PERCORSI STORIOGRAFICI

percorsi storiografici

PERCORSO

TESTI

TEMI

1 La conquista dell’America e la visione dei vinti

p. 476

N. Wachtel, Poche centinaia di spagnoli e il crollo degli imperi tratto da La visione dei vinti

– L’arrivo degli europei e la fine del normale corso delle cose

– Le ragioni militari, religiose e psicologiche del tracollo

T. Todorov, Colombo e la scoperta dell’Altro tratto da La conquista dell’America.

– L’Altro e l’importanza del punto di vista

– Lo sguardo di Colombo e i caratteri dei nativi

2 Lo Stato moderno: forze aggreganti e forze disgreganti 

p. 482

A. Mączak, Il patronage e i pericoli per il potere assoluto tratto da Lo Stato come protagonista e come impresa: tecniche, strumenti, linguaggio

– L’importanza dei rapporti di protezione personale in antico regime

– Le risorse dello Stato e la riduzione dei conflitti localistici

O. Raggio, Il potere delle periferie e i limiti dello Stato tratto da Visto dalla periferia

– Stato moderno: un modello storiografico ancora valido?

– Un potere debole e frammentato

3 La Controriforma: libri, lingua e censura

p. 488

G. Fragnito, La Chiesa e il primato del latino tratto da Censura romana e usi del volgare

– La Chiesa e il volgare: una serie di norme contraddittorie

– Proibire la Bibbia e le preghiere in volgare

M. Roggero, La Chiesa, le storie d’amore e le avventure cavalleresche tratto da Le carte piene di sogni

– La censura delle narrazioni di larga diffusione

– Le storie fantastiche e le inquietudini dei moralisti

PERCORSO 1

La conquista dell’America e la visione dei vinti

L’incontro fra europei e nativi del Nuovo Mondo rappresentò un grosso trauma per gli abitanti di entrambi i continenti. I popoli che affrontarono queste trasformazioni furono indotti anche a interrogarsi sulla propria identità e la propria cultura: la scoperta dell’Altro imponeva infatti di trovare risposte ad ansie diffuse, che riguardavano il destino di imperi e civiltà secolari. Chi abbiamo incontrato? Come dobbiamo reagire? Che ne sarà di noi? Queste erano le domande dominanti su entrambe le sponde dell’oceano. Lo storico francese Nathan Wachtel e il teorico della letteratura e filosofo bulgaro-francese Tzvetan Todorov hanno analizzato il problema concentrandosi su due punti di vista differenti: quello degli indios del Nuovo Mondo e quello dei conquistatori europei

TESTO 1
Nathan Wachtel

Poche centinaia di spagnoli e il crollo degli imperi

Wachtel mette al centro della sua indagine il trauma vissuto dagli indios venuti a contatto per la prima volta con gli europei. Spaziando dalle fonti letterarie alla cultura materiale, esplora aree del continente americano molto lontane fra loro mettendo in evidenza i punti di connessione fra le visioni del mondo di aztechi, inca e maya. Nella “paralisi” dei nativi di fronte agli spagnoli la religione giocò un ruolo cruciale (i conquistatori furono spesso considerati come creature divine), ma altrettanto decisive furono le questioni militari e quelle politiche.

Gli indios scoprirono l’Europa attraverso poche centinaia di soldati spagnoli che li sconfissero. Due civiltà – che fino ad allora si ignoravano del tutto – si scontravano, e colpisce il fatto che per gli indios “l’incontro” sia avvenuto in un’atmosfera di prodigio e di magia. Forse, i presagi sono stati inventati dopo, tuttavia – anche in questo caso – dimostrano lo sforzo compiuto dai vinti per interpretare l’avvenimento.

Come interpretare, per quanto ci riguarda, le diverse reazioni degli aztechi, dei maya e degli inca all’arrivo dei bianchi? Bisogna impostare il problema con correttezza. Troppo spesso, infatti, prigionieri delle nostre categorie mentali, ci compiaciamo al pensiero che gli indios abbiano preso gli spagnoli per degli dei e ci soffermiamo, sempre con una certa compiacenza, sul lato pittoresco del fatto. Ma non c’è nulla di pittoresco. […] Ogni società comporta una certa visione del mondo, una struttura mentale retta da una particolare logica. Gli avvenimenti storici, come i fenomeni naturali, si inseriscono nell’ordine di spiegazione dei miti e delle cosmogonie propri a ciascuna cultura. Tutto quanto fa eccezione a quest’ordine razionale (un animale il cui comportamento sembri strano, un avvenimento inusitato, ecc.) corrisponde all’irrompere di forze soprannaturali o divine nel mondo profano. Da quel momento, la razionalità quotidiana si frantuma e, al contatto con l’ignoto, nasce l’angoscia.

Ora, l’intrusione degli europei in una società vissuta isolata per secoli costituisce un avvenimento che spezza il normale corso delle cose. […] Non tutti gli indios hanno scambiato gli spagnoli per degli dei, ma tutti, davanti alla loro straordinaria apparizione, si sono posti la domanda: dei o uomini? Nelle diverse società prese in considerazione vi è qualcosa di generale: l’irruzione dell’ignoto. Tutti i documenti - aztechi, maya, inca - descrivono l’aspetto strano (barba, cavalli) e la potenza (scrittura, fulmini) degli spagnoli. Comunque, la visione del mondo degli indios implicava la possibilità che i bianchi fossero degli dei. E questa possibilità significava, sempre, dubbio o angoscia. Tuttavia, la risposta alla domanda - dei o uomini? - poteva essere positiva o negativa: e fu diversa, a seconda delle particolari circostanze della storia locale. […]

Poiché cerchiamo qui di capire i fatti nella prospettiva delle reazioni psicologiche dei vinti, non entriamo nei dettagli della storia militare della conquista. Tuttavia, ci si pone il problema di individuare le cause della sconfitta degli indios: come mai poche centinaia di spagnoli sono riusciti a distruggere, e con tanta rapidità, imperi potenti come quelli degli aztechi e degli inca?

Si pensa, dapprima, a cause d’ordine tecnico: la superiorità delle armi europee. E la civiltà del metallo contro la civiltà della pietra: spade d’acciaio contro lance d’ossidiana, armature metalliche contro tuniche foderate di cotone, archibugi e cannoni contro archi e frecce e, infine, cavalleria contro fanteria. Tuttavia, questo fattore tecnico sembra essere di limitata importanza: le armi da fuoco di cui gli spagnoli disponevano ai tempi della conquista erano poche e a tiro estremamente lento. Il loro effetto fu soprattutto psicologico: infatti, come i cavalli, seminarono il panico tra gli indios. Perlomeno all’inizio, quando gli spagnoli fruivano ancora del vantaggio della sorpresa: ma durò poco, e sappiamo che gli indios riuscirono ad adeguare i loro metodi di combattimento al tipo d’armi di cui gli europei erano dotati.

Più difficile è valutare le cause psicologiche e religiose della disfatta. Per quanto riguarda la natura divina degli spagnoli (almeno nei casi in cui fu ammessa), si tratta di un dato rapidamente superato. Ma c’è da ricordare la concezione molto particolare che gli indios avevano della guerra e che riveste un aspetto essenzialmente rituale: il fine del combattimento non era eliminare l’avversario, ma farlo prigioniero per sacrificarlo agli dei. Così è accaduto che i messicani si siano spesso lasciati sfuggire la vittoria nel tentativo di catturare gli spagnoli anziché ucciderli. Considerati da questo punto di vista, i metodi di combattimento dei bianchi costituivano uno scandalo assolutamente incomprensibile. Inoltre, per gli indios la guerra finiva, nella maggior parte dei casi, con un trattato che dava ai vinti il diritto di conservare i loro costumi e usi in cambio d’un tributo. Evidentemente, gli indios non potevano nemmeno immaginare che i cristiani si proponessero di distruggere la loro religione e le loro leggi. In questo senso, la visione che avevano del mondo contribuì alla disfatta.

Del resto, anche la vittoria degli spagnoli si deve, soprattutto, alle divisioni politiche che indebolivano questi imperi. Difatti, sono gli stessi indios a fornire a Cortés e a Pizarro la massa per i loro eserciti di conquista, una massa numerosa quanto quella degli eserciti indigeni che combattevano1. In Messico, i totonaques da poco sottomessi si ribellarono a Moctezuma e si allearono agli spagnoli che, più tardi, trovarono nei tlaxcalani un appoggio decisivo. […]

Certo, i fattori religiosi e politici si mescolano strettamente tra loro. […] Si può quindi dire che la scelta politica riveste una forma religiosa o, al contrario, che il fattore religioso prende corpo attraverso la congiuntura politica. In effetti, al momento dell’arrivo degli spagnoli, la dimensione religiosa pervade a tutti i livelli le società indigene d’America: ne permea la vita economica, l’organizzazione sociale e le lotte politiche.


tratto da La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola, Einaudi, Torino 1977 (ed. orig. 1971)

 >> pagina 478 
TESTO 2
Tzvetan Todorov 

Colombo e la scoperta dell’Altro

Todorov chiarisce, fin dal titolo della sua opera (La conquista dell’America), che quella europea non fu una “scoperta” ma una “conquista”. La volontà degli europei di comprendere l’universo indigeno è infatti subordinata all’esigenza di affermare un dominio militare, politico, economico e religioso sul Nuovo Mondo. I conquistatori si interessano alle popolazioni native solo per trovare conferme di conoscenze già acquisite in precedenza, per capire quali sono i loro punti deboli, per individuare le risorse naturali da sfruttare. La scoperta dell’Altro ricopre quindi la funzione di uno specchio: aiuta chi guarda a riconoscersi, a rendersi conto delle proprie peculiarità e dei propri tratti distintivi. Colombo non riesce a comprendere realmente i nativi, ma si limita solo a evidenziare gli aspetti che li fanno apparire simili o differenti dagli europei.

Voglio parlare della scoperta che l’io fa dell’Altro. L’argomento è vastissimo. Non appena lo abbiamo formulato nei suoi termini generali, lo vediamo subito suddividersi in molteplici categorie e diramarsi in infinite direzioni. Possiamo scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ciascuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto ciò che non coincide con l’io: l’io è un altro. Ma anche gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono, che unicamente il mio punto di vista – per il quale tutti sono laggiù, mentre io sono qui – separa e distingue realmente da me. Posso concepire questi altri come un’astrazione, come un’istanza della configurazione psichica di ciascun individuo, come l’Altro, l’altro o l’altrui in rapporto a me; oppure come un gruppo sociale concreto al quale noi non apparteniamo. Questo gruppo a sua volta può essere interno alla società; le donne per gli uomini, i ricchi per i poveri, i pazzi per i “normali“: ovvero può esserle esterno, può consistere in un’altra società, che sarà – a seconda dei casi – vicina o lontana: degli esseri vicinissimi a noi sul piano culturale, morale, storico, oppure degli sconosciuti, degli estranei, di cui non comprendiamo né la lingua né i costumi, così estranei che stentiamo, al limite, a riconoscere la nostra comune appartenenza ad una medesima specie. Scelgo questa problematica dell’Altro esterno e lontano, un po’ arbitrariamente e perché non si può parlare di tutto in una sola volta, per cominciare una ricerca che non potrà mai essere conclusa. […]

Colombo parla degli uomini che vede solo perché, dopotutto, fanno parte anch’essi del paesaggio. I suoi accenni agli abitanti delle isole sono sempre inframmezzati alle sue notazioni sulla natura: fra gli uccelli e gli alberi vi sono anche gli uomini. «Nell’interno vi sono molte miniere di metalli e innumerevoli abitanti» (Lettera a Santángel, febbraio-marzo 1493). «Continuamente in queste scoperte fino ad allora era andato di bene in meglio, tanto per le terre, gli alberi, i frutti e i fiori, quanto per gli abitanti» (Giornale di bordo, 25 novembre 1492). «Quattro o cinque di queste radici […] sono molto gustose ed hanno lo stesso sapore delle castagne. Ma qui sono molto più grandi e migliori di quelle che aveva trovato nelle altre isole, e l’Ammiraglio dice di averne trovate anche in Guinea, ma qui erano grandi come una coscia. Afferma anche, di questa gente, che eran tutti robusti e valenti» (16 dicembre 1492). È chiaro in che modo vengono introdotti gli esseri umani: per mezzo di una comparazione, che serve a descrivere le radici. «I marinai videro che le donne maritate portavano mutandoni di cotone, ma non le ragazze, eccettuate alcune che avevano già diciott’anni. C’erano dei mastini e altri piccoli cani, e videro un uomo che aveva nel naso un pezzo d’oro, che poteva avere la grandezza di mezzo castellano1» (17 ottobre 1492): questa menzione dei cani in mezzo alle osservazioni sulle donne e sugli uomini indica bene il registro nel quale questi saranno integrati.

Significativa è la prima menzione degli indiani: «Subito videro gente nuda» (11 ottobre 1492). Era vero, ma è rivelatore che la prima caratteristica di quel popolo che colpisce Colombo sia la mancanza di abiti, i quali a loro volta sono un simbolo di cultura (di qui l’interesse di Colombo per le persone vestite, che avrebbero potuto essere un po’ meglio assimilate a ciò che si sapeva del Gran Khan; è un po’ deluso di aver trovato solo dei selvaggi).

Fisicamente nudi, gli indiani – agli occhi di Colombo – sono anche privi di ogni proprietà culturale: sono caratterizzati, in qualche modo, dalla mancanza di costumi, di riti, di religione (e in ciò vi è una certa logica, perché per un uomo come Colombo gli esseri umani si vestono in conseguenza della loro espulsione dal paradiso terrestre, che è poi all’origine della loro identità culturale). C’è inoltre la sua abitudine di vedere le cose così come gli conviene di vederle; ma è significativo che questa abitudine lo porti a costruirsi l’immagine della nudità spirituale. «Mi parve che fossero gente molto povera di ogni cosa, – scrive in occasione del primo incontro con gli indiani; e aggiunge: – Mi parve che non abbiano alcuna religione» (11 ottobre 1492). «Questa gente è molto mite e timida, nuda, come ho detto, senza armi né legge» (4 novembre 1492). «Non hanno religione e non sono idolatri» (27 novembre 1492). Già privi di lingua, gli indiani si rivelano anche sprovvisti di leggi e di religione; e se hanno una cultura materiale, essa non attira l’attenzione di Colombo più di quanto lo interessi la loro cultura spirituale: «Essi portavano delle balle di cotone filato, pappagalli, lance e altre cosette, che sarebbe noioso mettere per iscritto» (13 ottobre 1492): l’importante, naturalmente, era la presenza dei pappagalli. L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è, nella migliore delle ipotesi, quello del collezionista di curiosità, e non si accompagna mai a un tentativo di comprensione: osservando per la prima volta delle costruzioni in muratura (nel corso del suo quarto viaggio, sulle coste dell’Honduras), si accontenta di ordinare che ne venga staccato un pezzo da conservare per ricordo.

Non desta meraviglia che tutti questi indiani culturalmente vergini, pagina bianca in attesa dell’iscrizione spagnola e cristiana, si somiglino fra loro. «Tutta questa gente è affine a quella già menzionata. Sono dello stesso tipo, egualmente nudi e della medesima statura» (17 ottobre 1492). «Vennero molti di questi abitanti, che sono simili a quelli delle altre isole, nello stesso modo nudi e dipinti» (22 ottobre 1492). «Questa gente, dice l’Ammiraglio, ha gli stessi caratteri e gli stessi costumi di quella incontrata prima» (1° novembre 1492). «Costoro sono simili agli altri che avevo trovato, dice l’Ammiraglio, e credono anch’essi che noi siamo venuti dal cielo» (3 dicembre 1492). Gli indiani si assomigliano perché sono tutti nudi, privi di caratteri distintivi. Misconoscimento, dunque, della cultura degli indiani e loro assimilazione alla natura; con queste premesse, non possiamo certo attenderci di trovare negli scritti di Colombo un ritratto particolareggiato della popolazione. L’immagine ch’egli ce ne offre obbedisce, in parte, alle stesse regole che presiedono alla descrizione della natura: Colombo ha deciso di ammirare tutto, e quindi in primo luogo la bellezza fisica. «Erano molto ben fatti, con corpi molto belli e volti molto graziosi» (11 ottobre 1492). «Tutti altissimi, gente veramente bella» (13 ottobre 1492). «Erano gli uomini e le donne più belli che avevano trovato sinora» (16 dicembre 1492). Un autore come Pietro Martire, che riflette fedelmente le impressioni (o i fantasmi) di Colombo e dei suoi primi compagni, si compiace di dipingere scene idilliache. Così, ad esempio, descrive le indiane che vengono a salutare Colombo: «Erano tutte belle. Si sarebbe creduto di vedere quelle splendide naiadi o quelle ninfe delle fontane tanto celebrate nell’antichità. Tenendo in mano grandi ciuffi di palme, che portavano mentre eseguivano le loro danze accompagnandole col canto, piegarono le ginocchia e li presentarono all’adelantado2».

Questa ammirazione, aprioristicamente decisa, si estende anche al campo morale. Sono brava gente, dichiara di primo acchito Colombo, senza preoccuparsi di giustificare la sua affermazione. «Sono il miglior popolo del mondo e soprattutto il più dolce» (16 dicembre 1492). «L’Ammiraglio afferma che è impossibile credere che qualcuno abbia mai visto un popolo con tanto cuore» (21 dicembre 1492). «Assicuro le Vostre Altezze che al mondo non c’è gente o terra migliori di queste» (25 dicembre 1492): il facile nesso istituito fra uomini e terre indica assai bene in quale spirito scrive Colombo, e quanta poca fiducia si debba attribuire al carattere descrittivo delle sue affermazioni. Del resto, quando conoscerà un po’ meglio gli indiani, egli cadrà nell’estremo opposto, senza per questo fornire informazioni più degne di fede: naufrago in Giamaica, si vede «circondato da un milione di selvaggi crudelissimi e a noi ostili» (Lettera rarissima, 7 luglio 1503). Certo, si resta colpiti dal fatto che Colombo non trova – per caratterizzare gli indiani – aggettivi diversi dalla coppia buono/cattivo, che in realtà non dice niente: non solo perché queste qualità dipendono da un determinato punto di vista, ma anche perché corrispondono a stati momentanei e non a caratteristiche permanenti; non sono il frutto del desiderio di conoscere, ma dell’apprezzamento pragmatico di una situazione.


tratto da La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino 1984 (ed. orig. 1982)

 >> pagina 481 

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) La visione che [gli indios] avevano del mondo contribuì alla disfatta.

b) Fisicamente nudi, gli indiani – agli occhi di Colombo – sono anche privi di ogni proprietà culturale.

c) La vittoria degli spagnoli si deve, soprattutto, alle divisioni politiche che indebolivano questi imperi.

d) L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è quello del collezionista di curiosità.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


  Poche centinaia di spagnoli e il crollo degli imperi Colombo e la scoperta dell’Altro 
TESI    
ARGOMENTAZIONI    
PAROLE CHIAVE    
Cooperative Learning

«L’atteggiamento di Colombo nei confronti di questa cultura è […] quello del collezionista di curiosità». Dal Nuovo Mondo arrivarono piante, animali, oggetti (primi tra tutti quelli in oro) e purtroppo persino uomini per stupire le corti europee. La classe si divide in gruppi e ciascun gruppo ricerca online o in biblioteca informazioni relative a uno o più ritrovati materiali provenienti dalle spedizioni nelle Americhe.


competenza DIGITALE I gruppi realizzano una presentazione digitale (utilizzando Powerpoint –Prezi – Thinglink – Sway) che illustri la storia del reperto, della pianta, dell’animale, la sua eventuale collocazione in una collezione, la ricezione che ebbe nella società europea. Tempo di relazione alla classe: massimo 15 minuti.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715