2.4 Lo scontro fra Impero e papato: la “lotta per le investiture”

2.4 Lo scontro fra Impero e papato: la “lotta per le investiture”

I motivi del conflitto

L’ideologia ierocratica della Chiesa romana sollevò durissimi contrasti anche in Occidente, contrapponendosi direttamente ai tradizionali diritti esercitati dal potere civile nell’elezione del pontefice e nel conferimento di diritti pubblici ai vescovi (esercitare la giustizia, provvedere alla difesa armata della comunità).

Quanto all’elezione pontificia, si è già detto come il Privilegium Othonis ne assegnasse all’imperatore il controllo decisivo. Nel 1059 il papa Niccolò II (1058-61), eletto l’anno precedente con il sostegno dei cardinali riformatori e dell’influente famiglia dei Canossa-Lorena, emanò un decreto che regolava in termini nuovi l’elezione papale (Decretum in electione papae). Secondo questo documento il diritto di scegliere il pontefice spettava ai cardinali vescovi e non più all’imperatore o all’aristocrazia romana; a costoro si sarebbe poi associato il restante clero, mentre il popolo di Roma avrebbe infine acclamato il nuovo papa.

La contesa fra il clero sostenuto dall’Impero e i riformatori romani toccò il culmine a partire dal raggiungimento della maggiore età, nel 1065, di Enrico IV (re di Germania dal 1056, imperatore dal 1084 sino al 1105), deciso a difendere il proprio ruolo, e alla di poco successiva ascesa al pontificato di Ildebrando di Soana, con il nome di Gregorio VII, nel 1073. Questi, eletto per acclamazione (dunque contro le regole stabilite da Niccolò II), inviò legati in Germania per far riconoscere all’episcopato tedesco le proprie ambizioni di primato gerarchico e di rifiuto di ogni ingerenza laica nel governo delle istituzioni ecclesiastiche. I vescovi tedeschi, presso i quali era molto forte un’istanza riformatrice diversa da quella elaborata a Roma, volta a un maggiore e più ordinato controllo delle diocesi, si opposero, sostenuti dal sovrano.

Lo scontro sulle investiture e i Dictatus papae

Tra papato e Impero scoppiò un duro conflitto: nel 1075 Gregorio VII dichiarò nulli tutti i diritti di natura pubblica che i vescovi avevano ottenuto dall’imperatore, le cosiddette “investiture”. Probabilmente nello stesso anno fu elaborato un testo noto come Dictatus papae: 27 proposizioni che affermavano con forza il modello monarchico, stabilendo l’assoluta supremazia del vescovo di Roma sull’intero mondo monastico ed ecclesiastico, l’infallibilità della Chiesa in ambito dottrinale e la facoltà, fra le altre cose, di sciogliere i fedeli dal vincolo di obbedienza dovuto a re e imperatori e di deporre questi ultimi [▶ FONTI]. Era il nucleo di quella che la storiografia ha poi definito “riforma gregoriana” in riferimento a questa specifica fase della più ampia riforma della Chiesa che stiamo descrivendo in queste pagine.

Di fronte a tale presa di posizione, Enrico tentò senza successo di deporre il papa, che per tutta risposta lo scomunicò (1076). La scomunica procurò al re grandi difficoltà interne, perché molti aristocratici ne approfittarono per ribellarsi al suo potere. Enrico fu costretto così a scendere in Italia: raggiunto il papa a Canossa, presso la potente marchesa Matilde, mentre già era in cammino verso Augusta, dove una dieta avrebbe dovuto giudicare l’operato del re, fece pubblica penitenza chiedendo l’assoluzione dai propri peccati [▶ eventi, p. 76]. Gregorio ritirò la scomunica, ma nel 1081 Enrico, tornato in forze in Italia per farsi incoronare imperatore, dovette affrontare nuovamente l’ostilità del papa, che si rifugiò a Castel Sant’Angelo. Per rompere l’assedio Gregorio chiese aiuto ai normanni, che – come vedremo più avanti – controllavano l’Italia medionale. Questi liberarono il papa, ma sottoposero Roma a un tremendo saccheggio (1084); la reazione popolare spinse Gregorio ad accettare il consiglio del duca normanno Roberto e a fuggire a Salerno, dove morì l’anno successivo. Enrico invece fece eleggere un nuovo papa, Clemente III, da cui si fece incoronare imperatore.

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FONTI

I Dictatus Papae

Il termine dictatus fa riferimento all’ars dictaminis, ossia all’atto di comporre testi, e forse questo elenco di proposizioni (I dettami del papa), sprovvisto delle formule usuali dei decreti pontifici e mai promulgato, è uno schema di lettera o di appunti utilizzati come promemoria durante il sinodo romano del 1075, oppure un sommario di una collezione di canoni andata perduta. Certamente però queste proposizioni riassumono perfettamente il pensiero di Gregorio VII e costituiscono un manifesto ideologico della nuova Chiesa riformata. Qui ne sono presentate alcune.

I. La Chiesa romana è stata fondata solamente dal Signore.

II. Solo il pontefice romano è detto a giusto titolo universale.

III. Egli solo può deporre o assolvere i vescovi.

IV. Il suo legato, in un concilio, è superiore a tutti i vescovi anche se è loro inferiore per ordinazione, e può pronunciare contro di loro una sentenza di deposizione. […]

VI. Con quanti sono stati scomunicati da lui, non si può, fra l’altro, abitare sotto il medesimo tetto.

VII. Egli solo può, se opportuno, stabilire nuove leggi, riunire nuove pievi1, trasformare una canonica in abbazia, dividere un vescovato ricco, unire vescovati poveri.

VIII. Egli solo può servirsi delle insegne imperiali. […]

XII. Gli è lecito deporre gli imperatori.

XIII. Gli è lecito trasferire i vescovi da una sede all’altra, secondo la necessità.

XIV. Ha il diritto di ordinare un sacerdote di qualsiasi chiesa, dovunque gli piaccia. […]

XVIII. Le sue sentenze non possono essere revocate da nessuno, ed egli solo può modificare le sentenze di chiunque.

XIX. Non può essere giudicato da nessuno.

XX. Nessuno può condannare chi fa appello alla Sede apostolica.

XXI. Le cause maiores2 di ogni chiesa devono essere portate davanti alla Sede apostolica.

XXII. La Chiesa romana mai ha errato né errerà in perpetuo, come attesta la Sacra Scrittura. […]

XXVI. Non è considerato cattolico chi non concorda con la Chiesa romana.

XXVII. Il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà fatto agli iniqui.


Monumenta Germaniae Historica, Epistolae selectaeII, II, n. 55, trad. E. Vaccari Spagnol (adatt.), in J. Le Goff, Il Basso Medioevo, Feltrinelli, Milano 1967

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  eventi

Il papa a Canossa

Al centro della dominazione costituita da Adalberto Atto (m. 998), aristocratico di origine longobarda, Canossa è un castello dell’Appennino, presso Reggio Emilia. L’ampio dominio degli Atto raggiunse il suo culmine con Matilde (m. 1115), dopo che i successori di Adalberto, Tedaldo, Bonifacio di Toscana e Beatrice, sua madre, moglie prima di Bonifacio e poi di Goffredo il Barbuto, duca dell’Alta Lotaringia, l’ebbero esteso sino a controllare vasti territori in Italia, tra Toscana ed Emilia, e in Lorena.

Nel gennaio 1077 avvenne a Canossa il celebre incontro tra Enrico IV e Gregorio VII. Inaspettatamente il re tedesco non attaccò il castello, come temeva il papa, ma chiese perdono, privo di insegne regie, scalzo, nella neve, digiuno da mattino a sera. Dopo tre giorni Gregorio, convinto dalla mediazione di Ugo, abate di Cluny, e di Matilde, cugina di Enrico, fu costretto a perdonarlo e a rimettere la scomunica. Non sapremo mai quanto il pentimento di Enrico fosse sincero, ma certo con questa penitenza pubblica egli trasse un vantaggio politico. Tornato in Germania, Enrico affrontò vittoriosamente la rivolta di Rodolfo, duca di Svevia, nominato re da alcuni aristocratici tedeschi. Tuttavia, è probabile che Gregorio intendesse l’assoluzione solo sul piano strettamente privato, e infatti non aveva alcuna intenzione di consentire a Enrico di cingere la corona imperiale. Gli eventi successivi dimostrano che quanto accadde a Canossa non mutò radicalmente le sorti del conflitto, ma certamente è un simbolo dei tempi nuovi che si stava­no prefigurando nei rap­porti tra papato e impero.

Una memoria del­l’episodio vive ancora oggi nell’espressione “andare a Canossa”, che indica un gesto di sottomissione forzata.

Il “concordato” di Worms

La lotta per le investiture continuò negli anni successivi. Nel 1111 un accordo stipulato a Sutri tra papa Pasquale II (1099-1118) e l’imperatore Enrico V (1111-25) prevedeva l’impegno del pontefice a imporre ai vescovi la rinuncia a tutti i diritti pubblici a essi collegati; da parte sua l’imperatore rinunciava al diritto di investitura e a qualsiasi intervento nell’assegnazione delle diocesi.

Sembrava la vittoria delle istanze più estreme della riforma, ma l’accordo non funzionò per l’opposizione dei vescovi tedeschi, che non intendevano rinunciare ai privilegi derivanti dall’esercizio di poteri civili [ 7], e di alcuni esponenti della curia romana. Nel 1122, a Worms, Enrico V e i delegati di papa Callisto II (1119-24) regolarono in modo definitivo le elezioni dei vescovi e degli abati dei monasteri imperiali (cioè formalmente dipendenti dal solo imperatore). Si stabilì che nel regno di Germania le nomine vescovili dovessero svolgersi alla presenza del re, che avrebbe consegnato al vescovo eletto, già prima della consacrazione, lo scettro, simbolo del potere temporale e dei doveri verso i sovrano (in precendenza venivano invece consegnati l'anello e il ▶ pastorale);  nel resto dell’Impero il conferimento dei diritti pubblici avrebbe seguito al massimo di sei mesi la consacrazione ecclesiastica, eseguita dai rappresentanti del papa in assenza del sovrano. Sostanzialmente il patto, modernamente definito “▶ concordato”, chiuse questa fase della riforma, consentendo ai vescovi di
mantenere le ricche prerogative pubbliche su delega regia e tuttavia assoggettandoli a
un legame molto forte di dipendenza con il pontefice romano. L’Impero vedeva così
indeboliti, dalla concorrenza concreta del potere pontificio, il proprio carattere sacrale e la dimensione universalistica che risalivano ai Carolingi e agli Ottoni. 

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L’esigenza di un potere politico efficiente

I rapporti fra papato e Impero si attestavano dunque su una situazione di compromesso: l’Impero era sostanzialmente esautorato dalla gestione delle vicende ecclesiastiche, con la perdita del controllo sull’elezione papale; perdeva anche in buona parte il controllo sulla Chiesa tedesca, che veniva ricondotta all’obbedienza a Roma. In compenso, però, otteneva che i poteri pubblici dei vescovi rimanessero sottoposti al suo controllo. In altre parole, pur dovendo accettare il ruolo preminente del papa sul clero tedesco, l’Impero vedeva un indebolimento del potere temporale della Chiesa in Germania.

La storia dei rapporti fra potere religioso e civile, in questa fase della storia europea, è dunque complessa. Bisogna infatti considerare che, sebbene rivendicasse la propria superiorità, l’autorità religiosa aveva bisogno di un potere politico efficiente che garantisse, attraverso la forza militare, il mantenimento di una società pacifica e ordinata, al cui interno le norme e le credenze religiose trovassero il massimo rispetto. Più che sostituirsi al potere civile, quindi, la teocrazia papale spesso intervenne per integrare le mancanze o le insufficienze che, a suo avviso, limitavano il funzionamento degli ordinamenti pubblici. Questo vale sia per l’Impero, come s’è detto, sia per i singoli regni nei quali si articolava il panorama dei poteri dell’Europa tra il XI e il XII secolo. Un esempio di ciò, come vedremo più avanti, è la nascita del Regno di Portogallo che fu creato da papa Alessandro III nel 1179 per frenare gli aspri conflitti tra gli Stati cristiani della penisola iberica, che rallentavano la conquista delle terre governate dai musulmani.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715