19.3 Gli europei e le Americhe

19.3 Gli europei e le Americhe

Inglesi, olandesi e francesi in Nord America

Nelle Americhe, la presenza spagnola, ancora dominante nel Seicento, cominciò a fare i conti con le altre potenze europee, in particolare Francia e Inghilterra. La composizione sociale dei loro nuovi insediamenti era variegata: ne facevano parte mercanti, missionari, coltivatori e soldati, che costruivano piccoli centri fortificati e sviluppavano attività produttive e commerciali, instaurando anche forme di convivenza con le popolazioni native. Da questo punto di vista, i rapporti non furono sempre pacifici, dando luogo a scambi di materie prime e manufatti (principalmente pellicce) ma anche a sanguinosi conflitti con le tribù locali [▶ protagonisti].

I nuovi colonizzatori si diressero prevalentemente verso l’America settentrionale. Le prime colonie francesi furono stabilite a Port Royal (l’attuale Nuova Scozia) e in Québec. L’Inghilterra stabilì invece i primi nuclei coloniali nella Virginia e nel Massachusetts. Anche gli olandesi parteciparono all’impresa, prendendo possesso nel 1623 dell’isola di Manhattan, ma furono spodestati nel 1664 dagli inglesi, che la ribattezzarono New York. A partire dal 1670, poi, esploratori francesi come Jacques Marquette e Robert de la Salle perlustrarono la regione settentrionale dei Grandi Laghi, discendendo poi lungo il fiume Mississippi fino al Golfo del Messico [ 11] .

Luigi XIV, intanto, diede impulso alla colonizzazione di aree considerate cruciali, come il Canada, la Louisiana e le Antille. Nel 1663 sottopose al controllo diretto della corona l’immenso territorio che si estendeva dal Canada e da Terranova fino alla Bassa Louisiana. La gestione della colonia, denominata Nuova Francia, venne affidata a governatori che dovevano sovrintendere alle guarnigioni militari e gestire i rapporti con le popolazioni indigene. Importante fu anche il ruolo degli intendenti, che dovevano far rispettare le leggi e gestire le finanze, secondo le direttive di Colbert. Molti sudditi furono incoraggiati ad attraversare l’oceano e a stabilirsi in America settentrionale: dai 7000 degli anni Settanta del Seicento, la popolazione francese arrivò a 50 000 unità qualche decennio più tardi. Rafforzandosi numericamente, la presenza francese divenne anche maggiormente stanziale, cambiando la fisionomia di un dominio che, fino ad allora, era stato quasi esclusivamente commerciale e che ora puntava invece anche all’occupazione dei territori.

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  protagonisti

I nativi del continente nordamericano

Presenza e consistenza delle popolazioni locali

Nel XVII secolo l’area settentrionale del continente americano era popolata da alcuni milioni di nativi. Anche se i calcoli sono molto difficili, si trattava sicuramente di più di 3 milioni di persone (ma secondo alcuni il loro numero superava addirittura i 10 milioni), divise in diversi gruppi. Si discute ancora oggi sulla divisione delle aree culturali e linguistiche, ma possiamo affermare con una certa approssimazione che i gruppi principali erano gli Irochesi e i Moicani nelle aree boschive del Nordest, i Sioux e i Cheyenne nelle pianure del Nord, gli Apache e i Navajo in quelle del Sud.

Gli europei definirono tutti costoro, quasi indistintamente, “pellirossa”, per via dell’usanza, praticata da alcuni di loro, di dipingersi il viso con l’ocra rossa. Più tardi, a partire dal XVIII secolo, furono anche definiti “indiani delle praterie”.

Le culture “indiane”

Depositari di proprie specificità culturali, politiche e religiose, i nativi nordamericani erano organizzati in tribù autonome e, tranne rare eccezioni, avevano uno stile di vita nomade, sostentandosi con la caccia e la raccolta ma anche attraverso forme di agricoltura.

A partire dal XVI secolo, la presenza spagnola nell’area compresa tra l’attuale Texas e il Nuovo Messico favorì la graduale diffusione dell’uso del cavallo anche presso queste genti. Molti cominciarono ad allevare l’animale, cambiando radicalmente la loro economia e il modo di fare la guerra. Le novità furono poi gradualmente esportate verso nord.

I progressi nell’organizzazione tecnica e militare di questi gruppi favorirono la conservazione di culture autonome, che rimanevano solide nonostante gli spostamenti. Ogni tribù era dotata di una solida identità, visibile soprattutto nei momenti della festa e della vita comunitaria. In generale, la pratica religiosa era basata sulle “visioni” di alcuni personaggi carismatici, detentori di uno spirito-guida.

Furono proprio i momenti rituali – primo fra tutti la “danza del sole” – e le comunanze linguistiche fra gruppi a favorire l’aggregazione e la nascita di “nazioni” (cioè appunto gruppi uniti da usi linguistici e culturali comuni, oltre che da un’organizzazione politica condivisa) che svilupparono varie forme di interazione commerciale e politica con gli europei, cercando faticosamente di conservare la propria identità. La distruzione della “cultura delle praterie” a opera degli europei, cominciata già nel XVII secolo e proseguita nei due secoli successivi, si accompagnò infatti a forme di rappresentazione di tale cultura, da parte dei colonizzatori, del tutto fuorvianti e spesso fondate su una falsa immagine dei nativi, visti unicamente come spietati selvaggi assetati di sangue.

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La colonizzazione inglese

Ancor più consistente fu la presenza inglese, che tra la fondazione del primo insediamento di Jamestown (1607) e la metà del Settecento portò nelle Americhe circa 700 000 coloni (si pensi che dalla Spagna, in tutta l’età moderna, giunsero circa 450 000 persone). I nuovi arrivati si stabilirono principalmente lungo le coste atlantiche. Si trattava spesso di individui che, caduti in povertà nella madrepatria, si erano messi in viaggio alla ricerca di migliori condizioni di vita. Non avendo disponibilità economiche per pagare la traversata, stipulavano contratti di lavoro con i proprietari di grandi appezzamenti di terra, offrendosi come manodopera per periodi compresi fra i quattro e i sette anni, durante i quali erano obbligati a rimanere al servizio di quel proprietario.

Altri coloni, spinti da motivazioni religiose, si mettevano al seguito di predicatori che promettevano loro di poter professare la fede cristiana in maniera autentica e radicale, senza dover sottostare ai precetti della Chiesa anglicana. Tale fu il caso dei Pilgrim Fathers (i “padri pellegrini”, come vennero denominati in seguito), un gruppo di puritani inglesi che nel 1620 si imbarcò dal porto di Plymouth su una nave denominata Mayflower  [▶ cap. 17.3] (una seconda imbarcazione con lo stesso nome sarebbe partita nove anni più tardi) e arrivò dopo due mesi di viaggio al porto di Cape Cod, raggiungendo poi il cuore del Massachusetts, dove fondò una nuova Plymouth [ 12].

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I rapporti con i nativi non furono facili, oscillando fra conflittualità e collaborazione. A mano a mano che nacquero nuovi insediamenti (l’intera area conobbe una grande crescita demografica grazie ai nuovi arrivi degli anni successivi) emersero le prime tensioni, che sfociarono anche in scontri armati. In altri casi, però, gli scambi di materie prime, cibo e conoscenze furono la base su cui instaurare rapporti più pacifici: la stessa colonia di Jamestown – dopo decenni di tensioni, rappresaglie e sangue – finì per espandersi integrando i superstiti delle tribù dei Powhatan, insieme ad altri gruppi di origine africana, mentre la colonia fondata dai sopravvissuti del Mayflower ebbe un rapido sviluppo anche grazie a un sapiente sfruttamento degli insegnamenti dei nativi, abili nella coltivazione e nella caccia. Anche le divisioni fra i coloni erano frequenti e, già alla fine degli anni Quaranta, si tradussero in episodi di intolleranza e violenza di cui furono vittime soprattutto donne indifese, accusate di stregoneria.

La nascita della Gran Bretagna e l’impero coloniale

Fino alla seconda metà del Seicento la presenza dell’Inghilterra nel Nuovo Mondo rimase forte, anche se la ridefinizione dell’organizzazione interna del paese ebbe un peso sugli equilibri planetari. La nuova dinastia Orange, salita al trono a seguito della Gloriosa Rivoluzione [▶ cap. 17.6], preservò la centralità del parlamento ma fu anche capace di rafforzarsi sul piano militare. Gli investimenti negli armamenti, infatti, le permisero di giocare un ruolo fondamentale nella ristrutturazione degli equilibri continentali, soprattutto in virtù di un impegno attivo contro la Francia di Luigi XIV. L’appoggio dei whigs, propugnatori degli interessi del commercio marittimo, consentì lo sviluppo di una politica estera aggressiva e finalizzata ad agevolare gli scambi con tutti i mezzi possibili. Crebbero le manifatture e i traffici, ma anche l’agricoltura conobbe dei significativi progressi, favorendo l’inizio di una corposa esportazione di cereali.

Una nuova crisi dinastica portò al trono nel 1702 Anna Stuart (1702-14), seconda figlia di Giacomo II e Anna Hyde, che ereditò anche la Scozia e l’Irlanda. Cinque anni più tardi, l’Union Act stabilì l’unificazione formale delle corone di Scozia e Inghilterra (l’Irlanda si sarebbe aggiunta nel 1801), dando inizio al Regno di Gran Bretagna che, anche attraverso l’adozione di bandiera e moneta uniche, rafforzò le condizioni necessarie all’affermazione di un impero coloniale, destinato ad allargarsi nei secoli successivi fino a raggiungere il continente “nuovissimo”, definito anche Oceania.

Le prime conferme della crescente influenza del paese si ebbero con la fine della Guerra di successione spagnola nel 1713 e con la consegna definitiva del trono di Spagna a Filippo di Borbone [▶ cap. 18.4]: gli inglesi, come abbiamo visto, giocarono un ruolo importante nel conflitto facendo valere le loro ragioni nelle spartizioni finali, ottenendo fra le altre cose il controllo di Gibilterra e di ampi territori dell’America settentrionale sottratti alla Francia. Tuttavia si trovarono ancora una volta senza eredi al trono,visto che Anna non aveva avuto figli rimasti in vita. A risolvere il problema fu – secondo una prassi ormai consolidata – il parlamento che, nello stesso 1714, consegnò la corona a Giorgio I di Hannover (1714-27), cugino di secondo grado della regina. A lui risalgono le origini della dinastia Windsor, ancora oggi formalmente al potere.

Le 13 colonie e il rapporto con i nativi

A inizio XVIII secolo, gli inglesi arrivarono ad avere 13 nuclei coloniali sul litorale atlantico (l’ultima fu la Georgia, fondata nel 1732), indipendenti l’uno dall’altro ma tutti sottoposti all’autorità della monarchia e del parlamento della madrepatria. Presto insorsero contrasti con i francesi, in particolar modo lungo la valle del fiume Ohio. La corona britannica, infatti, non aveva stabilito confini a Occidente per i migranti, rinunciando di fatto a regolare i rapporti con i mercanti transalpini che operavano in quell’area.

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Un ruolo fondamentale fu giocato anche dalle popolazioni locali, che si intromisero nella contesa fra europei per lo sfruttamento delle risorse decidendo di schierarsi con gli uni o con gli altri. Non essendo infatti inferiori nel numero, conservavano un peso politico ed economico di rilievo. La loro attività più sviluppata era la caccia, che consentiva di scambiare pelli di daino, alce, procione, scoiattolo e castoro con i mercanti del vecchio continente, in cambio di armi e alcol. Gli inglesi non godettero di molte simpatie: l’occupazione delle terre e l’imposizione di nuove tecniche agricole avevano alterato il paesaggio e minato lo stile di vita dei nativi, basato su un rapporto più diretto con la natura. In questo scenario olandesi, francesi e spagnoli facevano a gara per aggiudicarsi il monopolio delle trattative, godendo di atteggiamenti più collaborativi da parte dei nativi. I soli irochesi costituirono una vera eccezione, mostrando aperta ostilità ai francesi e conducendo iniziative come le Beaver Wars (le “guerre dei castori”), per frenare la decimazione di animali che avevano rappresentato per loro un’importante fonte di sostentamento [▶ fenomeni].

  fenomeni

L’espansione del potere degli irochesi

Il termine “irochesi” (iroquois) era usato dai francesi per identificare le cinque tribù di nativi dei cayuga, mohawk, oneida, onondaga e seneca. Questa popolazione si riconosceva invece nel nome di haudenosaunee, ovvero il “popolo della lunga casa”, riferendosi sia all’estensione del territorio controllato sia alle tipiche abitazioni di legno, sviluppate in lunghezza e adatte a ospitare molte persone.

Alla fine del XVI secolo costituirono una lega, alla quale in seguito si unirono i tuscarora. Diedero così vita a un organismo influente sul piano politico e commerciale, capace di tenere sotto scacco le altre tribù dell’area.

Gli europei nell’America centromeridionale

Al centro del continente rimaneva attiva l’egemonia spagnola. A dispetto della fase di declino attraversata dalla madrepatria, fra il XVII e il XVIII secolo la colonizzazione si estese anche a nord del Messico, fino a includere i territori degli attuali Texas e California, mentre a sud i confini furono allargati dalla cordigliera delle Ande all’area più interna.

Nuovi insediamenti urbani si svilupparono intorno ai centri ricchi di minerali (Potosí, nell’attuale Bolivia, era definita la “città dell’argento”), ora meglio sfruttati grazie a nuove tecniche che velocizzarono le operazioni di estrazione. La presenza di coloni favorì la crescita dell’artigianato tessile e della lavorazione delle pelli. L’agricoltura, prevalentemente estensiva, si fondava sull’impiego massiccio degli schiavi africani, ma come forza lavoro ebbero un peso rilevante anche gli indios sopravvissuti allo sterminio e le popolazioni di sangue misto, dal momento che erano vincolati ai grandi proprietari da contratti iniqui che prevedevano remunerazioni bassissime. Nell’area del Rio de la Plata si sviluppò la città di Buenos Aires, che divenne uno snodo di cruciale importanza per gli scambi con la madrepatria [ 13].

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Le isole delle Antille, in gran parte sottratte agli spagnoli da inglesi, francesi e olandesi, si specializzarono nella coltivazione della canna da zucchero, il cui consumo andava allora crescendo in Europa. I lavoratori delle piantagioni, condotti quasi esclusivamente dal commercio triangolare, venivano sfruttati in maniera brutale e molti morivano prematuramente, ma permettevano di produrre a prezzi molto più bassi dello zucchero che proveniva dall’Oriente.

L’indebolimento del Portogallo ebbe ripercussioni anche in America. I suoi possedimenti in Brasile furono esposti all’intraprendenza delle potenze europee, in particolar modo della Compagnia olandese delle Indie Occidentali. Gli olandesi riuscirono addirittura a imporre il loro dominio su alcune zone costiere per una ventina d’anni, prima di esserne scacciati quando i portoghesi riottennero l’indipendenza. L’economia del paese si basava principalmente sulla canna zucchero, coltivata nelle regioni costiere del Nord, ma alla fine del Seicento furono scoperte nuove miniere d’oro e di diamanti nella regione meridionale di Minas Gerais. I filoni si esaurirono abbastanza rapidamente, ma la forte immigrazione creata dalla ricerca di ricchezza contribuì al popolamento del Sud e delle zone interne, dove si creò una certa opposizione alle richieste fiscali della madrepatria.

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La nascita di Nuova Granada

Nell’ampia area del Golfo del Messico abbracciata dal Vicereame della Nuova Spagna acquisì sempre maggiore importanza l’attività estrattiva di materie prime e metalli preziosi. In particolar modo furono l’oro e l’argento a stimolare le fortune della produzione di gioielli, che arrivarono sui mercati di tutto il pianeta. Il Perù attraversò un momento delicato sotto il controllo del viceré José de Armendáriz (1670-1740), che combatté la corruzione presente in maniera massiccia sul territorio, aprendo anche nuove possibilità di scalata sociale alle nobiltà indigene. Nella porzione settentrionale dello sterminato territorio peruviano si formò nel 1717 una nuova entità politica denominata Nuova Granada, comprendente i territori odierni di Venezuela, Ecuador, Colombia, Panama, organizzata intorno alle  audiencias di Quito, Bogotá e Panama. 

Le missioni gesuitiche

La dominazione europea non fu unicamente improntata allo sfruttamento violento delle risorse e delle popolazioni locali. L’attività missionaria dei gesuiti in America Latina, da questo punto di vista, rappresentò un altro volto del colonialismo europeo. I gesuiti infatti non miravano soltanto a impartire un’educazione religiosa cristiana, ma anche a costruire concreti strumenti politico-istituzionali volti a difendere le popolazioni indigene dalla brutale politica di sfruttamento dei colonizzatori. A partire dal 1610, nella regione del Paraguay, furono create diverse comunità o “riduzioni” (reducciones) ispirate ai precetti evangelici e organizzate sui principi dell’eguaglianza sociale e della condivisione dei beni

Ogni comunità costituiva un’entità economicamente e culturalmente autosufficiente, con minimi contatti con il mondo esterno. Questo destò l’ostilità dei coloni europei delle zone costiere, che intendevano sfruttare in maniera più intensiva la forza lavoro costituita dai moltissimi indios residenti nelle riduzioni. Ben presto i nativi, convertiti, istruiti e addestrati dai gesuiti al lavoro agricolo e artigianale grazie a metodi formativi che combinavano produttività e svago [ 14], divennero preda ambitissima dei cacciatori brasiliani di schiavi, i bandeirantes. Le riduzioni furono allora spostate più a sud, in zone meglio difendibili grazie alla presenza delle cascate dell’Iguaçu. Nelle regioni dei fiumi Uruguay e Rio Grande do Sul, inoltre, i gesuiti organizzarono una vera e propria milizia armata che nel 1641 riuscì a sconfiggere in campo aperto le truppe dei bandeirantes.

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19.4 La nuova fisionomia del pianeta

Reti commerciali e poteri politici

In virtù dell’espansione europea nel mondo, che abbiamo descritto nelle pagine precedenti, nel corso del Seicento gli scambi commerciali mondiali si svilupparono su lunghissime distanze. La curiosità suscitata dalle esperienze di mercanti e viaggiatori è ben testimoniata dalla fortuna editoriale di diari di viaggio come il Giro del mondo (1699) dell’avventuriero napoletano Giovanni Francesco Gemelli Careri  [▶ FONTI, p. 600] o testi come la Nuova divisione della terra (1684) del medico francese François Bernier, che soggiornò per lungo tempo in Asia, offrendo anche i suoi servigi agli imperatori moghul. In quest’opera semiseria, pubblicata sul Journal des Sçavans, il primo periodico europeo di informazione scientifica, per la prima volta l’umanità era suddivisa su basi fisionomiche, considerando la forma del corpo, del viso e il colore della pelle.

A stimolare la crescita dei traffici commerciali non furono soltanto l’intraprendenza dei mercanti dell’Europa occidentale e le dinamiche globali della domanda e dell’offerta di merci e lavoro, che rendevano conveniente per gli europei esportare prodotti finiti in cambio di materie prime e schiavi. Come abbiamo visto parlando delle compagnie commerciali, fu fondamentale la capacità delle potenze colonizzatrici di sottomettere politicamente enormi territori e di favorire o ostacolare le tratte, secondo i propri interessi, con la forza militare.

La presenza di solidi apparati statali agì invece in senso opposto, mettendo in discussione, in alcuni casi, la supremazia dell’Europa occidentale. Se sulle traiettorie di connessione fra Europa, Asia e Africa le compagnie commerciali inglesi, olandesi e francesi trovarono uno spazio di azione notevole a causa della debolezza degli imperi ottomano, safavide e moghul, più a oriente esse dovettero fare i conti con apparati statali più solidi e tendenzialmente egemonici:

  • la Cina, che promosse a sua volta una politica di espansione capace di influenzare le economie del Tibet, del Turkestan e della Mongolia, inserite in un sistema commerciale e produttivo che faceva capo alle direttive della dinastia Qing;
  • il Giappone, che nell’era Tokugawa restrinse drasticamente i rapporti con l’esterno e la libertà di commercio con i mercanti stranieri;
  • la stessa Russia, che allargò la sua sfera di influenza fino al cuore dell’Asia raggiungendo con i suoi operatori l’Iran, l’Afghanistan, l’Uzbekistan e l’India settentrionale, oltre alla regione compresa fra il Mar Caspio, il Lago d’Aral e il fiume Ural e precludendo ampie aree del continente asiatico alla colonizzazione degli Stati dell’Europa occidentale.
In virtù di questi nuovi equilibri stabilitisi fra le grandi potenze europee e asiatiche si ridefinì anche il ruolo del Mediterraneo, centro nevralgico di scambi ma anche coacervo di tensioni politico-religiose che contrapponevano gli Stati islamici alle monarchie cristiane.

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FONTI

La Cina e il Messico visti con gli occhi di un europeo

Nato nel 1651 in una famiglia calabrese di origine aristocratica, Giovanni Francesco Gemelli Careri completò i suoi studi giuridici a Napoli. Per reagire alle frequenti frustrazioni professionali, partì per un viaggio intorno al mondo nel giugno del 1693. Visitò l’Asia Minore, l’India, la Cina e le Filippine; attraversò quindi il Pacifico raggiungendo il Messico, prima di tornare nel Mezzogiorno della penisola italiana dopo più di cinque anni. La sua opera principale, il Giro del mondo, fu pubblicata in più volumi a partire dal 1699 e divenne subito popolare nonostante le accuse di plagio e di aver inventato molti passaggi.

La magnificenza, e ’l gran numero dell’opere pubbliche della Cina, non viene solamente dalla grande spesa, che vi si fa, ma dalla loro grande industria1 altresì. Essi fanno ogni sorte di lavori meccanici, con molto meno strumenti e con più facilità, che noi, e sanno ottimamente imitare i lavori degli stranieri […]. [...] dentro la sola Città di Pekin2 vi sono più di 10 m[ila] famiglie, che non hanno altro mistiere, per vivere, che vender solfanelli3, per accendere il fuoco: altrettante, che vivono col raccogliere solamente per le strade, e dalle spazzature, stracci di drappi di seta, e di tela, di cottone, e di canape, petacci4 di carta, ed altre cose simili; che poi lavano, e nettano5, e vendono ad altri, che l’adoprano per diversi usi profittevoli.

L’abito degl’Indiani6 d’oggidì è un giubbone corto, con braghe larghe. Sulle spalle portano un mantello di varj colori, detto Tilma: che attraversato da sotto il braccio destro, si liga sopra la spalla sinistra, facendosi un gran nodo dell’estremità. Usano, in vece di scarpe, zoccoli, come quei de’ Religiosi Francescani, andando parimenti colle gambe, e co’ piedi nudi. […] Le donne usano tutte il Guaipil (ch’è come un sacco) sotto la Cobixa, ch’è un panno bianco di sottil tela di cottone; al quale ne aggiungono un’altro sulle spalle, quando sono in cammino, che poi in Chiesa lo si accomodano in testa. […]

Sono tutti, così maschi, come femmine, di color fosco7, quantunque studiano di difendersi dal freddo le guancie, e renderle morbide, con erbe peste8. Sogliono anche imbrattarsi la testa di loto9 liquido, come quello che si usa per la fabbrica; credendo, che vaglia10 a rinfrescargliela; e a rendere i capelli neri, e morbidi; onde veggonsi per la Città molte contadine sporcate in tal maniera. Le Metizze però, Mulate11, e Nere (che compongono la maggior parte di Mexico) non potendo portar manto12, né vestire alla Spagnuola; e, sdegnando dall’altro canto l’abito dell’Indiane; vanno per la Città stravagantemente vestite; ponendosi una come gonna, attraversata sulle spalle, o in testa, a guisa di mantello, che fa parerle tante diavole.


G.F. Gemelli Careri, Giro del Mondo, Venezia, t. IV (1719) e t. VI (1728)

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I nuovi flussi migratori

In uno scenario del genere le migrazioni rispondevano di volta in volta a motivazioni economiche, politiche o religiose. Le opportunità offerte dal commercio e dalle nuove terre colonizzate giocarono un ruolo importante ma, anche in questo caso, i poteri statali e imperiali ebbero un peso decisivo nello stimolare o forzare spostamenti di masse di persone. L’Asia sudorientale, per esempio, fu raggiunta da circa un milione di cinesi che contribuirono a riplasmare il territorio con la loro intraprendenza commerciale, intensificando al contempo i contatti con le imprese mercantili europee. I contadini emigrarono invece verso le regioni interne (Tibet, Turkestan, Mongolia, Guizhou e Yunnan). Il continente americano, come abbiamo visto, fu raggiunto da inglesi e francesi che ridisegnarono la geografia del settore settentrionale, al pari di quanto avevano fatto gli spagnoli e i portoghesi con quello centromeridionale.

I flussi migratori non produssero sempre gli stessi effetti, dando luogo a forme di integrazione ma anche di esclusione. Nelle Americhe nacquero società multietniche dominate da gruppi di stirpe europea e in molte aree rimasero ben riconoscibili, anche nel lungo periodo, i gruppi di ascendenza africana o le comunità indigene. Del tutto specifici furono anche gli sviluppi delle migrazioni in Asia: basti pensare al fatto che proprio la dinastia Qing – paradossalmente non “cinese” nel senso proprio del termine, perché nata dall’invasione mancese – mantenne una strategia di ostilità verso le comunità “meticce” nate dall’incrocio fra cinesi e altri popoli, giudicate potenzialmente destabilizzanti e inclini alla ribellione; i sudditi cinesi poterono quindi sempre godere di trattamenti preferenziali rispetto a quelli “macchiati” da sangue forestiero.

L’incontro/scontro fra religioni e culture

L’interazione fra gruppi umani fu accompagnata anche dall’incontro-scontro fra culture e religioni diverse [▶ FONTI, p. 602]. Furono in particolar modo i religiosi cristiani e islamici a fare proseliti, seguendo le direttive delle autorità statali o percorrendo le stesse vie dei mercanti. I missionari si trovarono però a dover affinare le loro strategie: dottrine e credenze portate dall’esterno, infatti, potevano rivelarsi conciliabili con consuetudini e riti locali, perciò nacquero forme di sincretismo che rendevano il nuovo messaggio religioso più comprensibile per le società che ne erano destinatarie; ma potevano anche entrare in conflitto con la mentalità e le credenze locali. Da questo stato di cose derivarono spesso aspre diatribe: nel mondo cattolico, per esempio, le pratiche dei gesuiti provocarono malcontento e contestazioni, visto che i membri della Compagnia erano particolarmente inclini a sottoporre il cristianesimo a vere e proprie metamorfosi pur di renderlo accettabile da altre culture.

Fu così che si arrivò alla condanna di fenomeni come la santeria o i riti cinesi. Con il primo termine gli spagnoli indicavano in maniera dispregiativa un culto diffuso originariamente in area caraibica (e più tardi nel Messico e nel Nord America) che associava il cattolicesimo a elementi di religioni professate dagli schiavi africani, affiancando la venerazione dei santi cristiani a pratiche animistiche, fondate cioè sulla credenza che la natura sia dotata di spiritualità [ 15]. I riti cinesi erano invece atti di venerazione verso la famiglia imperiale, Confucio o altri eroi del passato, approvati dai gesuiti perché giudicati non inconciliabili con il cristianesimo: la controversia che ne conseguì coinvolse domenicani e francescani, estendendosi anche ad analoghe pratiche introdotte in Giappone (riti giapponesi) e India (riti malabarici, dal nome di una regione costiera dell’India, il Malabàr).

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FONTI

Muratori e il “cristianesimo felice” nelle missioni gesuite

L’erudito modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1759) pubblicò nel 1743 il saggio Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, lodando una forma di organizzazione che somigliava, a suo avviso, al cristianesimo primitivo e sostenendo che la felicità degli indios non derivava solo dalla loro inclinazione naturale, ma anche dall’azione civilizzatrice dei gesuiti. Studi recenti hanno però dimostrato che l’autore selezionò accuratamente le fonti (principalmente lettere degli stessi gesuiti) per affermare la sua tesi, perciò la sua opera più che un saggio critico appare invece uno scritto utopico, carico degli stereotipi che affollavano le descrizioni del Nuovo Mondo prodotte dagli europei.


Spettacolo degno de gli occhi del Paradiso […] si è il mirare lo stato e la maniera del vivere de’ novelli Cristiani del Paraguai, per quello che concerne lo spirito e l’Anime loro. Quella gente, che ne’ tempi andati, […] somigliante alle fiere, conveniva con esse ne’ boschi, altro non meditava che vendette e stragi tra loro stessi, e maggiormente contro a i vicini; più che d’altro ghiotta di carne umana, perduta nelle ubbriacchezze e nell’impudicizia, e camminando nuda non sapea che fosse rossore e vergogna; questi lupi, questi orsi, dico, ora sono mansueti agnelli […]. Così ha ridotto que’ Popoli la potente mano e grazia di Dio, e la saggia e piissima educazione loro data da i Padri della Compagnia di Gesù […].

Non è minor della spirituale la felicità temporale, che godono gl’Indiani Fedeli nelle Provincie dell’America Meridionale: felicità, che molti de gli Europei avvezzi al lusso, alla grandiosità e a i piaceri, non sapranno riconoscere fra quella povera gente, ma che considerata secondo i veri princìpi, effettivamente ivi si truova, e in qualche parte può dir molto superiore allo stato di molti Popoli d’Europa […].


L.A. Muratori, Il cristianesimo felice nelle missioni de’ padri della Compagnia di Gesù nel Paraguai, Venezia 1752

Lo scambio di conoscenze e tecnologie

I legami stabiliti fra l’Europa e gli altri continenti favorirono anche la distribuzione dei saperi a livello planetario. Al contrario di quanto si è pensato per lunghissimo tempo, tuttavia, il vecchio continente assorbì dal resto del mondo più di quanto riuscì a dare, non solo dal punto di vista religioso, culturale, economico e politico, ma anche sul piano etnologico, astronomico, cartografico e tecnologico. Grazie all’opera di esploratori, mercanti e missionari, infatti, gli europei furono capaci di conoscere quello che accadeva in altre parti del globo e queste nuove conoscenze divennero a loro volta uno stimolo per l’elaborazione di nuove teorie e metodi di pensiero e lavoro [▶ fenomeni, p. 604].

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Lo sfruttamento dell’ambiente e il cambiamento degli ecosistemi

Il movimento su vasta scala di oggetti, persone, conoscenze e tecnologie produsse anche nuove forme di interazione fra ecosistemi e società umane. I migranti viaggiavano spesso con animali addomesticati al seguito e finivano per trasportare anche agenti patogeni che si abbattevano sulle comunità ospitanti, facendo insorgere epidemie capaci, in alcuni casi, di decimare interi gruppi umani.                     

Gli avventurieri, i missionari, i mercanti e i pionieri sfruttarono inoltre l’ambiente naturale arando campi, distruggendo foreste, drenando paludi e raccogliendo le acque in bacini artificiali, prelevando pietre e metalli, allevando bestiame, cacciando e pescando. La disponibilità di risorse favorì la crescita demografica, ma già nel corso del Settecento nei diversi continenti si acquisì una crescente consapevolezza del fatto che i processi innescati stavano generando effetti negativi difficilmente reversibili. Così, mentre nuove merci arricchivano le fiere internazionali e i grandi porti, la loro produzione e importazione causava conseguenze catastrofiche sulla flora e sulla fauna: nel tempo, ampie aree montane o pianeggianti furono devastate dal dissesto idrogeologico e molte specie animali si ridussero drasticamente o arrivarono all’estinzione.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715