederazione germanica presieduta dall’imperatore d’Austria. Allo stesso modo, fu spezzata l’unione fra Danimarca e Norvegia che durava dal tardo Medioevo, assegnando quest’ultima al re di Svezia in cambio fra l’altro della Finlandia, ceduta allo zar. Più a sud, fu leggermente ampliata la Confederazione svizzera (annettendo i cantoni di Valais, Ginevra e Neuchâtel), la cui perenne neutralità fu riconosciuta a livello internazionale per sbarrare la strada sul versante alpino.

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Completava la cerniera difensiva il rafforzamento del Regno di Sardegna, cui fu assegnata l’ex Repubblica di Genova: una cessione fortemente contestata dalla delegazione genovese ma già decisa da un altro accordo segreto annesso alla Pace di Parigi, con lo scopo di dare al Piemonte, ex membro della Sesta coalizione, uno sbocco sul mare non distante dai porti francesi sul Mediterraneo.

La Francia era così circondata dal restaurato Regno di Spagna a ovest, dalla potenza navale britannica a nord e da una serie di Stati-cuscinetto lungo tutto il suo confine orientale, Stati cioè di dimensioni medie disegnati apposta per fungere da argine all’espansionismo francese e non costituire a loro volta potenze sufficientemente forti da destabilizzare il nuovo equilibrio geopolitico continentale.

L’egemonia asburgica fra i Balcani e la penisola italiana
Ancor più disinvolta fu l’interpretazione del principio di legittimità quando esso rischiava di intralciare i piani degli Asburgo, intenti a rafforzare la loro egemonia nei Balcani e nella penisola italiana. Se in area balcanica si accontentarono di indebolire la concorrenza ottomana, imponendo alla Sublime Porta un controllo più blando su territori sui quali aspiravano a estendere il proprio dominio (Serbia, Valacchia e Moldavia), in Italia l’intervento fu ben più invasivo. Metternich fu abile a non introdurre l’argomento sino alla fine, per evitare che gli fosse chiesta qualche rinuncia nella penisola nel quadro delle trattative su Polonia e area germanica. Fu inoltre spregiudicato nel sostenere la nullità degli atti siglati da Napoleone quando si trattava di vedersi restituiti i territori perduti a seguito dei trattati imposti dalla Francia agli Asburgo fra il 1793 e il 1813, richiamandosi però al Trattato di Campoformio del 1797 [▶ cap. 5.5] per ottenere il Veneto (assegnato all’Impero asburgico anche come compensazione per la cessione di Belgio e Lussemburgo). L’ex Serenissima Repubblica di Venezia fu così privata definitivamente della sua plurisecolare indipendenza e confluì con la Lombardia nel nuovo Regno del Lombardo-Veneto, parte integrante dell’Impero asburgico. 
In realtà sotto la sfera d’influenza asburgica finì gran parte d’Italia: nel Granducato di Toscana fu restaurato Ferdinando III di Asburgo-Lorena, fratello dell’imperatore; il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla fu sottratto a Maria Luisa di Borbone (cui andò la reggenza del Ducato di Lucca, destinato a essere inglobato nel Granducato di Toscana nel 1847) e fu assegnato alla figlia di Francesco ed ex moglie di Napoleone Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, ma col divieto di successione per il figlio avuto da questi, il giovanissimo Napoleone II prigioniero a Vienna); infine, a Maria Beatrice, moglie dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este (zio dell’imperatore), toccò il Ducato di Massa e Carrara, mentre a suo figlio Francesco IV il Ducato di Modena e Reggio.
Oltre agli Stati concessi ai rami cadetti della dinastia, gli Asburgo riuscivano a influenzare indirettamente anche i territori assegnati ad altri casati, a cominciare dal Mezzogiorno, dove le pressioni di Talleyrand e l’ambiguo atteggiamento di Murat portarono alla restaurazione di Ferdinando IV di Borbone, tenuto sotto controllo dall’alleato austriaco grazie a un trattato militare (il Trattato di Casalanza del 15 maggio 1815) e alle continue interferenze di Metternich nelle vicende interne al regno. 

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A godere di una certa autonomia da Vienna restarono così solo lo Stato pontificio e il Regno di Sardegna. Lo Stato pontificio fu riconsegnato a Pio VII nella sua estensione prerivoluzionaria e con la sola perdita della città di Avignone, lasciata alla Francia. Il Regno di Sardegna tornò a Vittorio Emanuele I di Savoia, che ne sfruttò la funzione strategica di baluardo antifrancese per rivendicare con successo non solo il diritto dinastico su Piemonte, Sardegna, Nizza e Savoia, ma anche quello di acquisire la Liguria: i Savoia iniziavano così un’inedita intromissione nelle vicende politiche della penisola e del Mediterraneo [ 8].

STATI ITALIANI ATTRIBUZIONI
Regno di Sardegna (con acquisizione della Liguria) Vittorio Emanuele I di Savoia
Regno Lombardo-Veneto (annesso all’Impero asburgico) Francesco I d’Asburgo
Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla Maria Luisa d’Asburgo-Lorena (figlia di Francesco I)
Ducato di Massa e Carrara Maria Beatrice d’Este (moglie dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este, zio di Francesco I)
Ducato di Lucca Maria Luisa di Borbone-Spagna
Ducato di Modena e Reggio Francesco IV d’Asburgo-Este (cugino di Francesco I)
Granducato di Toscana Ferdinando III d’Asburgo-Lorena (fratello di Francesco I)
Stato della Chiesa Pio VII
Regni di Napoli e di Sicilia (dal 1816 riuniti nel Regno delle Due Sicilie) Ferdinando IV di Borbone (vincolato all’Impero asburgico da un trattato militare)

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Il Regno Unito fra equilibrio continentale e isolamento
Di segno opposto a quello di Metternich fu l’atteggiamento di Castlereagh, che preferì rafforzare l’asse con l’Impero asburgico per farsi garante dell’equilibrio in Europa piuttosto che entrare in competizione con le altre grandi potenze per il predominio sul continente. Così facendo, contravvenne alle indicazioni ricevute da Londra e alle tendenze isolazioniste dell’opinione pubblica interna, sino ad essere accusato di chiedere la pace come se fosse stato vinto. Eppure, ciò gli permise di centrare alcuni obiettivi fondamentali per il governo britannico: una pace verosimilmente stabile perché fondata su solide basi geopolitiche e diplomatiche; la concessione in unione dinastica a Giorgio III della corona di Hannover, che così acquisiva voce in capitolo negli affari della Confederazione germanica; infine, soprattutto il consolidamento dell’egemonia sui mari, grazie alla conferma del controllo britannico su alcuni punti strategici nel Mediterraneo (Gibilterra, Malta e le isole Ionie) e lungo le rotte transoceaniche (in particolare le Indie occidentali, ossia gli ex possedimenti francesi nei Caraibi, la Colonia del Capo e le Seychelles).
Alle acquisizioni territoriali si aggiunse poi il successo diplomatico rappresentato dall’approvazione di una Dichiarazione contro la tratta degli schiavi [▶ FONTI, p. 227], allegata all’atto finale del Congresso. La delegazione britannica aveva auspicato qualcosa di più vincolante di una semplice dichiarazione di principio, arrivando a proporre l’isolamento commerciale dei paesi ancora attivi nel traffico degli schiavi africani. La proposta di un impegno vincolante però era stata intesa – e a ragione – come un mezzo per legittimare le ispezioni e i sequestri di navi straniere operati dalla Royal Navy nell’Atlantico e nell’Oceano Indiano e dunque come strumento volto a indebolire le potenze mercantili concorrenti. Essa pertanto era stata avversata non solo da Francia, Spagna e Portogallo, preoccupati di tutelare i propri interessi mercantili e coloniali, ma anche dal papato, riluttante a inimicarsi i principali Stati cattolici.

In ogni caso, la Dichiarazione fu un passo non irrilevante nella lotta alla schiavitù, testimoniando non solo l’orizzonte globale in cui si collocava il Congresso, ma anche le sue sincere velleità di dar vita a un mondo più giusto e pacifico, nel quale gli interessi sovranazionali prevalessero su quelli dei singoli Stati. Certo, sia la Dichiarazione, sia i principi di legittimità ed equilibrio, sia gli accordi sulla libera navigazione dei fiumi internazionali in tempo di guerra stabiliti nel corso del Congresso miravano ad altri obiettivi, a cui i congressisti erano disposti a sacrificare il resto. Tuttavia, in fondo, ognuno di questi provvedimenti poteva pure esser presentato – e non a torto – come uno strumento per ottenere fini più nobili.

7.4 La Restaurazione da eccezione francese a marchio di un’epoca

La Santa Alleanza
Sciolto ufficialmente il Congresso, i rappresentanti delle principali potenze tornarono presto a riunirsi, coscienti che diversi problemi restavano da risolvere, e non solo in Europa: dai fermenti liberali in area tedesca alla latente instabilità francese, dalle lotte per l’indipendenza in America Latina alle frizioni russo-ottomane. Soprattutto, sembravano consapevoli che il bilanciamento delle influenze e la creazione di Stati-cuscinetto a tutela dei confini potevano ridurre le tensioni internazionali, ma non garantire l’assolutismo monarchico da nuove rivoluzioni interne ai singoli paesi.

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Per preservare nel tempo un equilibrio fragile, lo zar Alessandro I siglò con l’Impero asburgico e la Prussia un ulteriore accordo, noto come Santa Alleanza (settembre 1815): un patto vagheggiato già nel 1812 da Alessandro – e giudicato da Metternich un «altisonante nulla» –, che aspirava a riformulare in termini interconfessionali l’alleanza fra trono e altare contro la democrazia, la rivoluzione e il  secolarismo [▶ FONTI, p. 229].

Al patto, che si proponeva come uno strumento di repressione internazionale, aderirono dapprima la Francia (Congresso di Aquisgrana, 1818), desiderosa di mostrarsi ravveduta dopo gli eventi rivoluzionari, e poi molti altri paesi europei. Ne rimasero invece fuori sia lo Stato pontificio sia il Regno Unito. Il primo rifiutava accordi con sovrani di altre confessioni e intendeva restare il più possibile super partes rispetto alle dialettiche politiche continentali. Il secondo ne colse da subito la natura aleatoria e reazionaria («un sublime misticismo e un’assurdità», lo definì Castlereagh da Londra), contestata dall’opinione pubblica interna di orientamento liberale e in contrasto con il sempre più invocato disimpegno dai problemi del continente. Al grande valore simbolico della Santa Alleanza non corrispondeva insomma una proporzionale capacità effettiva di azione, come avrebbero presto dimostrato le guerre d’indipendenza in Sud America e i moti liberali degli anni Venti-Trenta in Europa.

La Quadruplice Alleanza e il Secondo trattato di Parigi
Di ben altra efficacia risultarono i due trattati del novembre 1815, perché siglati anche dal governo britannico. Il primo, voluto soprattutto da Castlereagh, istituiva la cosiddetta “Quadruplice Alleanza” tra Prussia, Impero asburgico, Impero russo e Regno Unito e non era altro che il rinnovamento del patto stretto nel 1813 dalle principali forze antifrancesi. L’altro, noto come Secondo trattato di Parigi, fu ratificato dalle quattro potenze a seguito della sconfitta di Napoleone a Waterloo e si differenziava dagli accordi precedentemente presi per due aspetti. 

In primo luogo, imponeva a Luigi XVIII, definitivamente restaurato, condizioni di pace più dure di quelle ratificate a Vienna: ulteriori piccole perdite territoriali (confini riportati al 1790, non più al 1792), pesanti indennità di guerra e l’occupazione temporanea di alcuni suoi territori da parte di truppe straniere.

In secondo luogo, prevedeva il ventennale impegno dei contraenti a discutere in periodiche conferenze multilaterali ogni ipotesi di alterazione del quadro geopolitico stabilito al Congresso e di dirimere eventuali conflitti esclusivamente per via diplomatica. S’inaugurava così una nuova modalità di prevenzione e risoluzione delle controversie internazionali, più flessibile dell’equilibrio prerivoluzionario e più efficace grazie alla condivisione da parte di tutte le principali potenze europee di precise responsabilità nel mantenimento della pace. Il progetto di un “concerto europeo” riprendeva in parte l’idea di una federazione europea e in parte i più recenti spunti del filosofo Immanuel Kant circa la creazione di un’organizzazione sovranazionale a tutela della pace (Per la pace perpetua, 1795). Esso, tuttavia, si concretizzò presto in un vero e proprio “sistema di congressi”, da convocare ogni volta che l’ordine continentale fosse messo in discussione: il principale mezzo di difesa dell’assolutismo monarchico dai rischi di insurrezione diveniva anche un mezzo per regolare le relazioni fra le grandi potenze, pur in un clima di crescente diffidenza e competizione internazionale.

Non a caso, proprio durante uno di questi congressi, quello tenuto a Troppau in risposta alle insurrezioni del 1820, i rappresentanti della Prussia, lo zar e l’imperatore d’Asburgo avrebbero sancito un ulteriore cardine del sistema repressivo continentale, il cosiddetto principio di intervento: da allora in avanti – e nonostante le perplessità espresse dal Regno Unito e dalla Francia – le grandi potenze si arrogavano il diritto di violare la sovranità nazionale di altri paesi per reprimere sul nascere ogni tentativo di alterare gli assetti interni e internazionali sanciti dal Congresso di Vienna.

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FONTI

La Dichiarazione contro la tratta degli schiavi

Già nel 1807 il governo britannico aveva abolito la tratta degli schiavi e aveva cercato di indurre altri paesi a fare lo stesso. La Pace di Parigi del 1814 aveva impegnato la Francia a farlo entro cinque anni. A Vienna, le speranze per una risoluzione condivisa erano dunque concrete. Tuttavia il documento, compilato da una commissione formata dai rappresentanti degli otto principali Stati europei (Regno Unito, Francia, Spagna, Impero asburgico, Impero russo, Prussia, Svezia e Portogallo), si risolse in una mera dichiarazione di principio: troppo poco per fermare un commercio che era ancora florido e praticato anche da paesi non presenti a Vienna come gli Stati Uniti.

I plenipotenziari delle Potenze che hanno firmato il Trattato di Parigi dell’8 maggio 1814, riuniti in congresso, avendo preso in considerazione che il commercio noto come “tratta degli schiavi” è stato giudicato dagli uomini giusti e illuminati di ogni epoca come ripugnante tutti i principi di umanità e morale universale; [avendo considerato] che le particolari circostanze da cui questo commercio ha tratto origine, e la difficoltà di arrestarne all’improvviso il progresso, possono aver nascosto fino a un certo punto ciò che nella sua prosecuzione vi è di odioso, ma che alla lunga la voce pubblica, in tutti i paesi civilizzati, grida forte la sua pronta soppressione; [avendo considerato] che […] molti governi europei sono virtualmente giunti alla risoluzione di mettervi fine, e che successivamente tutte le Potenze che posseggono colonie in diverse parti del mondo hanno riconosciuto – o per atti legislativi, o per trattati, o per altri impegni formali – il dovere e la necessità di abolirlo. […]

I suddetti Plenipotenziari hanno concordato […] una solenne Dichiarazione dei principi che li hanno orientati in questa iniziativa; di comune accordo, […] essi dichiarano davanti all’Europa che, considerando l’abolizione universale della Tratta degli Schiavi una misura degna di particolare attenzione, conforme allo spirito dei tempi e ai generosi principi dei loro augusti Sovrani, essi sono animati dal sincero desiderio di concorrere all’immediata e fattiva esecuzione di questa misura con ogni mezzo a loro disposizione; e di agire, nell’uso di questi mezzi, con tutto lo zelo e la perseveranza che sono necessari a una così grande e nobile causa.

Tuttavia, troppo ben consapevoli […] che, per quanto onorevoli i loro propositi, essi non possono essere realizzati senza il dovuto riguardo agli interessi, alle abitudini e persino ai pregiudizi di tutti i soggetti, i suddetti Plenipotenziari al tempo stesso riconoscono che questa Dichiarazione generale non può pregiudicare il periodo che ogni singola Potenza può considerare il più adatto per la definitiva Abolizione della Tratta degli Schiavi. Di conseguenza, la definizione del momento in cui questo commercio dovrà cessare universalmente deve essere soggetta a negoziazione fra le Potenze. […]

Nel portare questa Dichiarazione alla conoscenza dell’Europa e di tutti i paesi civili, i suddetti Plenipotenziari sperano di convincere ogni altro governo, e in particolare quelli che, sull’abolizione della Tratta degli Schiavi, hanno già manifestato gli stessi sentimenti; [sperano] di dar loro sostegno in una causa il cui trionfo finale sarà uno dei più nobili monumenti dell’epoca che la comprende, e che l’avrà portata a gloriosa conclusione.

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Il dibattito sulla Restaurazione
Nonostante le innumerevoli novità nel quadro geopolitico (Stati cancellati o nati dal nulla, nuovi accorpamenti territoriali) e politico-istituzionale (nuove casate sui troni, unioni dinastiche) uscito dal Congresso, l’Europa ridisegnata a Vienna fu presto ribattezzata “l’Europa della Restaurazione”. I conservatori usarono questa espressione prevalentemente in senso positivo, per sottolineare lo sforzo compiuto dai congressisti nella direzione di un ritorno ai valori e agli equilibri tradizionali. Anche se non mancarono i reazionari che biasimarono l’indulgenza nei confronti della Francia (il conte Monaldo Leopardi, padre del poeta Giacomo, ne proponeva la spartizione fra le potenze antirivoluzionarie), l’apertura di credito nei confronti di alcuni protagonisti del ventennio rivoluzionario giudicati miscredenti, opportunisti e poco affidabili come Talleyrand, nonché le concessioni fatte alle ragioni dell’equilibrio a danno del principio di legittimità, incompatibili con il provvidenziale ruolo di guida del papa e dei sovrani da lui riconosciuti. E ciò senza voler arrivare al giurista savoiardo Joseph de Maistre, che considerava la Rivoluzione una punizione divina e sosteneva «la verità naturale che i governi possono essere soltanto assoluti». 
Un composito insieme di intellettuali democratici e liberali, quali Thomas Paine, Simonde de Sismondi, Benjamin Constant, il filosofo Johann Gottlieb Fichte, dette invece all’espressione un’accezione fortemente critica. Essi evidenziavano sì il radicalismo utopico e la deriva violenta e autoritaria della Rivoluzione, ma denunciavano l’anacronistica nostalgia dei sovrani europei per l’antico regime e l’impopolarità delle scelte fatte a Vienna [ 9], che avrebbero costretto i governi a ricorrere alla repressione per implementare le loro politiche reazionarie e cancellare i lasciti della Rivoluzione.

Tuttavia, anche nell’eterogenea galassia dei liberali, solo pochi osservatori colsero i veri punti deboli del nuovo equilibrio continentale. La scrittrice Madame de Staël, sensibile alle nascenti questioni nazionali, criticò in particolare la cinica miopia politica di Castlereagh, giudicandolo l’uomo «che ha fatto più male alla causa delle nazioni di ogni altro diplomatico del continente». E in effetti sarebbero bastati meno di cinque anni per vedere come istanze indipendentiste e secessioniste su base nazionale avrebbero saputo mobilitare forze sufficienti a mettere a rischio l’intero sistema costruito a Vienna, sia in Europa sia in America Latina. Allo stesso modo, colse nel segno un opuscolo scritto dal filosofo Claude-Henri de Saint-Simon, che evidenziava la scarsa attenzione prestata dalle grandi potenze agli assetti politico-istituzionali interni ai singoli Stati. Egli paventava pertanto i rischi di malcontento insiti nell’abolizione di costituzioni e sistemi rappresentativi concessi in età napoleonica, ma indicava una soluzione assai vaga e utopica attraverso l’istituzione di un parlamento europeo deputato a dirimere le controversie future.

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FONTI

La Santa Alleanza

L’atto costitutivo della Santa Alleanza fu siglato a Parigi nel settembre 1815 dal re di Prussia, dallo zar e dall’imperatore d’Asburgo. L’accordo traeva il nome dalle tre diverse confessioni cristiane (luterana, ortodossa e cattolica) dei sovrani contraenti, i quali condividevano sia il senso di fratellanza in quanto parte della “grande famiglia cristiana” sia un’idea assolutista e divina del potere. Ciò li accomunava nella battaglia contro chi minacciava l’ordine costituito, il conservatorismo e i cardini su cui il Congresso di Vienna aveva inteso fondare una pace duratura.

In nome della santissima ed indivisibile Trinità.

Le LL. MM.1 l’Imperatore d’Austria, il Re di Prussia e l’Imperatore di tutte le Russie, in seguito ai grandi avvenimenti che hanno segnato in Europa il corso degli ultimi tre anni, […] avendo acquistata l’intima convinzione che è necessario stabilire il cammino da seguire dalle Potenze nei loro reciproci rapporti, sulle sublimi verità che c’insegna l’eterna religione di Dio Salvatore, dichiarano solennemente che il presente atto ha per solo oggetto di manifestare al cospetto dell’universo la loro ferma determinazione di prendere per norma della loro condotta, sia nell’amministrazione dei loro rispettivi Stati, sia nelle loro relazioni politiche con qualunque altro governo, i precetti di quella santa religione, precetti di giustizia, di carità e di pace, i quali, lungi dall’essere unicamente applicabili alla vita privata, devono al contrario influire direttamente sulle risoluzioni dei prìncipi, e guidare tutti i loro passi, essendo questo il solo mezzo di consolidare le umane istituzioni, e di rimediare alle loro imperfezioni. Di conseguenza le LL. MM. hanno convenuto gli articoli seguenti:


Art. 1. Conformemente alle parole delle Sante Scritture, le quali comandano a tutti gli uomini di riguardarsi2 come fratelli, i tre monarchi contraenti rimarranno uniti con legami di vera ed indissolubile fratellanza, e considerandosi come compatrioti, in qualunque occasione ed in qualunque luogo si presteranno assistenza, aiuto e soccorso […] per proteggere la religione, la pace e la giustizia.


Art. 2. Di conseguenza, il solo principio in vigore, sia fra i detti governi, sia fra i loro sudditi, sarà quello di rendersi reciprocamente servizio, di manifestarsi con una benevolenza inalterabile le scambievoli affezioni3 da cui devono essere animati, di considerarsi tutti come membri di una medesima nazione cristiana, riguardandosi i tre Prìncipi alleati, essi stessi, come delegati della Provvidenza a governare tre rami della stessa famiglia, cioè: l’Austria, la Prussia e la Russia, dichiarando così che la nazione cristiana di cui Essi e i loro popoli fanno parte, non ha realmente altro sovrano se non […] Dio, il nostro Divin Salvatore Gesù Cristo, il Verbo dell’Altissimo, la Parola di Vita. […]


Art. 3. Tutte le Potenze che vorranno solennemente approvare i sacri princìpi che hanno dettato il presente atto, e riconosceranno quanto importi alla felicità delle nazioni già abbastanza agitate, che quelle verità esercitino da ora in poi sugli umani destini tutta l’influenza che lor appartiene, saranno accolte con altrettanta premura quanta affezione in questa Santa Alleanza.

 >> pagina 230 
I compromessi della Restaurazione
Alla luce dei proclami fatti a Vienna e degli apparati repressivi che i regimi restaurati andavano perfezionando a tutela dell’ordine appena ristabilito, appariva in effetti troppo ambiziosa l’aspirazione di molti liberali a riprodurre sul continente l’equilibrato sistema istituzionale britannico. Eppure, il quadro istituzionale, giuridico e sociale all’interno di molti paesi era ben diverso da quello auspicato dalla Santa Alleanza e dagli intellettuali più reazionari. Il Congresso non fu in grado o non volle arginare le conseguenze degli stravolgimenti europei nelle Americhe, di cui parleremo nel prossimo capitolo. Anche in Europa il periodo successivo alla caduta di Napoleone non fu un semplice ritorno agli anni precedenti la Rivoluzione, non solo perché i principi rivoluzionari avevano permeato ampie zone del continente, ma anche perché la mobilità sociale e la pur parziale redistribuzione della ricchezza dell’età giacobina e napoleonica [▶ cap. 6.3] lasciavano in mano ai governi restaurati paesi e popolazioni in parte mutati. Insomma, come ha scritto lo storico tedesco Franz Mehring, «l’aratro della Rivoluzione aveva sconvolto troppo in profondità il suo terreno, […] e un ritorno alle condizioni che avevano dominato in Europa fino al 1789 era impossibile».

In questo quadro, non stupiva che – come vedremo – molti governi europei accompagnassero alla condanna ideale dei principi della Rivoluzione un atteggiamento ben più pragmatico nei confronti di alcuni suoi lasciti giuridico-istituzionali (i codici di leggi, lo Stato amministrativo). Invece di rinunciare ai nuovi strumenti legislativi e amministrativi sperimentati durante l’età rivoluzionaria, li privarono del loro potenziale eversivo (i richiami alla sovranità popolare, il carattere elettivo di alcune cariche, la larghezza nella definizione del corpo elettorale) per renderli funzionali alle esigenze del mutato quadro politico interno e internazionale. E lo stesso fecero con buona parte del personale amministrativo e militare napoleonico, epurato degli elementi considerati irrecuperabili alla causa dell’assolutismo e delle dinastie restaurate, ma in larga maggioranza lasciato nelle posizioni in cui si trovava per sfruttarne le competenze e la familiarità con l’efficiente macchina burocratico-militare approntata da Napoleone. 

Lo stesso Metternich, uomo-simbolo dell’assolutismo non immaginò mai la Restaurazione come una riproposizione dell’instabile quadro geo­politico di fine antico regime, né come un ritorno al precario equilibrio istituzionale prerivoluzionario. Egli non esitava ad affermare che si dovesse «conservare progredendo», anche se esclusivamente verso un assolutismo centralista. D’altronde, ammetteva: «È inutile sbarrare le porte alle idee: le scavalcano».

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900