PERCORSI STORIOGRAFICI

percorsi storiografici

PERCORSO

TESTI

TEMI

1 La Rivoluzione e il ruolo delle folle

p. 198

H. Burstin, L’identità di un quartiere di Parigi prima della rivoluzione tratto da Conflitti sul lavoro e protesta annonaria a Parigi alla fine dell’ancien régime

– La composizione sociale dei quartieri

– Le radici dei comportamenti del popolo

A.M. Rao, Le insorgenze nella penisola italiana tratto da Introduzione. La questione delle insorgenze italiane

– Le diverse motivazioni della controrivoluzione

– Vecchie e nuove lotte di potere

2 Corpi amministrativi e nuove élite nell’Italia napoleonica
p. 204

A. Spagnoletti, L’amministrazione nel Mezzogiorno napoleonico tratto da Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816)

– Una nuova organizzazione del territorio

– Il superamento dei particolarismi

C. Capra, Vecchie e nuove nobiltà nell’Italia settentrionale di età napoleonica tratto da Nobili, notabili, élites

– I titoli onorifici e i corpi intermedi

– La stabilizzazione del potere imperiale

percorso 1

La Rivoluzione e il ruolo delle folle

L’età rivoluzionaria fu segnata dall’irrompere della violenza sulla scena dello scontro politico, con effetti immediati sui comportamenti dei regnanti e delle autorità costituite. Gli storici continuano a interrogarsi da decenni sulle motivazioni, le aspettative, le paure che spinsero le folle a mobilitarsi, nonché sul loro profilo economico, sociale, culturale, religioso. Haim Burstin si è concentrato, fra gli altri suoi studi, sull’universo composito della città di Parigi, in particolare dei settori che si erano guadagnati la fama di quartieri “popolari”. Anna Maria Rao ha guardato invece al versante della controrivoluzione nella penisola italiana, indagando le ragioni profonde delle insorgenze antirepubblicane.

testo 1
Haim Burstin

L’identità di un quartiere di Parigi prima della rivoluzione

Haim Burstin affronta una sfida difficile sul piano storiografico: cercare le radici dell’identità “popolare” dei quartieri parigini che parteciparono in maniera più attiva alla Rivoluzione. Per raggiungere questo scopo analizza al microscopio le attività economiche e la composizione sociale di un singolo distretto (il faubourg Saint-Marcel), cercando di comprendere il “bagaglio” con cui gli abitanti si lanciarono nello scontro rivoluzionario e persino nelle lotte sociali del secolo successivo.

La storiografia della Rivoluzione francese ha sempre rivolto uno sguardo particolarmente attento a Parigi, riflettendo cosi in modo simmetrico il ruolo fortemente accentratore esercitato spesso dalla capitale nei confronti del resto del territorio nazionale. Se ripercorriamo, all’interno di questa vastissima produzione storiografica, proprio le pagine dedicate alla rivoluzione parigina, emerge con insistenza il ruolo di protagonisti svolto nelle sue fasi più acute e drammatiche dai celebri faubourgs, i sobborghi di Parigi, ormai parte integrante della città – divenuti serbatoio inestinguibile di energie rivoluzionarie. Sono infatti i faubourgs Saint-Antoine e Saint-Marcel a essere stati individuati come simbolo per antonomasia del movimento rivoluzionario nella sua colorazione popolare e radicale. […]

Del ruolo assunto da questi faubourgs erano chiaramente consapevoli coloro che guardavano al loro potenziale di rivolta con timore e preoccupazione; si tratta delle amministrazioni di polizia che, prima e durante la rivoluzione, non cessarono di tenere gli occhi puntati su di essi per mezzo di una fitta rete di agenti e di informatori. Dall’altra parte era il popolo di Parigi che si rivolgeva ai “fratelli dei faubourgs Saint-Antoine e Saint-Marcel” aspettando molto spesso da loro una prima mossa per sollevarsi e contando sulla loro forza di mobilitazione come ultimo baluardo della resistenza popolare.

II carattere eminentemente popolare di questi quartieri si inquadra nel generale processo di smembramento e di ricomposizione del tessuto urbano di ancien regime; se questo fenomeno è destinato ad accentuarsi con decisione solo nel corso del XIX secolo, una prima se pur non esclusiva polarizzazione della città è chiaramente riscontrabile alla vigilia della rivoluzione: al di fuori del centro dove coesistono ancora le sedi delle istituzioni politiche, amministrative, giudiziarie e le dimore signorili affianco a un affastellarsi di abitazioni di artigiani e operai, si delinea con evidenza un settore occidentale abitato da un pubblico ricco, e un settore orientale – corrispondente ai due faubourgs Saint-Antoine e Saint-Marcel separati fra loro dal corso della Senna – a carattere marcatamente povero.

Composizione sociale popolare e disponibilità alla rivolta si coniugano dunque nella caratterizzazione di entrambi i quartieri, ma a questo proposito un fatto abbastanza curioso e apparentemente inspiegabile ci è proposto dalle vicende dei primi anni della rivoluzione. Se troviamo incontestabilmente il faubourg Saint-Antoine con i suoi abitanti alla testa delle prime journées, come centro di propulsione rivoluzionaria, se proprio esso ne fu sovente teatro, il faubourg Saint-Marcel, dal canto suo, mosse i suoi primi passi nella rivoluzione in modo piuttosto cauto; bisognerà attendere […] l’assalto alle Tuileries del 10 agosto 1792, per assistere al risoluto ingresso del faubourg nella scena rivoluzionaria parigina. […]

Una presenza dunque, ma all’interno di un comportamento complessivamente moderato; questo dato non ci è noto solo dall’analisi delle folle rivoluzionarie, ma appare fra le righe dalle ammissioni stesse dei suoi abitanti. […] I motivi di questa discrepanza vanno ricercati soprattutto nei rapporti di direzione politica e di egemonia instauratisi nei differenti quartieri e in specie nei primi embrioni di organizzazione municipale che il Terzo Stato si era dato: tutto ciò rimanda allo studio delle vicende politiche dei primi anni della rivoluzione a Parigi, alla vita dei distretti e dei battaglioni della guardia nazionale.

Ciò che però ci interessa ricostruire qui è l’origine della reputazione rivoluzionaria del faubourg Saint-Marcel, i motivi dunque per cui, nonostante una presenza modesta alle prime journées parigine, questo quartiere riusciva ad attrarre su di sé le attenzioni più scrupolose da parte della polizia, cosi che le sue strade, i suoi mercati, i centri di convergenza delle emozioni collettive, costituivano la tappa obbligata delle perlustrazioni dei commissari, delle guardie e degli informatori. Quanto queste precauzioni non fossero inutili è dimostrato dalla piega che avrebbe preso la storia di questo quartiere non appena i “cittadini passivi”1 – esclusi dal regime censitario – fecero il loro ingresso nella scena politica all’indomani del 10 agosto 1792. La ricerca delle origini di questi fenomeni ci ha spinti a un cammino a ritroso nell’ultimo ventennio dell’ancien regime; se le loro radici affondano in una tradizione senz’altro più antica, è in questo periodo che un’abituale irrequietezza coincide con la sempre più grave perdita di prestigio e di credibilità da parte della monarchia e delle sue istituzioni. […] Negli anni compresi approssimativamente tra il 1775 e il 1789, si riscontrano nel faubourg Saint-Marcel, come in altri punti significativi della capitale, una serie di agitazioni e di sollevamenti popolari, le cui caratteristiche e motivazioni sono spesso diverse, ma che concorrono a fornirci una tipologia abbastanza ricca ed emblematica dello scontro sociale e delle componenti in esso coinvolte. Lo studio dei movimenti popolari isolato dal contesto socioeconomico specifico che li genera, e quindi dalle contraddizioni che essi sottendono e che essi riflettono, conduce spesso a estrapolazioni azzardate e la ricerca degli elementi costitutivi della rivolta decantati e analizzati allo stato puro avrebbe, nel nostro caso, il difetto di non aggiungere granché a quanto si conosce già della sua fisionomia nell’epoca preindustriale, di appiattire le particolarità concrete e di ridurre il nostro studio a uno psicologismo dei comportamenti di massa piuttosto vacuo. […]

II carattere popolare di questo territorio trovava una prima conferma nella scarsa presenza di ceti nobiliari o alto borghesi: quasi assenti i magistrati regi, quelli del parlamento e delle altre corti sovrane, cosi come i quadri dell’alta finanza e del negoce2. Siamo invece di fronte a un vasto panorama di artigiani in cui la piccola produzione si è affermata come forma dominante; e ciò in virtù dell’origine stessa del faubourg, che deve il suo sviluppo al trasferimento di diverse attività artigianali, divenute ormai intollerabili e fonte di inquinamento nel centro della città densissimo e sovrappopolato, verso il suo territorio. Questo fenomeno giustifica la presenza di alcuni settori produttivi di cui il faubourg conservava un semimonopolio – è il caso ad esempio delle concerie e delle birrerie – cosi come di altre attività tipiche all’interno delle quali si erano formate delle autentiche dinastie artigianali i cui esponenti si trovavano raramente impegnati in un rinnovamento tecnologico della loro produzione, ma si preoccupavano piuttosto della salvaguardia del loro mercato.

Accanto ai laboratori artigianali, alle innumerevoli botteghe dedite soprattutto al vasto commercio dei generi di prima necessità, si trovavano pure al faubourg Saint-Marcel delle manifatture e delle imprese che occupavano un’abbondante mano d’opera salariata. Se è opinione comune che queste fasce di lavoratori fossero nei faubourg meno rappresentate che nel centro della città, si tratta di una constatazione che ha il difetto di mettere in ombra un altro fattore di estrema importanza; col montare della crisi economica – e ciò soprattutto nella seconda metà degli anni ’80 – il processo di declassamento della mano d’opera meno specializzata risultava accelerato: ampi settori di salariati venivano a trovarsi continuamente alle soglie del lavoro precario e occasionale, anticamera tradizionale della disoccupazione. Questi strati, pur parte integrante delle classi lavoratrici, sfuggono per definizione a ogni censimento che tenga per base la mano d’opera impiegata; da qui, la possibilità di errori sensibili di valutazione, a maggior ragione in un periodo in cui la disoccupazione diventa una piaga dilagante: il lavoro precario e dequalificato sconfina allora, tramite la disoccupazione, verso l’indigenza e i limiti tra questi due settori si fanno sempre più fluidi. […]

Rivolte annonarie, conflitti sul lavoro, sollevazioni a carattere politico, ruotano […] attorno ad altrettanti problemi relativi all’esistenza dei settori subalterni della società. Abbiamo messo più volte in guardia contro un’interpretazione anacronistica di questi fatti poiché siamo ancora ben lungi dalla comparsa delle forme di lotta e di coscienza tipiche di una società industriale; in compenso, la dinamica stessa delle lotte [avvenute nel quartiere alla fine del Settecento], pur esprimendosi con strumenti tattici spesso rudimentali e involuti, rivela alcune linee di tendenza che ritroveremo sviluppate compiutamente nel secolo successivo, così pure una tensione verso l’organizzazione dettata dalle necessità pratiche di resistenza all’apparato repressivo e alle ritorsioni padronali che, per quanto fragile ed embrionale, annuncia quelle che saranno le forme tipiche dell’agitazione sindacale.

Per quanto riguarda il faubourg Saint-Marcel, è con questo bagaglio di esperienze che esso si lancerà nello scontro rivoluzionario. Nuove contraddizioni si sarebbero accavallate e diversi rapporti di forza si sarebbero instaurati, atti a cambiare il panorama complessivo del quartiere, ma una serie di problemi inerenti alla sua struttura produttiva e alla sua fisionomia sociale sono destinati a rimanere aperti non solo nel corso della rivoluzione, ma a ripresentarsi con forza nei primi decenni del secolo successivo.


tratto da Conflitti sul lavoro e protesta annonaria a Parigi alla fine dell’ancien régime, in “Studi Storici”, 19-4 (1978)

 >> pagina 201 
testo 2
Anna Maria Rao

Le insorgenze nella penisola italiana

Anna Maria Rao evidenzia il carattere composito delle folle controrivoluzionarie della penisola italiana. Le motivazioni politiche, sociali, economiche, istituzionali si intrecciano costantemente con quelle religiose. Tuttavia la violenza non acquisì una direzione o una progettualità politica e non riuscì ad abbracciare istanze ampiamente condivise, come avvenne invece in Francia. Al contrario, il conflitto fra repubblicani e legittimisti allocati negli Stati italiani si ridusse spesso in uno scontro armato fra truppe reclutate da soggetti privati, finalizzato anche a risolvere vecchie controversie e lotte di potere che non avevano trovato una regolare soluzione giudiziaria.

Tutt’altro che riconducibili a un’unica indifferenziata Vandea, le resistenze e le rivolte controrivoluzionarie in Francia, urbane e rurali, ebbero motivazioni e forme cronologicamente e geograficamente diversificate: rivendicazione spontanea di antiche pratiche, credenze, tradizioni locali minacciate oppure espressione di aspettative deluse o tradite; o ancora, in particolare durante il Direttorio, rifluire di marginali e sradicati1 vecchi e nuovi in un brigantaggio endemico e nella lotta per bande. La spontaneità delle rivendicazioni dal basso non esclude peraltro il loro intreccio con l’azione cospirativa dall’alto di aristocratici o ecclesiastici emigrati; né “alto” e “basso” si identificano con l’opposizione tra centro e periferia, o con una frontale contrapposizione tra città e campagne. Vista in passato soprattutto come una sorta di grande jacquerie2, in un mondo rurale compattamente collocato su posizioni di difesa della tradizione, la controrivoluzione si è dunque rivelata ben più complessa e diversificata negli studi recenti. […]

Due elementi, tuttavia, emergono con grande rilievo. [...] Innanzitutto, la diffusione delle insorgenze sull’insieme del territorio nazionale: l’immagine di una controrivoluzione sanfedista quasi soltanto meridionale, cristallizzatasi a seguito degli eventi del 1799, è un’immagine falsata e fuorviante ai fini della comprensione non solo degli atteggiamenti popolari ma dell’intera vicenda politica del triennio. [Inoltre] il rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione non si configurò come una netta frontale contrapposizione fra ricchi e poveri, borghesia o galantuomini e popolo. L’insorgenza, insomma, non fu fenomeno esclusivamente popolare, non solo, ma il popolo non fu tutto e sempre controrivoluzionario3. […]

Rispetto alla visione nazionalistica ed economico-sociale di un popolo in lotta contro lo straniero e contro i ricchi, unitariamente animato da valori ideologici omogenei, legittimistici e antirepubblicani, e da tradizionali valori morali e religiosi, [dagli studi svolti] l’insorgenza emerge in tutta la sua irriducibile complessità di fenomeno fortemente differenziato nello spazio e nel tempo. L’attenzione […] agli aspetti istituzionali e alle dinamiche dei poteri locali, non fa certo velo a un’altrettanto ineludibile dimensione antropologica del fenomeno, che presenta aspetti rituali e mentali anch’essi rivelatori della profondità della crisi che investe le società non solo italiane ma europee di fine secolo. Non si tratta soltanto delle modalità tipiche della ribellione di antico regime: dal suono delle campane che scandisce le rivolte agli assalti ai granai, ai castelli, alle case dei possidenti; dalla scelta di santi protettori e di simboli religiosi al ruolo esercitato dalle false notizie nelle ondate di panico. […] Emergono anche altre paure o ossessioni dell’Europa moderna, altrettanto radicate, congiunte a miti e angosce millenaristici: quella degli ebrei, ad esempio, le cui comunità ghettizzate sono prese d’assalto a Verona e a Roma, e a Ferrara identificate come repubblicane nemiche del popolo. Immagini e paure “popolari”? Anche in questo caso, in realtà, paure antiche si congiungono agli effetti del duplice assalto antiebraico guidato nel Settecento da una parte del pensiero illuministico in funzione laica e antisuperstiziosa e soprattutto dalla Chiesa cattolica, che alla fine del secolo fa della polemica antiebraica uno dei perni intorno a cui si struttura l’ideologia della riconquista cattolica. Così come miracoli e culto dei santi non sono solo espressione di credenze popolari – bersaglio della cultura illuministica – ma si radicano in un intricato gioco di rapporti sociali, confraternali, istituzionali4.

Gli aspetti culturali e simbolici sono dunque anch’essi ineludibili, al pari di quelli sociali, politici, economici, istituzionali per comprendere il fenomeno dell’insorgenza. Certo, la circolazione delle idee illuministiche nella seconda metà del XVIII secolo sembra aver approfondito le distanze fra elite colte sempre più ampie e strati popolari inferiori, fra i quali più salde ed efficaci si mostrano le forme della comunicazione ecclesiastica, non a caso prese a prestito dagli stessi intellettuali illuministi prima, dai repubblicani poi. Al tempo stesso, tuttavia, non mancano gli scambi tra cultura alta e cultura bassa e gli stessi rituali della violenza non sono appannaggio soltanto popolare ma appartengono anche agli apparati repressivi istituzionali. Altrettanto importanti sono le forme e le pratiche della comunicazione, affidata a tramiti orali che deformano o enfatizzano le informazioni da una parte e dall’altra. […]

La Rivoluzione francese aveva imposto all’attenzione europea il problema della violenza popolare. L’adesione alle repubbliche del triennio di larga parte dei gruppi dirigenti italiani si era fatta più sulla base di un’esigenza di ordine e di controllo di ogni spinta eversiva che di una effettiva scelta rivoluzionaria, fatta propria soprattutto da una minoranza giacobina accuratamente messa ai margini degli apparati repubblicani di governo. Ed è ancora una volta la paura dell’eversione popolare a ispirare le politiche dei governi restaurati, a Roma come in Toscana e a Napoli. Non a ca

so a forgiare immagini demoniache dell’insorgenza popolare sono soprattutto le cronache redatte da membri del clero o delle elite locali legittimiste: fonti preziose, spesso le sole disponibili per la ricostruzione degli eventi, ma che molto ci dicono non tanto delle attitudini popolari quanto delle paure di borghesi e possidenti.

Un’altra importante conclusione si può trarre dallo studio delle insorgenze. La Rivoluzione francese è il primo esempio di esplosione della violenza popolare come risposta legittima e insieme soluzione a un problema politico: il crollo dello Stato di antico regime e dei suoi apparati di rappresentanza e di mediazione dei conflitti per via giudiziaria. Nel crollo della monarchia assoluta e dei suoi strumenti di controllo e repressione, il confronto tra le parti, finalmente libere di esprimersi, si affida alle armi e a una violenza che in Francia trova una direzione politica. II Direttorio cercherà poi di incanalare il confronto politico nelle forme moderne delle pratiche elettorali, sia pure censitarie e largamente manipolate [quindi legate alla condizione economica dei cittadini], e spesso ancora accompagnate da episodiche esplosioni di scontro fisico: destra (anzi, destre) e sinistra ne emergono come orientamenti ormai definiti e destinati a durare. Nelle repubbliche italiane questo non avviene: la tutela francese impedisce la messa in atto di regolari meccanismi elettorali costituzionalmente definiti.

Nelle pratiche di antico regime la mediazione sociale e politica si era dispiegata soprattutto sul terreno giudiziario, riducendo progressivamente i margini dell’eversione attraverso il paternalismo economico, da un lato, l’esemplare repressione militare di tumulti ed “emozioni”, dall’altro: non a caso gli ultimi decenni del secolo XVIII avevano visto crescere il ricorso ai tribunali per la definizione dei conflitti locali intorno ai feudi, alle proprietà ecclesiastiche, ai demani; e molti dei procuratori delle comunità contro fisco e feudalità confluiranno nel personale politico repubblicano. Spazzata via la mediazione giudiziaria, il conflitto esplode in Italia nelle forme violente dello scontro fisico tra le parti, senza riuscire a diventare confronto politico: in molti Stati italiani, in Piemonte e in Toscana come nel Mezzogiorno, il conflitto tra repubblicani e legittimisti è uno scontro tra milizie reclutate da privati.

Gli “interessi di parrocchia” […] non riescono a tradursi in obiettivi “nazionali” nemmeno all’interno dei singoli Stati. E proprio questa esperienza conferma presso l’ala repubblicana democratica radicale la necessità di una repubblica italiana unitaria.


tratto da Introduzione. La questione delle insorgenze italiane, in “Studi Storici”, 39-2 (1998), Le insorgenze popolari nell’Italia rivoluzionaria e napoleonica

 >> pagina 203 
Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Reputazione rivoluzionaria del faubourg Saint-Marcel.

b) Il rapporto tra rivoluzione e controrivoluzione non si configurò come una netta frontale contrapposizione fra ricchi e poveri.

c) Composizione sociale popolare e disponibilità alla rivolta si coniugano.

d) La paura dell’eversione popolare [ispira] le politiche dei governi restaurati.

 >> pagina 204 
Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due saggi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

L'identità di un quartiere di Parigi prima della rivoluzione

Le insorgenze nella penisola italiana

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
RIASSUMERE un testo argomentativo

Dopo aver schematizzato i saggi con l’aiuto della tabella dell’esercizio precedente, suddividi i due testi in paragrafi e assegna a ciascun paragrafo un titolo. A partire da questi paragrafi sviluppa un testo di mezza pagina di quaderno che riassuma le argomentazioni dei due brani proposti.


 

L'identità di un quartiere di Parigi prima della rivoluzione

Le insorgenze nella penisola italiana

Paragrafo 1

   

Paragrafo 2

   

Paragrafo 3

   

percorso 2

Corpi amministrativi e nuove élite nell’Italia napoleonica

Le innovazioni politico-amministrative dell’età napoleonica ebbero un impatto notevole sul territorio della penisola italiana. L’introduzione del Codice civile fu la base di una politica che puntò ad abolire i privilegi feudali, a difendere le libertà individuali e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Nei passi che proponiamo, Angelantonio Spagnoletti e Carlo Capra guardano a due aspetti diversi di questa trasformazione, concentrandosi rispettivamente sul Sud e sul Nord Italia: la riorganizzazione degli apparati burocratici e il conferimento di nuovi titoli nobiliari (finalizzati a creare una nuova élite fedele all’imperatore). 

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900