2. Lo Stato moderno: forze aggreganti e forze disgreganti

PERCORSO 2

Lo Stato moderno: forze aggreganti e forze disgreganti

Il rafforzamento dell’apparato statale è ancora oggi indicato dalla storiografia come una caratteristica peculiare che accomuna diverse formazioni territoriali europee nel corso della prima età moderna. Tuttavia il concetto di Stato rischia di apparire astratto e talvolta riscontrabile più nelle teorie dei pensatori che nella prassi governativa. Per questa ragione gli studiosi si sono concentrati su alcune dinamiche specifiche della centralizzazione del potere nel corso dei secoli XV-XVII, evidenziando le barriere contro le quali i monarchi talvolta si scontrarono. Riportiamo di seguito alcuni passi delle analisi sviluppate dallo storico polacco Antoni Mączak e dell’italiano Osvaldo Raggio, che guardano con attenzione al ruolo dei legami di fiducia personale, alle clientele, alla sopravvivenza dei poteri locali. Ne emerge un quadro in cui le continuità fra Medioevo ed età moderna sono talvolta più rilevanti delle discontinuità.

TESTO 1
Antoni Mączak

Il patronage e i pericoli per il potere assoluto

Mączak si concentra sui rapporti di protezione personale (patronage), che sono tipici della società europea di antico regime. Lo Stato moderno, secondo lui, possiede le risorse necessarie per crearsi nuovi “protetti” (o “clienti”), riuscendo a intaccare, almeno in parte, le reti di solidarietà preesistenti.

Tra 1500 e 1700, lo Stato fu tra le forme di organizzazione sociale a più rapida crescita. La sua capacità di accumulare risorse crebbe più rapidamente di altri fattori di cambiamento sociale ed economico quali popolazione, produttività del lavoro, capitale commerciale, urbanizzazione. Nel corso del XVII secolo molto indicatori di carattere economico e demografico registrarono una diminuzione, mentre le strutture burocratiche e militari si rafforzarono. Quello che chiamiamo “Stato” subì cambiamenti qualitativi sostanziali in elementi strutturali quali le élite del potere, il sistema di coercizione, la distribuzione dei profitti. Tuttavia, gli Stati europei, nel processo di ampliamento delle proprie attività e nella lotta per il monopolio del potere e dell’autorità, si trovarono a dover fronteggiare ostacoli di tipo diverso e risolsero i loro problemi in modo altrettanto diverso. […]

Ancora recentemente, il termine patronage1 veniva usato dagli storici soprattutto in riferimento alla Chiesa romana e alle arti (per cui si parlava di mecenati e artisti). In seguito, però, il rapporto protettore-cliente fu indagato in maniera più approfondita dagli studiosi delle istituzioni e della politica dell’inizio dell’età moderna. E la terminologia che lo riguarda è usata tanto ampiamente quanto liberamente. Poiché alcuni studiosi della società sono inclini a individuare nel “clientelismo feudale” (vassallaggio) un preciso stadio di questo tipo di relazione, molti studiosi dei primi tempi dell’età moderna sottolineano la differenza esistente tra il formale e rituale vincolo di vassallaggio e feudo, e la relazione nuova e informale che ne prende il posto. […]

Il patronage degli inizi dell’età moderna non fa eccezione alla regola generale secondo cui la principale posta in gioco erano le risorse pubbliche e l’autorità (quale ne fosse il significato nei diversi ambienti). Sotto questo aspetto si possono individuare due tipi principali di protettori: il titolare dell’ufficio, il funzionario regio, quello che si potrebbe chiamare il “vicino potente”. Ruoli diversi richiedevano strategie diverse, è però probabile che si trattasse perlopiù di casi misti. Con l’ampliamento della macchina statale, il tipo “vicino potente” andò perdendo importanza. I grandi proprietari terrieri avevano bisogno dei loro vicini di livello sociale inferiore: piccola nobiltà e popolani dovevano gestirne le proprietà, accompagnarli nelle occasioni ufficiali e in privato, combattere al loro servizio, tesserne ininterrottamente le lodi. Un seguito imponente aveva la funzione di esibire la grandezza del magnate, assicurarne il successo nelle faide o semplicemente nella competizione che lo opponeva ad altri signori per il raggiungimento dei massimi livelli sociali. Questi protettori offrivano agli appartenenti alla piccola nobiltà diverse opportunità sul piano sociale e direttamente economico, e sul piano familiare si prestavano a far da padrino2 ai figli dei loro clienti. Ne “addomesticavano” […] i figli e le figlie, ne combinavano i matrimoni, li aiutavano a dirimere le controversie di carattere legale. La funzione del protettore consisteva nel mantenere l’ordine nella società locale e nel garantire sicurezza ai suoi clienti. […]

Con l’ampliamento dell’amministrazione statale, a livello centrale e locale, fu la struttura burocratica, e non più la proprietà della terra, a regolare il meccanismo del patronage. I “servitori” del re poterono esercitare il patronage grazie all’ampio e facile accesso alle diverse risorse che lo Stato offriva. Se l’ufficio era proprietà (o meglio in affitto) di chi lo esercitava, e l’“ufficiale” era leale nei confronti dei superiori, non c’era proprio nulla di strano che richiedesse una lealtà di tipo personale ai subordinati, né che li reclutasse nell’ambito dei “suoi uomini”. L’aristocrazia di corte aveva particolari opportunità di crearsi ampie clientele a spese dello Stato. Lo Stato centralizzato era perfettamente compatibile con questo patronage burocratico; era ciò nondimeno assai probabile che si verificasse una situazione conflittuale se il re vi individuava un pericolo per il suo potere assoluto.

Molti e importanti ministri del re si mostrarono assai abili nel manovrare il patronage. In Inghilterra, William Cecil Lord Burghley3 fu un grande protettore e un leale servitore che utilizzava la sua rete clientelare a sostegno della politica della regina Elisabetta. Nella generazione seguente, il duca di Buckingham diede alla propria clientela un’impronta assai più parassitaria (sebbene la sua funzione di statista sia oggetto di grandi dispute), e si mostrò eccellente mediatore allo scopo di monopolizzare quella che era la fonte principale di tutte le grazie: il sovrano. […] La caduta di un ministro o di un favorito comportava la distruzione della sua rete clientelare, salvo non fosse rilevata dal suo successore. Anche i cortigiani meno importanti si creavano clientele alla loro portata, ma i clienti avevano una certa libertà di scelta e quando fiutavano il pericolo cambiavano protettore. […]

L’intera storia dell’Europa dei primi tempi dell’età moderna si configura come una sequenza di rivolte e rivoluzioni, che però raramente si presentarono dirette contro lo Stato in quanto tale. […] Gli storici del XVI e XVII secolo hanno individuato e analizzato diversi periodi caratterizzati da un numero elevato di rivolte. Nei primi anni della Riforma (1514 ca.-1525) scoppiarono rivolte popolari in paesi piuttosto diversi, quali Ungheria, Ducato di Prussia, Catalogna; mentre la guerra dei contadini si estese a varie regioni della Germania (1524-1526). […]

Diverse erano le motivazioni delle rivolte in ambiente urbano e rurale; né tutte potevano definirsi come opposizione violenta allo Stato. I casi in cui riguardarono un vasto territorio furono piuttosto limitati, [come quello della] Germania intorno al 1525 […]. Un minimo comun denominatore delle rivolte potrebbe individuarsi nella difesa del localismo, intesi sia come comunità, sia come gruppo d’interesse determinato, contro il centralismo, Volendo azzardare un’affermazione di carattere generale, si potrebbe dire che il successo dello Stato dipese dalla sua capacità di aggiogare4 le élite locali [e quindi le loro reti di patronage] al proprio carro; intendendo con ciò la corte del principe e burocrazia centrale, ovvero la ragion di Stato nel senso più ampio5. Nonostante i disordini di carattere locale, lo Stato dei primi tempi dell’epoca moderna ottenne sotto questo rispetto un discreto successo: quanto più era oneroso, tanto più aveva da offrire a burocrati e dipendenti statali. Contrapposizione e conflitto potenziale tra centralismo e localismo non vennero unicamente ridotti e disinnescati spalancando le porte dell’amministrazione statale a individui e gruppi privilegiati; lo Stato diventò anche un grande acquirente e un importante datore di lavoro. […]

Per riassumere: lo Stato dei primi tempi dell’età moderna indebolì i suoi rivali interni persuadendo o comperando (il che non significa necessariamente corrompendo) le élite locali, e collocando in una rete fortemente centripeta i localismi, sull’onda di un processo che nel XVI e XVII secolo era appena agli inizi.


tratto da Lo Stato come protagonista e come impresa: tecniche, strumenti, linguaggio, in Storia d’Europa, vol. IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di M. Aymard, Einaudi, Torino 1995

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TESTO 2
Osvaldo Raggio

Il potere delle periferie e i limiti dello Stato

A differenza di Mączak, Raggio propone l’immagine di uno Stato più debole, non sempre capace di affermare le sue prerogative e costretto a confrontarsi con una periferia che, invece, conserva una grossa porzione del suo potere. Gli storici, secondo lui, hanno commesso l’errore di proiettare nel passato una forma di governo (più spiccatamente “assolutista”) messa in pratica solo a partire dall’Ottocento.

Come se si trattasse di tessere tutte uguali di un unico mosaico, gli storici hanno selezionato e accostato documenti provenienti dagli archivi centrali dei governi, con la fiducia di essere di fronte ad un processo storico unilineare fondato su un’unica trama. La categoria di Stato (con o senza aggettivi) è stata poi estesa a qualsiasi forma di organizzazione del potere del passato, dalla polis greca al “regno del Benin dopo il 1400”. A questa categoria, che originariamente è stata delineata in modi contraddittori da alcuni pensatori politici del XVII secolo, appartiene la tesi sulla separazione tra la società e gli organi della sovranità, indicati in un unico luogo o centro di potere. Ma in questo modo la storia politica e la storia delle istituzioni hanno utilizzato in senso retrospettivo, per descrivere le società di antico regime, categorie e forme elaborate e istituzionalizzate soltanto nel XIX secolo. Di fatto lo Stato ha avuto una breve vita, non solo nella storia del mondo ma anche in quella dell’Europa che di questa forma di potere è stata il laboratorio. In realtà le società preindustriali erano il risultato dell’interazione tra innumerevoli centri di potere, diritti e privilegi, giurisdizioni e sistemi normativi diversi e conflittuali. […]

Osservato dal centro, [l’edificio statale] può apparire come costruito intorno ad un unico “terminale” di tutti i rapporti di potere, o come il risultato logico di una progettualità capace di mettere radici nella realtà locali più eterogenee e di rendere uniformi i contesti più diversi. Ma a ben vedere si tratta quasi sempre di un miraggio, alimentato da un’ideologia che ha avuto un peso limitato nel tempo lungo dei secoli XV-XVIII, ed è poi diventata teoria politica e discorso storiografico. Le ricerche che adottano questa prospettiva focalizzano la costruzione di una astrazione (lo Stato moderno), descrivono un percorso storico il cui punto di arrivo è già noto e comunicano un falso senso di familiarità col passato. Nello stesso tempo, la categoria di Stato moderno – una costruzione intellettuale del XIX secolo – è diventata sempre più indeterminata per l’uso eccessivo che ne è stato fatto.

Possiamo certamente considerare come indicatori della costruzione statuale la fiscalità, l’esercito, la burocrazia; ma non possiamo limitarci a misurarne il peso assoluto. Ben più significativi sono le morfologie della loro ramificazione territoriale, l’attività pragmatica degli ufficiali, gli elementi consuetudinari e i conflitti che al livello locale ne fissano i caratteri ne stravolgono il significato. I privilegi e le prerogative che a qualsiasi scala innervavano questo universo di relazioni e di scambi costituivano nello stesso tempo il limite e la condizione della politica regia. […]

Nel Regno di Napoli, [per esempio], le dinamiche politiche sono legate ai comportamenti, all’ampiezza e alla flessibilità dei gruppi familiari; alla loro capacità di costruire alleanze e radicamenti territoriali articolati, di redistribuire risorse e cariche. [La politica] si esprimeva in schieramenti fazionari e solidarietà verticali che orientavano anche la mobilità sociale e le trasformazioni istituzionali. Il rapporto aristocrazia-feudalità/“Stato” è definito da questi elementi e anche da iniziative selettive della monarchia nei confronti dell’aristocrazia […]. Eppure, in qualche caso, anche davanti a questi contesti, il paradigma esplicativo per gli storici (il motore ultimo della trasformazione storico-politica) è lo “Stato assoluto”, e lo “Stato feudale assolutistico”.

La diversa configurazione storica dei poteri locali determina gli esiti divergenti dei casi di Milano e Napoli. Nel Regno di Napoli, dove si costituisce una burocrazia dipendente o controllata dai viceré, i poteri baronali sono in contrasto con la crescita dell’autorità statuale. Il conflitto di interessi tra i baroni e il sovrano trova espressione nelle congiure nobiliari e nelle fazioni, che sottopongono la struttura statuale a spinte dissolutrici. Viceversa a Milano - dove gli spagnoli ereditano lo Stato visconteo-sforzesco, fondato su un accordo tra signore e ceti dominanti cittadini, ed hanno soltanto il governatore e l’amministrazione militare - il rafforzamento del patriziato porta ad una gestione privatistica dello Stato che non mette in discussione la sovranità regia. I patriziati cittadini lombardi sono infatti interessati al mantenimento di una struttura statuale regionale che ne garantisca l’autonomia. Nel confronto con la Spagna, a Milano un’aristocrazia cittadina con propri criteri di legittimazione vede riconosciuti i propri privilegi in quanto locali.

Nelle monarchie composite (ma dappertutto in antico regime), la creazione di nuovi organi istituzionali al livello del governo centrale si accompagna all’uso del patronage per assicurare la lealtà delle élite provinciali. Gli interessi e le prerogative di famiglie e fazioni sono riconosciuti come “pubblici” con la concessione di privilegi. In modo analogo si può porre il problema della burocrazia: come distinguere tra amministrazione pubblica e esercizio delle prerogative dei detentori delle cariche? Potremmo ricordare la nitida affermazione di Francesco Gucciardini: «Una delle fortune maggiori che possino avere gli uomini è avere occasione di mostrare che, a quelle cose che loro fanno per interesse proprio, siano stati mossi per causa di pubblico bene1». In nessuna società dell’Europa moderna è possibile trovare una catena di funzioni gerarchiche fra centro e periferia, e la burocrazia (ma la parola è anacronistica), per la sua natura patrimoniale, costituiva forse più il limite che lo strumento del sovrano. Ma è probabile che la distorsione ottica di molta storiografia sullo Stato stia proprio nel considerare le forme più diffuse di aggregazione e di potere come altrettanti limiti del potere del sovrano. In tutta l’Europa meridionale, nell’età moderna, di fatto, il forte sviluppo della burocrazia è indissociabile dal peso determinante dei legami clientelari o familiari nella società.

Il livello del governo, sia centrale sia locale, era definito da una pluralità di istituzioni con gradi diversi di autonomia e di sovrapposizione nell’esercizio del potere. In generale, gli elementi che definivano la politica erano la giurisdizione (intesa come sfera di potere e di privilegio più che come procedura), il patronage, la negoziazione e la mediazione. L’idea del bene pubblico era connessa a quella della composizione di privilegi, prerogative, interessi particolari, come condizioni della politica e del governo; bene comune e privilegi o diritti particolari erano indissociabili nell’ordinamento giuridico dell’età moderna. La politica era una prerogativa di una pluralità di istituzioni e gruppi.

Nei rapporti fra centro e periferia, il potere che derivava alle élite da un patto reciproco poteva essere usato sia per esercitare pressioni sul re e sui suoi ministri, sia per estendere il proprio dominio sulle comunità locali. Più in generale, le élite locali (nobili e notabili) potevano avere di volta in volta un rapporto di oppressione o di protezione verso i contadini (locatari, piccoli proprietari etc.); potevano essere in aperto contrasto con gli ufficiali regi o fedeli servitori del re. La posizione ambigua delle élite locali era legata sia alla loro collocazione discontinua tra comunità e Stato, tra periferia e centro, sia al loro coinvolgimento in schieramenti conflittuali che caratterizzavano l’assetto dei poteri locali.

Il tema più ampio, di grande rilievo analitico, è quello dei mediatori, legati allo Stato perché è da esso che derivano una parte della propria autorità e potere, e nello stesso tempo in competizione con lo Stato nelle società locali. Quello che potremmo definire il paradigma della gentry2 non esaurisce in effetti i modi della comunicazione tra centro e periferia; sia perché l’élite locale era diversificata socialmente e spazialmente, sia perché la comunicazione poteva avvenire attraverso gruppi corporati, e il sovrano e le magistrature dello Stato potevano avere di volta in volta come interlocutori diretti le comunità e unità insediative minori, i mercanti, i contadini, le parentele. Lo stesso tema del patronage va visto sia nei rapporti tra centro e periferia sia in quelli che strutturano le relazioni sociali, economiche e amministrative locali. Ma l’attenzione della storiografia per le periferie è stata molto limitata, e [si è quasi esclusivamente focalizzata sugli] elementi nobiliari o feudali visti come il vero ostacolo alla centralizzazione.


tratto da Visto dalla periferia. Formazioni politiche di antico regime e Stato moderno, in Storia d’Europa, vol. IV, L’età moderna. Secoli XVI-XVIII, a cura di M. Aymard, Einaudi, Torino 1995

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Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Lo Stato ha avuto una breve vita, non solo nella storia del mondo ma anche in quella dell’Europa.

b) La distorsione ottica di molta storiografia sullo Stato sta proprio nel considerare le forme più diffuse di aggregazione e di potere come altrettanti limiti del potere del sovrano.

c) La principale posta in gioco (agli inizi dell’età moderna) erano le risorse pubbliche e l’autorità.

d) Il successo dello Stato dipese dalla sua capacità di aggiogare le élite locali [e quindi le loro reti di patronage] al proprio carro.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


  Il patronage e i pericoli per il potere assoluto Il potere delle periferie e i limiti dello Stato
TESI    
ARGOMENTAZIONI    
PAROLE CHIAVE    
Dal dibattito storiografico all’ARGOMENTAZIONE INDIVIDUALE

L’Enciclopedia Treccani definisce il lemma “Stato” come segue: «Ente dotato di potestà territoriale, che esercita tale potestà a titolo originario, in modo stabile ed effettivo e in piena indipendenza da altri enti» (www.treccani.it/enciclopedia/stato)

Metti in relazione questa definizione con i due brani di storiografia che hai letto.


a) Come vengono descritte dai due autori le tensioni tra localismo e centralismo, poteri particolari e potere sovrano, centro e periferia?

b) Nella società di oggi permangono i conflitti tra Stato e poteri locali? Riporta un esempio che ti sembra significativo.


Rispondi alle domande sul quaderno in massimo 15 righe.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715