Riflettere sulla violenza popolare costituisce una delle maggiori esigenze della storiografia europea. Sotto questo profilo, si è passati da interpretazioni classiche (di tipo marxista1 o altro) ad analisi sempre più approfondite, con un esame ravvicinato, condotto attraverso gli archivi giudiziari, di ciò che furono i gesti, i discorsi, i ruoli e le funzioni di quei gruppi e di quelle comunità tumultuanti tra il XVI e il XVIII secolo. Di queste folle in azione e talvolta in armi, lo storico deve tenere conto, avendo chiaro che ogni rivolta comporta una pluralità di significati e traccia nel proprio tempo e nel proprio ambito una apertura che rende gli indomani diversi dalle vigilie. […]
Nel complesso, tuttavia, ben poche pagine [sono state] scritte su quelle che parteciparono pienamente all’insieme di questi moti sovversivi: le donne. Perché così poco? In primo luogo perché la violenza femminile provoca contraddittoriamente l’immaginario che cerca di esorcizzarla proprio mentre, affascinato, ne prende atto. In questa impasse2 cadono tutti, ivi compresi gli storici che soltanto in ritardo hanno riflettuto sulle forme e le funzioni della sua presenza. […]
Entrare in rivolta significa affrontare una situazione giudicata inammissibile ricorrendo a mezzi collettivi che si pensa possano farsi legittimi e modificare una serie di eventi disastrosi. Si tratta di emergere all’interno della cosa pubblica; ora le donne e la cosa pubblica sono due realtà completamente lontane l’una dall’altra, perlomeno civilmente e giuridicamente. Ci si può quindi chiedere come venga utilizzato questo loro irrompere abituale in un mondo da cui, di diritto, esse sono escluse.
In questo campo, e sulla lunga prospettiva dal Cinquecento al Settecento, i resoconti sulle forme d’intervento femminile si richiamano a due diverse ipotesi. Certi lavori sembrano accettare l’idea secondo cui, durante le epoche medievali e moderne, la vita delle donne fu tanto “libera” quanto quella degli uomini, nell’ambito di una vera e propria flessibilità dei ruoli maschili e femminili, soprattutto presso i lavoratori dell’industria rurale. L’industrializzazione e il passaggio al sistema capitalista provocarono una rottura di una specie di armonia preesistente. Possiamo evidentemente, da questa ipotesi, giungere a una conclusione: le donne sono coinvolte nelle sommosse quanto gli uomini, possono entrarvi di prepotenza.
Un’altra prospettiva, sicuramente più ragionevole, mostra che all’interno delle famiglie la distribuzione del lavoro veniva fatta in maniera asimmetrica e che i ruoli, per “complementari” che potessero sembrare, non erano egualitari, tanto sul piano pratico che sul piano simbolico. A partire da questo punto, la presenza femminile nella sommossa pone nuovi interrogativi e obbliga a diverse risposte. […]
Nella rivolta, le donne operano diversamente dagli uomini; questi ultimi lo sanno e vi acconsentono, ma poi le giudicano. In un primo momento, sono loro stesse ad occupare il proscenio, esortando gli uomini a seguirle, occupando le prime file della sedizione. Gli uomini non appaiono sorpresi da questo momentaneo “mondo alla rovescia”; spinti dalle grida e dagli incitamenti, essi ingrossano la folla con la propria presenza. Sanno bene quanto le donne in prima fila facciano effetto sull’autorità, sanno anche che esse non hanno tanti timori perché sono meno punibili, e che un tale disordine può costituire la premessa per un ulteriore successo del movimento. Lo sanno; accettano questa divisione di ruoli maschili e femminili, ma al tempo stesso la giudicano: le donne, le loro grida, i loro gesti e i loro comportamenti. Attratti, irritati, essi le vedono e le descrivono come fuori di sé, delle smodate, quasi fanatiche.
Vengono così a formarsi socialmente due sistemi doppi che si richiamano e si alimentano l’un l’altro: da un lato, donne che agiscono d’accordo con gli uomini, anche se sanno che saranno poi spinte verso l’eccesso; dall’altro, uomini che non riescono a staccarsi da una visione duale della donna dove essa appare loro come buona dolce, necessaria, ma al tempo stesso duplice, menzognera e alleata del diavolo. Temi del resto diffusi nella letteratura popolare […] che costruisce la dualità femminile definendola insieme angelo e mostro, vita e morte.
Il posto occupato dalle donne nelle rivolte lo si può capire soltanto se si guarda al cuore di quel sistema che le aspira e le rigetta, e dove il giuoco delle immagini è tanto forte quanto quello dei fatti e dell’evidenza del suo agire. Bisogna risalire al cuore di questa embricatura per comprendere meglio le forme della sua presenza. […]
La donna, quando partecipa a una sommossa, esprime una gamma di ruoli; vediamo mescolarsi insieme “dei” volti che la società è solita attribuirle. Madre con il figlio, essa procede in prima linea; promotrice, grida dall’alto delle finestre e lungo i ponti; solidale, trascina i suoi compagni; coinvolta, parla con le autorità, va a trovarle, tratta; furiosa, si scaglia contro quelle – anche donne, eppure donne – che hanno l’aria ostile; sicura del proprio diritto e vogliosa di concretezza, spande il sangue con allegria, attenta al suo gruppo, ne rinfranca l’animo… Sorrette dallo sguardo maschile, le donne si sentono anche impacciate (se non snaturate) da tale sguardo. Eccole tra il giudizio e la sua esagerazione. Esse stesse lo sanno e si aspettano di finire in quel vicolo cieco dove verranno sequestrate e compresse, quello che trascina i loro atti verso una manifestazione tra il furioso e l’isterico. Proprio in quanto escluse dall’esercizio del linguaggio politico tradizionale, esse sanno che le loro parole e gesti finiscono per essere visti sotto il profilo dell’irrazionalità.