6.2 L’Impero e le guerre: il sistema continentale

6.2 L’impero e le guerre: il sistema continentale

L’imperatore “dei francesi” e la nuova corte
Il 4 aprile del 1804 Napoleone ottenne l’investitura come “imperatore dei francesi”, sottolineando al contempo di essere stato scelto dalla nazione, ma anche dalla volontà divina, come un sovrano di antico regime. Il 2 dicembre dello stesso anno ricevette infatti la corona dal pontefice nella cattedrale di Notre-Dame e se la pose in testa con le sue stesse mani: lasciarlo fare al papa poteva essere interpretato come un segno di sottomissione. Giurò di rispettare l’uguaglianza dei diritti, le libertà politiche e civili del popolo, nonché di preservare l’irrevocabilità delle vendite dei beni nazionali. La carica aveva anche un carattere ereditario e poteva essere trasmessa a un figlio naturale o adottivo, a dimostrazione del fatto che gli ordinamenti si erano definitivamente trasformati in senso monarchico [ 3].

Intorno a Bonaparte si formò quindi una vera e propria corte. Per i membri della sua famiglia furono ripristinati i titoli nobiliari e i territori conquistati furono divisi in feudi imperiali destinati al primogenito maschio, in contraddizione con quanto stabilito nel Codice per gli altri cittadini. L’ingresso in questa nuova élite era anche legato al possesso di grandi patrimoni o all’esercizio di importanti cariche civili. Essa si affiancava alla vecchia aristocrazia, non completamente eliminata ma in parte recuperata come nucleo di sostegno al nuovo potere: come abbiamo già detto, in alcuni casi i vecchi “signori” durante la Rivoluzione erano diventati i nuovi “proprietari” [▶ protagonisti, p. 180].

 >> pagina 180 

  protagonisti

I nuovi nobili dell’età napoleonica

Le ricerche svolte negli ultimi decenni hanno messo in evidenza la natura composita della nuova nobiltà imperiale: circa il 58% dei membri della nuova élite era di estrazione borghese, il 22% proveniva dai ranghi della vecchia aristocrazia, mentre il restante 20% aveva origini popolari e aveva sfruttato l’esercito per acquisire un prestigio sociale che sarebbe stato impensabile fino a pochi anni prima. La ricchezza, la proprietà fondiaria e la titolarità di importanti cariche pubbliche militari o civili erano caratteristiche comuni ai diversi gruppi che entrarono a far parte della cerchia dei favoriti dell’imperatore. Grazie alla fedeltà di questi ultimi, Napoleone riuscì a esercitare un potere enorme. I ministri che si mostrarono più intraprendenti e autonomi nella loro azione furono presto messi da parte e sostituiti con figure inclini alla sottomissione.

La terza coalizione antifrancese
La svolta imperiale mise in allerta le monarchie europee e già nel 1805 si ruppero gli equilibri raggiunti con il Trattato di Amiens. Napoleone poteva contare sull’alleanza della Spagna di Carlo IV di Borbone (1788-1808), che aveva abbandonato la posizione antifrancese assunta negli anni della Rivoluzione nella prospettiva di contrastare il potere britannico sull’Oceano Atlantico. La flotta franco- spagnola contava di poter accerchiare gli inglesi, impegnati anche nel Mar dei Caraibi per difendere i loro interessi commerciali e coloniali. Ma questi ultimi ebbero la meglio distruggendo le imbarcazioni nemiche a Trafalgar, alle porte del Mediterraneo presso Cadice (21 ottobre 1805). Nella battaglia perse la vita l’ammiraglio Horatio Nelson, ma gli esiti furono comunque vantaggiosi per l’Inghilterra, che rimase padrona assoluta dei mari e poté guidare la formazione della terza coalizione antifrancese, alla quale parteciparono Austria, Russia, Svezia e Regno di Napoli.

L’imperatore Bonaparte riuscì subito a rifarsi grazie al suo potente esercito di terra, noto come Grande Armée, affidato a ufficiali preparati e premiati per le loro qualità, coordinato da abili strateghi e reclutato nel suo complesso con una  coscrizione segnata da criteri più selettivi di quelli adottati durante la Rivoluzione, attenti ora a distribuire in maniera equilibrata il prelievo dei nuovi soldati fra le diverse aree geografiche del paese, le fasce sociali, i gruppi etnici [▶ fenomeni].

Grazie a questa poderosa macchina da guerra, conseguì una fondamentale vittoria sulle truppe austrorusse ad Austerlitz nel dicembre di quello stesso anno. Nel successivo Trattato di Presburgo, l’Austria fu costretta ad accettare condizioni di pace umilianti. Perse infatti il contatto con il Mare Adriatico, cedendo il Veneto, l’Istria e la Dalmazia al Regno d’Italia, che raccoglieva l’eredità della Repubblica cisalpina. Anche il Tirolo e la Baviera andarono alla Francia, che si allargava prepotentemente verso oriente.

 >> pagina 181 

Nei primi mesi del 1806, Napoleone si decise a regolare i conti con la terza coalizione ordinando l’invasione del Regno di Napoli. Pose sul trono il fratello maggiore Giuseppe Bonaparte (1768-1844) costringendo ancora una volta la famiglia regnante borbonica (Ferdinando IV e Maria Carolina) a fuggire verso la Sicilia sotto la protezione della flotta inglese. Nominato re di Napoli il 30 marzo del 1806, Giuseppe offrì le cariche più influenti a ministri francesi, ma cercò di includere alcuni esponenti di spicco dei potentati locali nell’esecutivo e nel Consiglio di Stato. In Germania si creò invece la Confederazione del Reno, formata da Stati che si posero sotto la protezione dell’imperatore, chiudendo di fatto la parabola secolare del Sacro Romano Impero. La carica di granduca del Principato di Berg fu assunta da Gioacchino Murat (1767-1815), marito di Carolina Bonaparte e quindi cognato di Napoleone.

  fenomeni

L’esercito napoleonico: composizione e strategie

Il mito di Napoleone si costruì fra i contemporanei e i posteri grazie anche ai successi militari. Pur essendo giovani, determinati e aggressivi, i nuovi soldati reclutati erano poco addestrati e di conseguenza non adatti alla formazione dello “schieramento in linea”, che era rimasta costantemente in voga fin dal XVII secolo. Questa tattica offriva difatti la possibilità di produrre una maggiore potenza di fuoco, ma imponeva un’intensa preparazione per avere movimenti all’unisono, nonché il controllo costante dei comandanti e degli ufficiali. Fu messa da parte in età rivoluzionaria e napoleonica, per essere sostituita dallo schieramento a colonna, sviluppato più in lungo che in largo, adatto ai movimenti rapidi e alle incursioni nelle file nemiche, utile a trasformare le battaglie in scontri corpo a corpo.

Nel 1805, l’esercito contava quasi 600 000 uomini, mentre 8 anni più tardi la cifra superò abbondantemente il milione di unità, grazie al contributo decisivo delle popolazioni dei territori conquistati. Secondo i calcoli effettuati dagli studiosi, fra il 1798 e il 1813 furono reclutati in totale 2 834 000 soldati, ma le cifre sono approssimative visto che non tengono conto di dispersi e disertori. I morti durante il servizio militare furono circa un milione: molti di loro non perirono in battaglia, ma per epidemie, problemi alimentari e igienici.

La Pace di Tilsit
Il nuovo quadro egemonico dell’Europa continentale metteva decisamente all’angolo Stati come la Prussia, che non tardarono a reagire. Il re Federico Guglielmo III (1797-1840) divenne infatti il promotore della quarta coalizione (1806) coinvolgendo l’Inghilterra, la Russia e la Svezia, ma subì lo strapotere delle armate di terra francesi e fu costretto a soccombere. Napoleone entrò da trionfatore a Berlino , arrestando un rafforzamento prussiano che durava da lungo tempo [▶ cap. 3.2]. L’unica potenza capace di resistere fu la Russia di Alessandro I (in carica dal 1801 al 1825) che, pur subendo delle sconfitte, costrinse la Francia alla Pace di Tilsit del 25 giugno 1807.
Il continente rimase sotto l’ascendente di due grandi potenze, quella russa e quella francese, che si divisero le aree di influenza. Alla Russia rimaneva la fascia orientale dell’Europa e il controllo delle coste del Mar Nero. Negli ampi territori ceduti dalla Prussia e intorno alla capitale Kassel nasceva invece il Regno di Vestfalia, assegnato a Gerolamo Bonaparte (1784-1860, il più giovane dei fratelli di Napoleone). Il neonato Ducato di Varsavia fu affidato all’alleato Federico Augusto I di Sassonia (1750-1827). Entrambi i nuovi Stati confluirono nella Confederazione del Reno, ormai estesa a larga parte del territorio tedesco. I Paesi Bassi, che durante la Rivoluzione avevano costituito la Repubblica batava (dal nome di un’antica tribù germanica che viveva in quell’area), si trasformarono in Regno d’Olanda e finirono sotto il controllo di Luigi Bonaparte (1778-1846). A completare lo scenario ci furono i principati italiani di Lucca e Piombino, affidati alla sorella dell’imperatore francese Elisa Bonaparte (1777-1820). Si trattava in sostanza di una schiera di formazioni politiche che costituivano un articolato sistema continentale. Le diverse parti collaboravano coprendo precise funzioni, soprattutto economiche: offrivano alla Francia, per esempio, materie prime e monopoli commerciali [ 4].

 >> pagina 182 
Il blocco continentale

La grande rivale della Francia rimaneva quindi il Regno Unito. Consapevole di non poterne contrastare l’egemonia sui mari, Napoleone decise di colpire la stabilità economica dei suoi rivali con il “blocco continentale”. Proibì ai suoi sudditi e a quelli di tutti gli  Stati satellite di commerciare con le isole britanniche, allo scopo di creare una nuova rete mercantile asservita al suo impero. Ottenne l’appoggio di Russia, Svezia e Spagna, arrecando molti danni al nemico.

Ciò nonostante, il successo dell’iniziativa fu solo parziale. Risultò presto chiaro che l’unico paese a trarre sostanziosi vantaggi dal blocco era la Francia: il cuore pulsante dell’impero, tuttavia, non riusciva a soddisfare la domanda dei mercati europei e subiva la competitività dei britannici, dotati di un ingranaggio produttivo più organizzato e tecnologicamente avanzato. Il blocco penalizzò inoltre le industrie di altre aree europee, come quella metallurgica tedesca o quella tessile italiana, che persero molti potenziali acquirenti. Molte merci cominciarono a circolare grazie al contrabbando, che sfruttò bene gli appoggi di isole controllate dagli inglesi, come Malta nel Mediterraneo e Helgoland nel Baltico. Un ruolo importante fu giocato anche dal continente americano e da quello asiatico, le cui traiettorie commerciali spesso sfuggivano alle decisioni delle potenze europee.

 >> pagina 183 
Le insurrezioni contro l’occupazione francese

Il blocco contribuì quindi a generare tensioni all’interno del sistema imperiale napoleonico, che ben presto sfociarono in rivendicazioni di autonomia nazionale contro l’oppressione del potere straniero, alimentate anche dall’umiliazione subita da grandi potenze del passato come la Spagna e la Prussia.
Il primo paese a ribellarsi fu il Portogallo, che si rifiutò di applicare le misure imposte dal generale corso. Subì l’invasione francese nel novembre del 1807 e fu liberato grazie all’intervento degli inglesi solo 9 mesi più tardi. Nel gennaio del 1808 Napoleone rivolse le sue attenzioni allo Stato pontificio e, con il pretesto di far rispettare le nuove politiche commerciali, ordinò l’annessione del territorio papale fino a far dichiarare Roma “seconda città dell’impero” (dopo Parigi). Vana fu la reazione di Pio VII che, dopo aver pronunciato una scomunica, fu arrestato e deportato a Savona. Nel frattempo, i contrasti fra il re di Spagna Carlo IV e il suo erede al trono Ferdinando offrirono a Napoleone il pretesto per detronizzare la monarchia borbonica e dare la corona a suo fratello Giuseppe Bonaparte. Ottenuta la proclamazione il 10 maggio del 1808, Giuseppe lasciò il Regno di Napoli a Gioacchino Murat. Ormai la gestione degli Stati che gravitavano intorno alla Francia era diventata un affare di famiglia.

Nel maggio del 1808, in seguito alla salita al trono di Giuseppe, scoppiò a Madrid una violenta insurrezione contro l’occupazione francese, che presto si estese anche alle zone periferiche del paese. A organizzarla erano stati alcuni gruppi nobiliari ed ecclesiastici capaci di mobilitare il sentimento nazionale degli spagnoli, così come il loro attaccamento ai valori religiosi tradizionali. L’umiliazione subita in quei mesi dal papa aveva infatti innescato un’intensa propaganda contro “Bonaparte l’Anticristo” in difesa della Chiesa cattolica. Ne derivò una guerra sostenuta anche dai britannici, nella quale si distinsero capi militari come l’argentino di padre spagnolo José de San Martín, che di lì a poco sarebbe tornato a Buenos Aires a combattere per l’indipendenza del suo paese: le atrocità e i massacri consumati da entrambe le parti furono innumerevoli e contribuirono a indebolire l’Impero napoleonico, costretto di frequente a intervenire impiegando le sue risorse militari [ 5].

 >> pagina 184

Il legame con gli Asburgo e l’esportazione di un modello di Stato francese
L’Austria covava progetti di vendetta contro Napoleone dal 1805 (Trattato di Presburgo) e, osservando il conflitto spagnolo, fu indotta a formare la quinta coalizione (1809) affiancandosi alla Gran Bretagna. Le operazioni militari cominciarono con l’invasione della Baviera, alleata della Francia, ma la controffensiva organizzata dall’imperatore fu devastante. Il 6 luglio del 1809 le truppe al comando dell’arciduca Carlo subirono una sconfitta decisiva a Wagram e gli austriaci furono costretti a cedere vari territori fra i quali la Carinzia, la Carniola, Trieste e Fiume: questi ultimi andarono a formare, insieme all’Istria e alla Dalmazia, le Province illiriche, che divennero un’exclave francese, cioè un territorio appartenente a uno Stato, ma posto all’esterno dei suoi confini.
Un ruolo decisivo di mediazione fra il vincitore e i vinti fu giocato dal nuovo cancelliere austriaco Klemens Wenzel Lothar conte di Metternich (1773-1859), che offrì a Napoleone la possibilità di sposare l’arciduchessa Maria Luisa, figlia di Francesco I. La proposta fu accettata: il primo matrimonio del generale corso con Giuseppina di Beauharnais (1763-1814) non aveva prodotto eredi e un legame con la prestigiosa dinastia asburgica poteva legittimare il trono nel quadro delle contese dinastiche europee: in questa scelta confluirono molte delle contraddizioni dell’intero progetto napoleonico, sospeso fra la necessità di poggiarsi su un’investitura del popolo e una concezione patrimoniale del trono pienamente aderente alle dinamiche di antico regime.

Fra il 1809 e il 1810 si susseguirono nuove annessioni (territori tedeschi affacciati sul Mare del Nord, Olanda, Stato pontificio) che portarono l’impero a comprendere 44 milioni di abitanti, senza contare quelli degli Stati satellite governati da membri della famiglia Bonaparte o da loro fiduciari. Queste diverse formazioni politiche rappresentavano un vero e proprio organismo composito che aveva i suoi collanti più solidi negli apparati militari e nelle relazioni economiche. Fin dal momento dell’incoronazione, aveva agito su Napoleone il mito di Carlo Magno, ma nella realtà l’impresa aveva assunto contenuti nuovi, esportando in Europa un’idea di società e di Stato elaborata negli anni della Rivoluzione e finalizzata a realizzare gli interessi della Francia. Da lì provenivano infatti ordinamenti, leggi, corpi amministrativi, politiche economiche, modelli culturali e religiosi.

6.3 Trasformazioni politiche e contrasti sociali

La Francia negli anni dell’espansione dell’impero
Negli anni della massima fortuna del suo potere, Napoleone continuò a mettere in atto il suo progetto di affermazione della supremazia dell’esecutivo. Per preservare l’unità nazionale e neutralizzare le divisioni interne, concentrò i suoi sforzi sull’indebolimento della logica dei partiti, fino a trasformare i vecchi organi di rappresentanza dello Stato francese in esecutori della volontà dell’imperatore. Mise a tacere la maggior parte delle voci di dissenso, impose decise limitazioni alla circolazione dei libri e dei giornali, consentì la pubblicazione di pochi titoli autorizzati in ogni singolo dipartimento e controllò con attenzione le notizie che venivano diffuse. Infatti non intendeva permettere che il regime fosse messo in cattiva luce e, al contrario, mirava a rafforzarne l’immagine attraverso una capillare propaganda, volta a celebrare l’efficienza del sistema e la sua capacità di propiziare la trasformazione dell’intero continente europeo.

 >> pagina 185 
L’apparato messo in piedi da Napoleone doveva assegnare una funzione basilare alla religione. Già nel 1806 era stato pubblicato un “catechismo imperiale” per moralizzare il clero e farlo sentire parte integrante dell’apparato burocratico. L’obiettivo era far comprendere l’importanza dell’istruzione nei seminari, regolare i titoli di accesso agli ordini sacerdotali, ristrutturare diocesi e parrocchie, controllare le devozioni popolari che durante la Rivoluzione avevano veicolato sentimenti eversivi [▶ cap. 5.5].

Tuttavia il rapporto fra l’imperatore e il papa Pio VII non aiutò l’attuazione di questo progetto. Al pari del suo predecessore Pio VI, il pontefice costretto all’esilio fu trasformato dai cattolici intransigenti in una vittima delle politiche “anticristiane” messe in atto dalle autorità, in un “martire” costretto a subire le malvagità di un nemico irriverente e senza scrupoli. Da alleata quale doveva essere, la Chiesa si trasformò quindi in fiera oppositrice di Napoleone, rivendicando la restituzione dei beni sottratti e intraprendendo un’azione, molto spesso sotterranea, di screditamento del regime. Principali protagonisti di questa campagna furono i membri dell’ordine gesuitico, attivi in altre vesti anche dopo lo scioglimento della Compagnia decretato nel 1773, e ancora in possesso di marcate capacità di intessere relazioni, cercare appoggi politici influenti, catturare consensi fra umili e illetterati [▶ protagonisti, p. 185].

  protagonisti

I gesuiti dalla soppressione del 1773 all’età napoleonica

Già dall’inizio degli anni Ottanta del Settecento, i membri della disciolta Compagnia di Gesù confermarono di possedere notevoli capacità propagandistiche, conservando il loro spirito di corpo e ricollocandosi abilmente in alcuni ruoli significativi dell’apparato sociale. Continuarono infatti a educare i giovani aristocratici e i discendenti della borghesia più ricca, furono attivi nel giornalismo e nell’editoria, nella produzione scientifica, letteraria e storico-erudita e occuparono posti dirigenziali in biblioteche e musei. Mostrarono in definitiva enormi qualità che andavano ben oltre i campi già sperimentati della predicazione, dell’assistenza spirituale, della promozione di culti di santi, dell’organizzazione di riti e processioni.

Con lo scoppio della Rivoluzione francese e il conseguente rinsaldarsi del rapporto fra alcune dinastie europee e la Chiesa, gli ex gesuiti diedero vita a iniziative volte a ricostruire l’ordine soppresso: nel 1796 nacque la Società del Sacro Cuore di Gesù, che operò nei Paesi Bassi austriaci sotto la guida dell’abate francese Leonor Franz Tournely; un anno più tardi fu fondata a Roma la Societas Fidei Jesu, detta anche dei “fideisti” o “paccanaristi”, dal nome del promotore Niccolò Paccanari (1786-1811), originario della Valsugana. Quando nel febbraio del 1798 fu proclamata la Repubblica romana e il papa Pio VI fu condotto a Valence da prigioniero, i membri di questo neonato sodalizio furono espulsi insieme a lui. Alcuni di loro raggiunsero i confratelli rifugiatisi in Russia e protetti da Paolo I e poi dal suo successore Alessandro I. Altri si posero sotto la guida di Paccanari dirigendosi ad Hagenbrunn in Austria, unendosi ad alcuni superstiti della Società del Sacro Cuore. Proprio l’Austria divenne un importante centro propulsore per il rilancio dell’azione gesuitica, accogliendo molti religiosi che non avevano mai rinnegato la loro appartenenza all’ordine. Nel 1804 il papa Pio VII tentò di ristabilire la Compagnia a Napoli, contando anche sull’aiuto di Giuseppe Pignatelli (1737-1811), un religioso nato ed educato in Spagna, in grado di tenere rapporti con molte casate nobiliari minacciate dall’avanzata napoleonica (rimase per esempio in stretto contatto con Carlo Emanuele IV di Savoia, esiliato dal Piemonte e rifugiatosi in Sardegna), oltre che di fare proseliti presso il popolo.

La crisi del 1810-12
A minare la costruzione napoleonica e la sua popolarità intervenne, fra il 1810 e il 1812, anche una crisi economica. Come era accaduto più volte già durante la Rivoluzione francese le cause furono i cattivi raccolti, il rincaro dei beni alimentari, le difficoltà nel procurarsi materie prime, l’incapacità di affrontare la concorrenza inglese, l’impoverimento dei lavoratori salariati.

Le casse dello Stato subirono inoltre un ridimensionamento a causa dello sfiancante conflitto in Spagna e per il venir meno degli introiti garantiti dagli indennizzi di guerra pagati negli anni precedenti dalle potenze sconfitte. Il culmine di queste entrate si era raggiunto fra il 1805 e il 1809. Il governo cercò di rimediare imponendo nuove tasse sui consumi, ma finì solo per alimentare il già forte malcontento.

Le reazioni nel mondo tedesco

La conquista napoleonica segnò l’inizio di grandi cambiamenti in tutti i territori della Germania centroccidentale [ 6]. Dopo la dissoluzione del Sacro Romano Impero, completatasi nel 1806, l’Austria era riuscita a conservare la sua indipendenza e, come abbiamo già visto, si era avvicinata a Napoleone grazie alla mediazione di Metternich. La Confederazione del Reno, protetta dall’imperatore francese, aveva acquisito un ruolo importante nel quadro delle egemonie continentali e rappresentava, insieme al Regno di Vestfalia creatosi dopo la Pace di Tilsit, una grossa minaccia per la Prussia.

 >> pagina 187 
Fu proprio quest’ultimo paese ad accendere la miccia per la riscossa antifrancese, sotto la guida di Federico Guglielmo III. Questi promosse un processo di rinnovamento interno favorendo la proprietà contadina, stimolando gli scambi commerciali ed eliminando la servitù della gleba ancora esistente. I ministri Karl von Stein e Karl August von Hardenberg furono i protagonisti della vita politica di questi anni, favorendo un cambiamento sostanziale del rapporto fra lo Stato e i sudditi. Guardarono da un lato all’eliminazione dei vecchi abusi dei ceti privilegiati, dall’altro lato alle conseguenze della subalternità del loro paese alla potenza francese. Contribuirono inoltre con la loro azione governativa alla nascita di un movimento antinapoleonico che faceva leva sull’orgoglio nazionale e che pian piano coinvolse l’intero mondo tedesco [ 7].
Un contributo importante fu dato da esponenti del mondo della cultura come il filosofo Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) che si concentrò sulla scienza partendo dalle suggestioni di Kant e pubblicò nel 1808 i Discorsi alla nazione tedesca, contribuendo alla crescita del sentimento nazionale contro il potere straniero. Altrettanto importante fu l’opera dello studioso e diplomatico Wilhelm von Humboldt (1767-1835) che servì lo Stato occupandosi di istruzione, ponendo attenzione in particolare alla lingua, intesa come manifestazione centrale della cultura e dell’identità dei popoli, come già sostenuto anche da Herder [▶ cap. 1.3].
Le innovazioni introdotte nel Ducato di Varsavia furono blande e incomplete: lo smembramento della Polonia, conclusosi con le spartizioni di fine Settecento [▶ cap. 3.2] era stato un duro colpo e i legami con vecchie pratiche come il servaggio restavano ancora forti. Si cominciò tuttavia a coltivare una coscienza nazionale destinata a esprimersi in tutta la sua forza solo nel corso dell’Ottocento. Strategicamente importante era la Confederazione elvetica che copriva un’area (soprattutto quella fra Ginevra e Berna) che si era mostrata particolarmente turbolenta durante la Rivoluzione e che mantenne una struttura federale e una parziale autonomia, grazie all’Atto di mediazione del 1803. Anche la Danimarca e la Svezia rientravano nell’orbita napoleonica, garantendo una presenza nel Mare del Nord che tendeva a isolare il Regno Unito.

 >> pagina 188 

Pur essendo organizzato con estrema razionalità il “sistema continentale” napoleonico aveva dei punti deboli. I cambiamenti imposti dalla Francia erano condivisi solo in parte e non compensavano le richieste del potere centrale, impegnato a rafforzarsi con il prelievo di risorse e uomini da arruolare nell’esercito. Anche se non presero la direzione delle resistenza armata come in Spagna, le istanze di rivalsa e di autonomia acquisirono sempre più consensi fra le popolazioni. Stando al giudizio degli studiosi, in questi anni si possono rintracciare le origini dei movimenti di lotta per l’indipendenza e l’unificazione nazionale che segnarono il XIX secolo.

L’Italia napoleonica
Una delle aree in cui lo sviluppo dei patriottismi si manifestò in maniera più evidente fu l’Italia, che copriva un ruolo strategico fondamentale per l’impero ed era quindi oggetto di attenzioni particolari. La Sicilia e la Sardegna erano infatti fuori dal sistema napoleonico e svolgevano una doppia funzione di rilievo: oltre a essere il rifugio degli esponenti delle dinastie dei Borbone e dei Savoia, offrivano punti di appoggio nel Mediterraneo alla flotta britannica. La stabilità degli Stati sottoposti al controllo francese era quindi fondamentale poiché la penisola era a tutti gli effetti una zona di frontiera. È significativo anche il fatto che il Piemonte rischiò, in queste circostanze, di essere assorbito definitivamente nell’orbita francese, anche dal punto di vista linguistico e culturale: se ciò non si realizzò, fu probabilmente perché Napoleone sentiva ancora fortemente le eredità delle sue origini corse e amava profondamente la lingua italiana.

Nel Regno d’Italia Napoleone assunse formalmente il potere diventando re, ma lasciò il giovane figliastro Eugenio di Beauharnais (1781-1824) a fare le sue veci in qualità di viceré. Nel 1809 il territorio comprendeva anche il Tirolo, il Veneto e le Marche, dopo il passaggio dell’Istria e della Dalmazia alle Province illiriche: gli abitanti erano più di sei milioni e mezzo. Fu messo in piedi un articolato apparato di funzionari pubblici, che coinvolse molti membri della vecchia aristocrazia e nuovi proprietari terrieri. L’introduzione del Codice civile fu accompagnata da una riforma dell’istruzione (soprattutto al livello elementare, visto l’analfabetismo ancora dominante) e da importanti opere pubbliche, come la strada del Sempione o il canale che collegava Milano a Pavia [ 8].

L’attività economica prevalente rimaneva l’agricoltura, incentivata dalla sottrazione di molti appezzamenti alla Chiesa, ma appesantita dal prelievo fiscale che doveva soddisfare le richieste di approvvigionamento degli eserciti. L’industria era concentrata sul settore tessile e la concorrenza dei produttori internazionali schiacciava l’iniziativa di quelli locali. Il commercio si reggeva sull’attività dei porti, anche se le tensioni generate dal permanente strapotere dell’Inghilterra sui mari non erano di grande aiuto.

 >> pagina 189 
Ben altro impatto ebbe la dominazione napoleonica nel Mezzogiorno, dove la monarchia borbonica aveva lasciato un paese con diversi problemi irrisolti. Il commercio estero era debole, soprattutto se paragonato a quello di altri Stati della penisola. Le attività produttive scontavano la povertà del mercato interno e la mancanza di adeguate vie di comunicazione rappresentava un limite enorme: era difficilissimo, per esempio, trasportare beni dalla Puglia a Napoli. Gli scambi dipendevano dalle oscillazioni dei mercati internazionali e dalle scelte delle grandi potenze commerciali estere, prima fra tutte l’Inghilterra. Rimanevano inoltre intatti gli squilibri fra l’enorme città capitale e le estese periferie rurali, costellate di piccoli centri abitati e aggrappate a un sistema agricolo tradizionale e impermeabile all’uso di nuove tecnologie.
Poco dopo l’insediamento di Giuseppe Bonaparte, fu emanato un provvedimento di abolizione della feudalità (agosto 1806) che sopprimeva le giurisdizioni signorili, i privilegi e le immunità, ancora fortissime su tutto il territorio. Nel dicembre del 1807 fu istituita una Commissione feudale, vale a dire un tribunale speciale incaricato di pronunciarsi sulle liti fra nobili e di ripartire le terre favorendo i contadini. L’operato del nuovo organo fu fruttuoso, ma non riuscì a risolvere le persistenti tensioni nelle campagne.
Queste ultime sfociarono, in alcuni casi, nel brigantaggio, una forma di criminalità che esprimeva un disagio politico, sociale e religioso, senza tuttavia avere precise direzioni. Molti briganti, per esempio, diressero la loro violenza contro i privilegi dei proprietari e dei nobili, mentre altri si posero al servizio degli stessi signori combattendo contro i francesi e identificandosi nei vessilli della Santa Fede [▶ cap. 5.5], come già era accaduto contro la Repubblica napoletana del 1799.

 >> pagina 190 

Nel luglio del 1808, l’insediamento di Gioacchino Murat, che fece seguito al trasferimento in Spagna di Giuseppe, rappresentò una svolta soprattutto per quel che riguarda i quadri dirigenti, che erano in prevalenza transalpini. Il nuovo sovrano infatti conquistò le simpatie dei napoletani e tentò di accentuare il carattere nazionale del regno, sforzandosi di mantenere una maggiore autonomia dall’Impero francese e dando più spazio a personaggi locali sia nelle cariche amministrative sia in quelle militari. Proprio fra i membri di questa nuova élite si sviluppò una coscienza identitaria molto forte, destinata a giocare un ruolo importante nei movimenti indipendentisti dei decenni seguenti [▶ fenomeni]. Al tempo stesso, la Sicilia, che aveva dato rifugio ai Borbone, rimase esclusa da queste trasformazioni e vide allargarsi le distanze dal Mezzogiorno continentale, sviluppando una propria identità.

  fenomeni

Il Mezzogiorno nel decennio francese

Il periodo del dominio napoleonico sul Mezzogiorno (1806-15) – solitamente definito dagli storici come “decennio francese” – è considerato un importante momento di svolta per la storia italiana, soprattutto per il Sud della penisola. I tentativi di riforma messi in atto in quegli anni si scontrarono con resistenze forti espresse da un territorio caratterizzato da un tessuto economico precario, privo di un mercato interno affidabile e di adeguate vie di comunicazione, incentrato ancora sulle grandi colture e sui latifondi e di conseguenza esposto alle oscillazioni dei mercati internazionali e alle speculazioni delle potenze straniere.

Il riassetto delle aree rurali si risolse inoltre in un parziale fallimento. La reazione all’abolizione della feudalità fu emblematica. Le forme di potere nate in seguito alle trasformazioni del decennio si trasferirono velocemente dalla sfera economica a quella politica creando una nuova rete di privilegi difficile da scalfire. Fu un vero e proprio ritorno al passato. La borghesia benestante acquistò le terre dei nobili – più spesso definiti “baroni” – ereditando da loro anche comportamenti e modi di esercizio del potere. I nuovi proprietari borghesi divennero a tutti gli effetti “galantuomini”, usurparono le terre demaniali, impedirono ai poveri l’uso delle acque e dei boschi per la raccolta della legna, monopolizzarono le amministrazioni municipali, si dotarono di corpi armati stipendiati, si circondarono di persone fidate sfruttando rapporti personali che richiamavano il vecchio vassallaggio, esercitarono funzioni di polizia e di giustizia: consumarono insomma una grande quantità abusi ai danni dei più deboli. La feudalità, in definitiva, fu liquidata, ma la borghesia agraria ne adottò la cultura e le pratiche.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900