Nel XVIII secolo una serie di invenzioni trasformarono la manifattura del cotone in Inghilterra e diedero origine a un nuovo modo di produzione: il sistema di fabbrica. Nello stesso periodo altri rami dell’industria compivano progressi analoghi, ed essi, tutti insieme e rafforzandosi a vicenda, permisero ulteriori passi in avanti su un fronte sempre più ampio. Il numero e la varietà delle innovazioni furono tali, che è quasi impossibile farne l’elenco; ma tutti si possono riassumere in tre principi: la sostituzione delle macchine – rapide, regolari, precise, infaticabili – all’abilità e alla fatica umane; la sostituzione di fonti inanimate di energia a quelle animali, in particolare l’introduzione di macchine per la conversione del calore in lavoro, che misero a disposizione dell’uomo una nuova e quasi illimitata provvista di energia; l’uso di nuove e assai più abbondanti materie prime, in particolare la sostituzione di sostanze minerali a quelle vegetali o animali.
L’insieme di questi miglioramenti costituisce la rivoluzione industriale. Essi portarono a un aumento senza precedenti della produttività umana, e con esso a un incremento sostanziale del reddito pro capite. Mentre in precedenza un miglioramento delle condizioni di esistenza, e quindi di sopravvivenza, e l’aumento delle possibilità economiche erano stati sempre seguiti da aumenti di popolazione che finivano per annullare i guadagni ottenuti, adesso, per la prima volta nella storia, economia e conoscenze crebbero entrambe abbastanza rapidamente per generare un flusso continuo di investimenti e di innovazioni tecnologiche, un flusso che alzava oltre i limiti del visibile il tetto dei “freni positivi” di Malthus1. La rivoluzione industriale inaugurò così una nuova età ricca di promesse. Essa trasformò inoltre l’equilibrio politico, in seno alle nazioni, fra le nazioni, e fra le civiltà; rivoluzionò l’ordine sociale; e mutò il modo di pensare dell’uomo così come il suo modo di agire.
Nel 1760 l’Inghilterra importava circa 2 milioni e mezzo di libbre di cotone grezzo per alimentare un’industria sparsa per la maggior parte nelle campagne del Lancashire, e connessa alla manifattura del lino, che la riforniva del robusto filo di ordito2 che essa non aveva ancora imparato a produrre. Tutto il lavoro veniva fatto a mano, di solito (ad eccezione della tintura e della finitura) nelle case dei lavoranti, a volte nelle piccole botteghe dei mastri tessitori. Una generazione più tardi, nel 1787, il consumo di cotone grezzo era salito a 22 milioni di libbre; la manifattura del cotone era seconda soltanto a quella della lana per numero di addetti e valore del prodotto; la maggior parte della fibra consumata veniva pulita, cardata e filata per mezzo di macchine, azionate alcune dall’acqua in grandi stabilimenti, altre a mano in officine più modeste, o anche nelle case di campagna. Mezzo secolo dopo il consumo era cresciuto a 366 milioni di libbre; la manifattura del cotone era la più importante del regno per valore del prodotto, capitale investito e numero di addetti; quasi tutte maestranze, tranne gli ancora numerosi tessitori che facevano uso del telaio a mano, lavoravano in stabilimenti sotto disciplina di fabbrica. Il prezzo del filato era sceso a forse un ventesimo di quello di un tempo, e la più economica manodopera indù3 non poteva competere per qualità o quantità con i filatoi intermittenti o continui del Lancashire. I filati di cotone inglesi si vendevano in tutto il mondo: le esportazioni, maggiori di un terzo del consumo interno, avevano un valore quadruplo di quelle dei filati di lana e dei pettinati. Il cotonificio era il simbolo della grandezza industriale inglese; e l’operaio cotoniere, del suo maggiore problema sociale: la nascita di un proletariato industriale.
Perché questa rivoluzione della tecnica e dell’organizzazione della manifattura avvenne dapprima in Inghilterra? Alcune considerazioni teoriche ci possono aiutare a inquadrare il discorso. I cambiamenti tecnologici non sono mai automatici: implicano l’abbandono di metodi tradizionali, danni per gli interessi costituiti, spesso gravi sconvolgimenti umani. Così stando le cose, occorre in genere una combinazione di fattori per suscitare e rendere possibile un nuovo indirizzo: 1) la necessità o l’opportunità di miglioramenti a causa dell’insufficienza, attuale o potenziale, delle tecniche esistenti; e 2) una superiorità tale per cui i nuovi metodi siano tanto redditizi da giustificare il costo del cambiamento. Implicito nel secondo punto è l’assunto che per quanto gli utenti dei vecchi metodi, meno efficienti, tentino di sopravvivere comprimendo i costi dei fattori umani della produzione, imprenditoriali o lavorativi, le nuove tecniche costituiscono un miglioramento sufficiente a mettere in grado i fabbricanti progressisti di batterli sul prezzo e cacciarli dal mercato. […]
Le origini dell’interesse imprenditoriale per le macchine e la produzione di fabbrica vanno cercate nella crescente insufficienza dei vecchi modi di produzione, insufficienza che aveva radici in contraddizioni interne, aggravate a loro volta da forze esterne.
Di queste forme di organizzazione antecedenti la fabbrica, la più antica era la bottega artigiana indipendente, con un padrone o mastro spesso assistito da uno o più lavoranti apprendisti. Molto presto tuttavia – già nel XIII secolo – questa indipendenza era venuta meno in molte zone, e l’artigiano si era trovato legato al mercante che gli forniva la materia prima e vendeva il suo prodotto finito. Questa subordinazione del produttore all’intermediario – o, meno spesso, di produttori deboli ai più forti – fu una conseguenza dello sviluppo del mercato. Mentre un tempo l’artigiano lavorava per una clientela locale, un gruppo ristretto ma abbastanza stabile di persone legate a lui personalmente oltre che per interesse pecuniario, adesso egli venne a dipendere dalle vendite fatte attraverso un mediatore in mercati lontani, e in concorrenza con altri. […] Fu in gran parte in questo modo che la popolazione rurale fu attratta dal circuito produttivo. Molto presto i mercanti urbani si resero conto che le campagne erano un serbatoio di manodopera a buon mercato. […]
L’industria tessile inglese costruì la sua fortuna, nel tardo Medioevo e all’inizio dell’età moderna, sulla manifattura rurale. Nessun centro di produzione, eccettuate le Fiandre, fu così sollecito a volgersi dalle città alle campagne; si calcola che già nel 1500 oltre metà della produzione dei tessuti di lana aveva origine nel contado. Questa tendenza persistette: a metà del XVIII secolo la parte di gran lunga maggiore della manifattura laniera inglese si basava sul lavoro a domicilio […].
Vale la pena di considerare da vicino questo sviluppo, poiché esso fu il principale stimolo dei cambiamenti che noi indichiamo col nome di rivoluzione industriale, e comprenderlo può aiutarci a capire le ragioni della priorità inglese nello sviluppo tecnologico ed economico.
tratto da Cambiamenti tecnologici e sviluppo industriale, 1750-1914, in Storia economica Cambridge, vol. VI. La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi, a cura di J. Habakkuk e M. Postan, Einaudi, Torino 1974