Angelantonio Spagnoletti - L’amministrazione nel Mezzogiorno napoleonico

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Angelantonio Spagnoletti

L’amministrazione nel Mezzogiorno napoleonico

Nel Mezzogiorno d’Italia, l’inizio del dominio napoleonico portò a una radicale riorganizzazione del territorio sul quale agivano reti di potere consolidate da lunghissimo tempo. Angelantonio Spagnoletti sottolinea le novità introdotte dallo Stato amministrativo affermatosi progressivamente a partire dal 1806, che puntò a superare molti particolarismi (soprattutto grazie al ruolo svolto dalle intendenze) e ad affermare nuovi principi di gestione dei processi politici.

Ai punti cardinali indicati con i suggestivi nomi della rosa dei venti, alle numerose catene montuose che strutturano il Mezzogiorno continentale e soprattutto ai mari che lambiscono le coste e che costituiscono la quasi totalità delle frontiere del paese, le corografie1 cinque e seicentesche del Regno di Napoli affidavano il compito di separare le province, di definirne i confini e di renderne visibile l’individualità: compito arduo questo, per la verità, dal momento che il nesso confini-territorio non è così stretto e scontato come a prima vista potrebbe sembrare, né acquista rilevanza e spessore man mano che dai preamboli delle descrizioni ci si inoltri all’interno delle stesse.

Fatto è che in quelle testimonianze la partizione territoriale era utilizzata in funzione di altri interessi e altre esigenze che dalla dimensione provinciale potevano benissimo prescindere. L’insistenza sulla generalizzata fertilità del suolo, sulla ubertosità dei raccolti, sulle ricchezze minerarie, sulla laboriosità degli abitanti non aveva altro fine se non quello di far risaltare la storia, il prestigio e la ricchezza delle città che erano ubicate in quelle province e, insieme, l’autorevolezza e la rilevanza politica delle [famiglie] patrizie che in quelle risiedevano o da quelle avevano tratto origine. La magnificenza degli edifici sacri, il numero spesso strabocchevole di reliquie in essi contenuti, la presenza sacrale di vescovi e arcivescovi assieme ai loro capitoli ponevano ancor di più in evidenza la dimensione cittadina delle descrizioni che tendevano, pertanto, a porsi come insieme di laudationes urbium piuttosto che come corografie di ben definite realtà provinciali. […]

L’elenco dei sovrani, la prosopografia2 dei ministri e dei baroni apre e chiude le descrizioni; risulterebbe, però, impresa vana ricercare in quelle rubriche, al di là degli elementi di informazione che pur contengono tracce e cenni sulla concreta attività, sulle competenze e le attribuzioni di magistrature inserite in una complessa realtà statuale. L’assenza nelle corografie o lo scarso rilievo che in esse veniva dato alle forme di organizzazione dello Stato aveva una sua precisa ragion d’essere nell’assenza della dimensione amministrativa dalla vita dello Stato. Presidi, percettori, governatori potevano essere dislocati nelle province o nelle università, ma la loro presenza non risultava ai contemporanei più significativa di quella dei detentori degli altri poteri che si affollavano sul territorio: feudatari, enti ecclesiastici, piazze nobili e popolari.

Diversa e più consapevole fu invece la sensibilità dimostrata verso il rapporto fra quadri naturali, circoscrizioni provinciali e articolazione amministrativa dello Stato da coloro, illuministi e funzionari, che stesero le descrizioni che per prime, a partire dalla metà del Settecento, aprirono uno squarcio sulle condizioni reali del Mezzogiorno. […] Così ora, più che turrite città sedi di vescovi e di nobili famiglie, più che vestigia erudite dell’antichità classica, soggetto principale delle descrizioni diviene il territorio visto in primo luogo nei suoi referenti geografici, punto di partenza obbligato dal quale sviluppare un incisivo discorso sull’uso che di quel territorio il regime feudale aveva fatto. […]

L’amministrazione come esigenza primaria dello Stato, la consapevolezza dell’ineludibilità di un intervento sulle realtà sociali ed economiche del paese, il compito di tutela e di promozione affidato alla monarchia dalle forze che erano protagoniste dello sviluppo economico, furono le idee chiave che accompagnarono, finché fu possibile, l’azione di quel gruppo di illuministi3 al servizio dello Stato, portatori di un progetto politico che identificava il governare con l’amministrare. Ma solo l’azzeramento della situazione politico-amministrativa esistente poté permettere che le dottrine, i desideri, le istanze, i progetti maturati giungessero a compimento: solo l’eversione della feudalità, la quotizzazione dei demani4, la separazione della giustizia dall’amministrazione, poterono favorire quella gigantesca opera di riorientamento dell’intero regno, di disarticolazione di una realtà dominata dal particolarismo, e la costruzione, infine, di un nuovo tessuto sociale fortemente raccordato dalle istituzioni periferiche dello Stato.

A partire dal 1806, con le riforme introdotte da Giuseppe Bonaparte, il nesso amministrazione-territorio venne fuori in tutta la sua evidenza a ridosso di un processo che dotò, nel volgere di pochi anni, il paese di un’articolazione provinciale e distrettuale in grado di costituire il preciso supporto territoriale all’azione di quelle elite, pure uniformate e omogeneizzate dal censo, cui la nuova monarchia aveva affidato il potere negli enti locali.

Gli atti legislativi che portarono alla nascita delle intendenze, alla definizione dei ruoli e delle competenze dei funzionari in esse dislocati, stabilirono un nesso ineludibile tra prassi amministrativa e dimensione provinciale e prospettarono una gerarchizzazione del territorio che ad altro non rimandava se non a un’analoga gerarchizzazione delle istituzioni che sul territorio si trovavano a operare. In termini nuovi veniva posto il problema dei rapporti tra la capitale e la sua periferia.

L’utilizzazione di concetti come accentramento/decentramento non riesce però a dar conto in maniera esauriente della natura dello “Stato amministrativo” napoletano del primo Ottocento né della dinamica sociale che si coagulò attorno alle nuove istituzioni. Ritengo che il concetto di regionalizzazione […] sia il più adatto a porre in evidenza non solo tutti quei processi che portarono alla nascita delle province e dei distretti, ma anche la volontà della monarchia di armonizzare le forze sociali emergenti nel paese e di riunirle attorno a un progetto che, innescato dalla nuova partizione territoriale del paese, giungesse a un riequilibrio del rapporto centro/periferia e la facesse finita con il particolarismo che aveva segnato, fino a tutto il XVIII secolo, la dinamica politica e sociale dei ceti provinciali.

La profonda difformità tra la provincia incentrata sull’udienza e quella organizzata dall’intendenza si palesa dunque appieno: la prima è solo la cornice formale dell’azione giudiziaria e militare del preside; la seconda è, nell’ambito di un solido quadro di certezze amministrative, strumento di strutturazione su scala extralocale di quei gruppi proprietari che, sorti sulle ceneri delle variegate elite forensi che avevano costituito punti di riferimento dell’azione dei presidi nei vecchi capoluoghi provinciali, hanno assunto il controllo dei processi politici sul territorio.


tratto da Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816), Meridiana, 9 (1990)

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Carlo Capra

Vecchie e nuove nobiltà nell’Italia settentrionale di età napoleonica

Uno dei temi più indagati dagli storici dell’età napoleonica è quello della composizione della nuova nobiltà imperiale. Carlo Capra si concentra sul contesto dell’Italia centrosettentrionale, dove l’attribuzione di nuovi titoli onorifici servì a creare un corpo intermedio rispondente alla concezione della società e del potere propugnata dall’imperatore: il peso dalla vecchia aristocrazia nei quadri della nuova aristocrazia fu molto più rilevante di quanto non accadde in Francia.

Nella nobiltà imperiale istituita da Napoleone nel 1808, la vecchia nobiltà è rappresentata solo per il 22,5%; il 58% dei nuovi titolati sono di origine borghese, e il 19,5% di estrazione popolare, ascesi ai vertici dell’establishment soprattutto attraverso la carriera delle armi (ben il 59% sono militari). Alla base della piramide dei notabili, le liste dei 600 maggiori contribuenti di ciascun dipartimento offrono, accanto a una minoranza di ex nobili, un vasto campionario di rentiers1 borghesi, négociants, professionisti, che spesso disputano a quelli le prime posizioni. «Malgrado tutto, l’ascesa delle “capacità” non si può negare. Anche se i collegi elettorali del 1810 danno della società censitaria un’immagine tronca, consacrano evidentemente l’ingresso in forza di queste categorie nel mondo dei ricchi proprietari. L’impero si appoggia insomma sul personale della rivoluzione moderata; quella dei “giuristi” del 1789, quella dei girondini»2. Non siamo davanti, è chiaro, a una classe capitalistica: la trasformazione delle élite appare anteriore alla rivoluzione industriale, e legata piuttosto alle forme di capitalismo proprie del XVIII secolo. Il capitalismo vero verrà poi, per germinazione spontanea da una società che ha imparato a reggersi su valori e istituti borghesi e che «ha indovinato il criterio delle nuove gerarchie: non più il sangue, la razza, il valore militare, ma il denaro»3. È possibile applicare all’Italia, terra di rivoluzioni passive, alcuni almeno degli insegnamenti che vengono dal dibattito sulla Rivoluzione francese?


[Capra invita ad abbandonare tutte le contrapposizioni schematiche tra borghesia e nobiltà, ritenendo che il problema vada affrontato «in termini di osmosi sociale, di tendenziale integrazione della prima nella seconda». Sottolinea anche che «il compromesso si attua però in Italia a condizioni e con modalità diverse da quelle che si sono viste operanti in Francia. Diverso era intanto il punto di partenza, giacché non si era verificata tra noi in misura paragonabile a quella d’oltralpe la formazione di élite economico-sociali borghesi che battevano con forza alle porte dell’aristocrazia». Questi esigui gruppi sociali (si può congetturare che la loro consistenza si aggirasse nell’Italia centrosettentrionale intorno all’uno per cento della popolazione) avevano una straordinaria abilità «nel concentrare nelle proprie mani la proprietà della terra, nello spartire coi governi il potere politico (quando non erano essi stessi il governo, come a Genova e a Venezia) sia mediante la salvaguardia delle autonomie cittadine, sia con l’accaparramento delle pubbliche cariche, nel riassorbire infine ogni spinta di ceti emergenti e nell’imporre a tutta la società il proprio ruolo egemonico].


[…] Dopo avere per qualche mese lasciato sfogare i “patrioti”, al fine di crearsi un partito da far

valere presso il Direttorio e di assicurarsi le spalle nella partita ancora aperta con l’Austria, Bonaparte mise subito in chiaro da che parte fossero le sue inclinazioni: «Voglio che si dimentichino le antiche scissure fra i partiti e i partiti; da tutti poi si dovranno ricevere gli opportuni lumi, [...] vi saranno sempre e ricchi, e poveri, ed i soli preti si dovranno temere». I nobili, a parte l’emigrazione di pochi elementi strettamente legati ai governi soppressi, se la cavarono con un po’ di paura e con un salasso finanziario che nella maggior parte dei casi non intaccò il capitale, e che per i più avveduti non si risolse in pura perdita giacché i buoni ricevuti in cambio dei prestiti forzosi poterono essere utilizzati per l’acquisto di beni nazionali. […]

La moltiplicazione di titoli, corpi e collegi di contenuto prevalentemente onorifico è un tratto caratteristico dello Stato napoleonico, e risponde non solo alla concezione militare della società propria dell’imperatore, ma anche all’esigenza di offrire alla base sociale del regime un sostituto dei “corpi intermedi” di Montesquieu e dei vecchi ordini patrizi, per assicurarsene in cambio l’adesione e l’appoggio. Tale, nel Regno d’Italia (ma è facile il confronto con le analoghe istituzioni imperiali o napoletane) è il significato che rivestono al vertice i grandi ufficiali della corona, il senato, la massoneria ricostruita come centro di propaganda e organizzazione del consenso, infine le onorificenze propriamente dette (l’Ordine della corona ferrea e la nobiltà istituita col settimo statuto costituzionale del 21 settembre 1808) e in periferia i collegi elettorali, i consigli dipartimentali, distrettuali e comunali e le congregazioni di carità. Nessuna meraviglia che la composizione di questi corpi rifletta da vicino quella della classe agiata di cui abbiamo parlato sopra. Nel collegio elettorale dei possidenti, che di gran lunga sovrastava gli altri due (dei commercianti e dei dotti) per numero, ricchezza e prestigio, la nobiltà d’antico regime è presente in Lombardia e in Emilia nella stessa misura (un po’ più del 75%) e con le stesse caratteristiche (predominio del patriziato sugli anoblis4) che abbiamo rilevate tra i maggiori contribuenti del 1802. La percentuale scende a due terzi nel senato, organo che per la sua natura e le sue funzioni fa da cerniera tra i vertici della pubblica amministrazione e quelli del­l’establishment sociale, culturale ed ecclesiastico, ma risale al 70% (contro, si è visto, il 22,5% in Francia) dei nuovi duchi, conti, baroni e cavalieri creati da Napoleone, benché il titolo di conte spettasse di diritto ai grandi ufficiali della corona, ai ministri, ai senatori, ai consiglieri di Stato incaricati di dirigere qualche ramo dell’amministrazione, agli arcivescovi, e quello di barone ai presidenti dei collegi elettorali dipartimentali, ai primi presidenti e procuratori generali della corte di cassazione e delle corti d’appello, ai vescovi e ai podestà delle città principali. Questi scarni dati potrebbero far pensare non solo a un totale ralliement5 dell’aristocrazia terriera al regime napoleonico, ma anche a un suo massiccio ingresso nelle alte sfere dell’amministrazione dello Stato. Le cose non sono così semplici, e ce lo insegnano le vicende stesse della nobiltà di nuova istituzione.

La prudenza ci è consigliata innanzi tutto dalla sua esiguità numerica (227 titoli in tutto furono concessi da Napoleone tra il 1809 e il 1813) in confronto agli effettivi della nobiltà d’antico regime. Più della metà di questi diplomi non fanno che consacrare, così come voleva la legge, le posizioni che i loro destinatari occupavano ai vertici dello Stato o della Chiesa: è il caso dei cinque grandi ufficiali della corona, dei 50 senatori, dei 23 arcivescovi e vescovi, di 24 consiglieri di Stato, di 15 magistrati e di 8 podestà.


tratto da Nobili, notabili, élites: dal “modello” francese al caso italiano, in “Quaderni storici”, 13-37 (1978)

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Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Regionalizzazione.

b) Corpi intermedi.

c) L’amministrazione come esigenza primaria dello Stato.

d) Totale ralliement [una totale adesione] dell’aristocrazia terriera al regime napoleonico.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

L'amministrazione nel Mezzogiorno napoleonico

Vecchie e nuove nobiltà nell’Italia settentrionale di età napoleonica

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Dal dibattito storiografico al DEBATE

I due passi storiografici proposti esprimono una tesi fondamentale: le innovazioni politico-amministrative dei territori e la riorganizzazione delle funzioni burocratiche dell’età napoleonica ebbero un impatto notevole sul territorio della penisola italiana, soprattutto nello stabilire i rapporti di potere tra centro e periferia. Si pensi alla rilevanza del dibattito odierno in Italia sullo spostamento delle funzioni amministrative dal centro, dall’amministrazione centrale, alla periferia, alle regioni. Dall’indipendentismo all’autonomismo, con una contaminazione culturale che dal Nord si è diffusa in tutte le regioni italiane. Molte delle 15 regioni a statuto ordinario sono indirizzate – utilizzando l’iter previsto dalla riforma del Titolo V della Costituzione, approvato nel 2001 – a contrattare con lo Stato nazionale la facoltà di avere ulteriori competenze.


a) Creazione dei gruppi di lavoro La classe si divide in due gruppi che sostengono tesi opposte:

Gruppo 1: Pro trasferimento delle competenze dallo Stato alle regioni.

Gruppo 2: Contro trasferimento delle competenze dallo Stato alle regioni.


b) Laboratorio di ricerca a casa e in classe In classe si propone la lettura delle modifiche al Titolo V della Costituzione e si ricercano alcune delle mozioni delle singole regioni per la richiesta di autonomia e/o indipendenza.


c) Preparazione di argomentazioni e contro-argomentazioni Ciascun gruppo prepara le proprie argomentazioni e riflette sulle possibili repliche alle tesi del gruppo antagonista.


d) Dibattito Ciascun gruppo sceglie uno o più relatori che espongano almeno tre argomentazioni a favore della propria tesi, sostenendole con prove della loro validità (esempi, analogie, fatti concreti, dati statistici, opinioni autorevoli, principi universalmente riconosciuti ecc.). In seguito, ciascun gruppo espone le controargomentazioni rispetto alle argomentazioni antagoniste. Con la guida dell’insegnante si conclude il dibattito con la sintesi e il bilanciamento delle posizioni.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900