Ai punti cardinali indicati con i suggestivi nomi della rosa dei venti, alle numerose catene montuose che strutturano il Mezzogiorno continentale e soprattutto ai mari che lambiscono le coste e che costituiscono la quasi totalità delle frontiere del paese, le corografie1 cinque e seicentesche del Regno di Napoli affidavano il compito di separare le province, di definirne i confini e di renderne visibile l’individualità: compito arduo questo, per la verità, dal momento che il nesso confini-territorio non è così stretto e scontato come a prima vista potrebbe sembrare, né acquista rilevanza e spessore man mano che dai preamboli delle descrizioni ci si inoltri all’interno delle stesse.
Fatto è che in quelle testimonianze la partizione territoriale era utilizzata in funzione di altri interessi e altre esigenze che dalla dimensione provinciale potevano benissimo prescindere. L’insistenza sulla generalizzata fertilità del suolo, sulla ubertosità dei raccolti, sulle ricchezze minerarie, sulla laboriosità degli abitanti non aveva altro fine se non quello di far risaltare la storia, il prestigio e la ricchezza delle città che erano ubicate in quelle province e, insieme, l’autorevolezza e la rilevanza politica delle [famiglie] patrizie che in quelle risiedevano o da quelle avevano tratto origine. La magnificenza degli edifici sacri, il numero spesso strabocchevole di reliquie in essi contenuti, la presenza sacrale di vescovi e arcivescovi assieme ai loro capitoli ponevano ancor di più in evidenza la dimensione cittadina delle descrizioni che tendevano, pertanto, a porsi come insieme di laudationes urbium piuttosto che come corografie di ben definite realtà provinciali. […]
L’elenco dei sovrani, la prosopografia2 dei ministri e dei baroni apre e chiude le descrizioni; risulterebbe, però, impresa vana ricercare in quelle rubriche, al di là degli elementi di informazione che pur contengono tracce e cenni sulla concreta attività, sulle competenze e le attribuzioni di magistrature inserite in una complessa realtà statuale. L’assenza nelle corografie o lo scarso rilievo che in esse veniva dato alle forme di organizzazione dello Stato aveva una sua precisa ragion d’essere nell’assenza della dimensione amministrativa dalla vita dello Stato. Presidi, percettori, governatori potevano essere dislocati nelle province o nelle università, ma la loro presenza non risultava ai contemporanei più significativa di quella dei detentori degli altri poteri che si affollavano sul territorio: feudatari, enti ecclesiastici, piazze nobili e popolari.
Diversa e più consapevole fu invece la sensibilità dimostrata verso il rapporto fra quadri naturali, circoscrizioni provinciali e articolazione amministrativa dello Stato da coloro, illuministi e funzionari, che stesero le descrizioni che per prime, a partire dalla metà del Settecento, aprirono uno squarcio sulle condizioni reali del Mezzogiorno. […] Così ora, più che turrite città sedi di vescovi e di nobili famiglie, più che vestigia erudite dell’antichità classica, soggetto principale delle descrizioni diviene il territorio visto in primo luogo nei suoi referenti geografici, punto di partenza obbligato dal quale sviluppare un incisivo discorso sull’uso che di quel territorio il regime feudale aveva fatto. […]
L’amministrazione come esigenza primaria dello Stato, la consapevolezza dell’ineludibilità di un intervento sulle realtà sociali ed economiche del paese, il compito di tutela e di promozione affidato alla monarchia dalle forze che erano protagoniste dello sviluppo economico, furono le idee chiave che accompagnarono, finché fu possibile, l’azione di quel gruppo di illuministi3 al servizio dello Stato, portatori di un progetto politico che identificava il governare con l’amministrare. Ma solo l’azzeramento della situazione politico-amministrativa esistente poté permettere che le dottrine, i desideri, le istanze, i progetti maturati giungessero a compimento: solo l’eversione della feudalità, la quotizzazione dei demani4, la separazione della giustizia dall’amministrazione, poterono favorire quella gigantesca opera di riorientamento dell’intero regno, di disarticolazione di una realtà dominata dal particolarismo, e la costruzione, infine, di un nuovo tessuto sociale fortemente raccordato dalle istituzioni periferiche dello Stato.
A partire dal 1806, con le riforme introdotte da Giuseppe Bonaparte, il nesso amministrazione-territorio venne fuori in tutta la sua evidenza a ridosso di un processo che dotò, nel volgere di pochi anni, il paese di un’articolazione provinciale e distrettuale in grado di costituire il preciso supporto territoriale all’azione di quelle elite, pure uniformate e omogeneizzate dal censo, cui la nuova monarchia aveva affidato il potere negli enti locali.
Gli atti legislativi che portarono alla nascita delle intendenze, alla definizione dei ruoli e delle competenze dei funzionari in esse dislocati, stabilirono un nesso ineludibile tra prassi amministrativa e dimensione provinciale e prospettarono una gerarchizzazione del territorio che ad altro non rimandava se non a un’analoga gerarchizzazione delle istituzioni che sul territorio si trovavano a operare. In termini nuovi veniva posto il problema dei rapporti tra la capitale e la sua periferia.
L’utilizzazione di concetti come accentramento/decentramento non riesce però a dar conto in maniera esauriente della natura dello “Stato amministrativo” napoletano del primo Ottocento né della dinamica sociale che si coagulò attorno alle nuove istituzioni. Ritengo che il concetto di regionalizzazione […] sia il più adatto a porre in evidenza non solo tutti quei processi che portarono alla nascita delle province e dei distretti, ma anche la volontà della monarchia di armonizzare le forze sociali emergenti nel paese e di riunirle attorno a un progetto che, innescato dalla nuova partizione territoriale del paese, giungesse a un riequilibrio del rapporto centro/periferia e la facesse finita con il particolarismo che aveva segnato, fino a tutto il XVIII secolo, la dinamica politica e sociale dei ceti provinciali.
La profonda difformità tra la provincia incentrata sull’udienza e quella organizzata dall’intendenza si palesa dunque appieno: la prima è solo la cornice formale dell’azione giudiziaria e militare del preside; la seconda è, nell’ambito di un solido quadro di certezze amministrative, strumento di strutturazione su scala extralocale di quei gruppi proprietari che, sorti sulle ceneri delle variegate elite forensi che avevano costituito punti di riferimento dell’azione dei presidi nei vecchi capoluoghi provinciali, hanno assunto il controllo dei processi politici sul territorio.
tratto da Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816), Meridiana, 9 (1990)