Come se si trattasse di tessere tutte uguali di un unico mosaico, gli storici hanno selezionato e accostato documenti provenienti dagli archivi centrali dei governi, con la fiducia di essere di fronte ad un processo storico unilineare fondato su un’unica trama. La categoria di Stato (con o senza aggettivi) è stata poi estesa a qualsiasi forma di organizzazione del potere del passato, dalla polis greca al “regno del Benin dopo il 1400”. A questa categoria, che originariamente è stata delineata in modi contraddittori da alcuni pensatori politici del XVII secolo, appartiene la tesi sulla separazione tra la società e gli organi della sovranità, indicati in un unico luogo o centro di potere. Ma in questo modo la storia politica e la storia delle istituzioni hanno utilizzato in senso retrospettivo, per descrivere le società di antico regime, categorie e forme elaborate e istituzionalizzate soltanto nel XIX secolo. Di fatto lo Stato ha avuto una breve vita, non solo nella storia del mondo ma anche in quella dell’Europa che di questa forma di potere è stata il laboratorio. In realtà le società preindustriali erano il risultato dell’interazione tra innumerevoli centri di potere, diritti e privilegi, giurisdizioni e sistemi normativi diversi e conflittuali. […]
Osservato dal centro, [l’edificio statale] può apparire come costruito intorno ad un unico “terminale” di tutti i rapporti di potere, o come il risultato logico di una progettualità capace di mettere radici nella realtà locali più eterogenee e di rendere uniformi i contesti più diversi. Ma a ben vedere si tratta quasi sempre di un miraggio, alimentato da un’ideologia che ha avuto un peso limitato nel tempo lungo dei secoli XV-XVIII, ed è poi diventata teoria politica e discorso storiografico. Le ricerche che adottano questa prospettiva focalizzano la costruzione di una astrazione (lo Stato moderno), descrivono un percorso storico il cui punto di arrivo è già noto e comunicano un falso senso di familiarità col passato. Nello stesso tempo, la categoria di Stato moderno – una costruzione intellettuale del XIX secolo – è diventata sempre più indeterminata per l’uso eccessivo che ne è stato fatto.
Possiamo certamente considerare come indicatori della costruzione statuale la fiscalità, l’esercito, la burocrazia; ma non possiamo limitarci a misurarne il peso assoluto. Ben più significativi sono le morfologie della loro ramificazione territoriale, l’attività pragmatica degli ufficiali, gli elementi consuetudinari e i conflitti che al livello locale ne fissano i caratteri ne stravolgono il significato. I privilegi e le prerogative che a qualsiasi scala innervavano questo universo di relazioni e di scambi costituivano nello stesso tempo il limite e la condizione della politica regia. […]
Nel Regno di Napoli, [per esempio], le dinamiche politiche sono legate ai comportamenti, all’ampiezza e alla flessibilità dei gruppi familiari; alla loro capacità di costruire alleanze e radicamenti territoriali articolati, di redistribuire risorse e cariche. [La politica] si esprimeva in schieramenti fazionari e solidarietà verticali che orientavano anche la mobilità sociale e le trasformazioni istituzionali. Il rapporto aristocrazia-feudalità/“Stato” è definito da questi elementi e anche da iniziative selettive della monarchia nei confronti dell’aristocrazia […]. Eppure, in qualche caso, anche davanti a questi contesti, il paradigma esplicativo per gli storici (il motore ultimo della trasformazione storico-politica) è lo “Stato assoluto”, e lo “Stato feudale assolutistico”.
La diversa configurazione storica dei poteri locali determina gli esiti divergenti dei casi di Milano e Napoli. Nel Regno di Napoli, dove si costituisce una burocrazia dipendente o controllata dai viceré, i poteri baronali sono in contrasto con la crescita dell’autorità statuale. Il conflitto di interessi tra i baroni e il sovrano trova espressione nelle congiure nobiliari e nelle fazioni, che sottopongono la struttura statuale a spinte dissolutrici. Viceversa a Milano - dove gli spagnoli ereditano lo Stato visconteo-sforzesco, fondato su un accordo tra signore e ceti dominanti cittadini, ed hanno soltanto il governatore e l’amministrazione militare - il rafforzamento del patriziato porta ad una gestione privatistica dello Stato che non mette in discussione la sovranità regia. I patriziati cittadini lombardi sono infatti interessati al mantenimento di una struttura statuale regionale che ne garantisca l’autonomia. Nel confronto con la Spagna, a Milano un’aristocrazia cittadina con propri criteri di legittimazione vede riconosciuti i propri privilegi in quanto locali.
Nelle monarchie composite (ma dappertutto in antico regime), la creazione di nuovi organi istituzionali al livello del governo centrale si accompagna all’uso del patronage per assicurare la lealtà delle élite provinciali. Gli interessi e le prerogative di famiglie e fazioni sono riconosciuti come “pubblici” con la concessione di privilegi. In modo analogo si può porre il problema della burocrazia: come distinguere tra amministrazione pubblica e esercizio delle prerogative dei detentori delle cariche? Potremmo ricordare la nitida affermazione di Francesco Gucciardini: «Una delle fortune maggiori che possino avere gli uomini è avere occasione di mostrare che, a quelle cose che loro fanno per interesse proprio, siano stati mossi per causa di pubblico bene1». In nessuna società dell’Europa moderna è possibile trovare una catena di funzioni gerarchiche fra centro e periferia, e la burocrazia (ma la parola è anacronistica), per la sua natura patrimoniale, costituiva forse più il limite che lo strumento del sovrano. Ma è probabile che la distorsione ottica di molta storiografia sullo Stato stia proprio nel considerare le forme più diffuse di aggregazione e di potere come altrettanti limiti del potere del sovrano. In tutta l’Europa meridionale, nell’età moderna, di fatto, il forte sviluppo della burocrazia è indissociabile dal peso determinante dei legami clientelari o familiari nella società.
Il livello del governo, sia centrale sia locale, era definito da una pluralità di istituzioni con gradi diversi di autonomia e di sovrapposizione nell’esercizio del potere. In generale, gli elementi che definivano la politica erano la giurisdizione (intesa come sfera di potere e di privilegio più che come procedura), il patronage, la negoziazione e la mediazione. L’idea del bene pubblico era connessa a quella della composizione di privilegi, prerogative, interessi particolari, come condizioni della politica e del governo; bene comune e privilegi o diritti particolari erano indissociabili nell’ordinamento giuridico dell’età moderna. La politica era una prerogativa di una pluralità di istituzioni e gruppi.
Nei rapporti fra centro e periferia, il potere che derivava alle élite da un patto reciproco poteva essere usato sia per esercitare pressioni sul re e sui suoi ministri, sia per estendere il proprio dominio sulle comunità locali. Più in generale, le élite locali (nobili e notabili) potevano avere di volta in volta un rapporto di oppressione o di protezione verso i contadini (locatari, piccoli proprietari etc.); potevano essere in aperto contrasto con gli ufficiali regi o fedeli servitori del re. La posizione ambigua delle élite locali era legata sia alla loro collocazione discontinua tra comunità e Stato, tra periferia e centro, sia al loro coinvolgimento in schieramenti conflittuali che caratterizzavano l’assetto dei poteri locali.
Il tema più ampio, di grande rilievo analitico, è quello dei mediatori, legati allo Stato perché è da esso che derivano una parte della propria autorità e potere, e nello stesso tempo in competizione con lo Stato nelle società locali. Quello che potremmo definire il paradigma della gentry2 non esaurisce in effetti i modi della comunicazione tra centro e periferia; sia perché l’élite locale era diversificata socialmente e spazialmente, sia perché la comunicazione poteva avvenire attraverso gruppi corporati, e il sovrano e le magistrature dello Stato potevano avere di volta in volta come interlocutori diretti le comunità e unità insediative minori, i mercanti, i contadini, le parentele. Lo stesso tema del patronage va visto sia nei rapporti tra centro e periferia sia in quelli che strutturano le relazioni sociali, economiche e amministrative locali. Ma l’attenzione della storiografia per le periferie è stata molto limitata, e [si è quasi esclusivamente focalizzata sugli] elementi nobiliari o feudali visti come il vero ostacolo alla centralizzazione.
tratto da Visto dalla periferia. Formazioni politiche di antico regime e Stato moderno, in Storia d’Europa, vol. IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di M. Aymard, Einaudi, Torino 1995