Solo con la penetrazione della Riforma nella penisola, la Chiesa cominciò a cogliere le potenzialità eversive del volgare. L’abbattimento di una barriera sociolinguistica, l’allargamento dei confini del sapere scientifico, filosofico e religioso a gruppi sociali fino ad allora estranei alla cultura scritta, la caduta degli steccati che separavano il mondo dei chierici e dei dotti dal comune fedele che esso aveva favorito non potevano non destare allarme. Di fronte a uomini e donne di ogni ceto sociale che, nei centri urbani e nelle campagne, si erano sentiti legittimati a «por bocca nelle cose pertinenti alla religione et de essa ragionare così alla libera come se fossero gran theologi» e a rifiutarsi di «stare cheti ai precetti, comandamenti et declaratione della Santissima Romana Chiesa1», di fronte alla sottrazione al clero del monopolio della teologia, una stagione di grandi aperture al volgare si avviò inevitabilmente al tramonto.
Ma l’inversione di rotta fu contraddittoria e incerta, come mostra la proibizione delle traduzioni vernacolari della Bibbia, decisamente tardiva se messa a confronto con quanto era avvenuto altrove. In Spagna i re cattolici, nella lotta contro gli ebrei e contro le tendenze giudaizzanti dei conversos, le avevano proibite fin dal 1492; in Inghilterra, dopo i provvedimenti adottati all’inizio del Quattrocento contro la diffusione tra i lollardi2 della versione biblica attribuita a Wycliffe e dopo il divieto del vescovo di Londra Cuthbert Tunstall (24 ottobre 1526) della traduzione inglese del Nuovo Testamento di William Tyndale pubblicata a Worms e ad Anversa, Enrico VIII, con una Proclamation del 1530, aveva vietato le traduzioni in inglese, francese e tedesco, assumendo solo dopo la rottura con Roma posizioni meno intransigenti […].
Consapevole dell’antica familiarità intrattenuta da alcune popolazioni cattoliche con i volgarizzamenti biblici che aveva indotto nel 1546 i padri riuniti al Concilio di Trento a non pronunciarsi sulla loro liceità o non liceità, Roma intervenne solo con il primo Indice “universale” promulgato nel 1558 dall’Inquisizione, congregazione creata nel 1542. Solo allora, alla luce del ruolo svolto dalla lettura e dall’ascolto delle traduzioni bibliche e dalle erronee interpretazioni che ne erano derivate emerso nel corso dei processi contro eretici o presunti tali, ci si avvide della necessità di bloccare il processo di acculturazione biblica dei fedeli, vietando tassativamente la lettura, il possesso e la stampa di traduzioni. Ma il divieto incontrò resistenze ai vertici stessi della Chiesa e fu all’origine di profondi contrasti. Sebbene fosse stato moderato dalla commissione di vescovi che al concilio elaborò il secondo indice universale o tridentino del 1564, mediante la regola IV che stabiliva che, previa licenza del vescovo o dell’inquisitore, lettura e possesso potessero essere autorizzati, fu ripristinato in maniera surrettizia dall’Inquisizione a partire dagli anni Ottanta. Alle direttive diramate da quest’ultima agli inquisitori periferici si opposero la Congregazione dell’Indice, creata nel 1572, e Clemente VIII: nel terzo indice romano del 1596 riproposero la regola IV, provocando l’inaudito intervento dell’Inquisizione che costrinse il papa a sospendere l’indice già promulgato e spedito in tutt’Europa per reintrodurre in fogli aggiuntivi, tra le tante “correzioni”, il divieto tassativo non soltanto del testo integrale della Sacra Scrittura ma di una serie infinita di opere di contenuto biblico che dal tardo Medioevo avevano nutrito la pietà del clero e del laicato. Un divieto che, al momento dell’esecuzione dell’indice clementino, suscitò proteste e resistenze da parte delle popolazioni di tutta la penisola, tenacemente attaccate ai loro libri di devozione – proteste e resistenze di cui si fecero portavoce vescovi e inquisitori presso la Congregazione dell’Indice.
Se i divieti delle traduzioni della Scrittura e dei volgarizzamenti biblici furono certamente l’espressione più significativa dell’inversione di rotta della Chiesa nei confronti dell’uso del volgare, provvedimenti precedenti e successivi indicano che l’obiettivo non fosse soltanto la lotta al principio luterano del sola Scriptura e alle ricadute sulla diffusione delle dottrine riformate. Vi era anche quello di allontanare dal patrimonium fidei chi era digiuno di latino, vale a dire la massa dei fedeli e gran parte del clero. Basti ricordare la bolla Ac ut fidelium emanata nel 1571 da Pio V che, mentre imponeva l’Officium beatae Mariae Virginis nella versione rivista, ossia depurata dal Maestro del Sacro Palazzo3 di “molte cose superflue” tendenti a incoraggiare “varie superstizioni”, non prevedeva la stessa operazione per gli Ufficioli4 della Madonna, ma li proibiva in tutte le lingue vernacole, in primis in italiano, e prescriveva che fossero consegnati “quanto prima” agli inquisitori “senza speranza alcuna di recuperarli mai”.
Estendeva, inoltre, il divieto alle orazioni e alle litanie in volgare. Nel divieto degli Ufficioli della Madonna, per il cui tramite avveniva prevalentemente la formazione biblica dei laici, fu certamente determinante l’avversione nei confronti delle traduzioni della Scrittura, ma essa si coniugò con la crescente opposizione alla tesi, peraltro sostenuta anche in ambito cattolico, secondo cui l’efficacia della preghiera era strettamente legata alla comprensione letterale dei testi. A riprova uno dei più fortunati manuali per gli inquisitori, il Sacro Arsenale di Eliseo Masini5, il quale nelle istruzioni ai giudici sul Come habbiano ad essaminarsi gl’heretici formali, tra le domande da rivolgere all’imputato per accertarne l’adesione a posizioni ereticali, suggeriva di chiedere «se avesse creduto che la Sacra Scrittura dovesse essere letta indiscriminatamente da tutti nella lingua volgare» e «se avesse creduto che […] fosse inutile per coloro che non capivano la lingua latina recitare l’Ufficio della B.M. Vergine, e altre orazioni, se non nella lingua volgare».
Bibbie integrali o singoli libri della Scrittura, letteratura devozionale di derivazione biblica, libri di preghiera, non furono gli unici bersagli dei censori. Un altro settore più strettamente teologico venne colpito, di nuovo tra non poche contraddizioni e ritardi. Si tratta dei libri di controversia religiosa tra cattolici e riformati. La percezione da parte della Chiesa di Roma della pericolosità dell’uso del volgare nelle opere teologiche non fu però immediata, nonostante il dilagare nella penisola della Riforma protestante nelle sue varie declinazioni. Anche in questo caso il confronto con le politiche della lingua di altri paesi cattolici è illuminante. In Spagna, dove la penetrazione delle dottrine riformate era stata tempestivamente soffocata, l’Inquisizione, fin dagli anni Cinquanta, aveva ostacolato con ogni mezzo la produzione di testi religiosi e teologici in volgare non tanto per preservare i fedeli da errori dottrinali, quanto per mantenerli nell’ignoranza dei misteri della fede. La politica di esclusione dei “semplici” dalla conoscenza della teologia si spinse fino a indurre l’Inquisizione spagnola a vietare la traduzione castigliana del Catechismus ad parochos, ossia del catechismo romano promulgato nel 1566, nel timore che «de andar en manos de todos en romance se podrían seguir muy peligrosos inconvenientes». In Francia, per contro, per arginare la diffusione della Riforma, contro il dominio fino ad allora incontrastato del latino nel campo della teologia, venne precocemente adottato il francese sia nella trattatistica teologica e nella controversistica, sia in opere catechetiche e in scritti devozionali. […]
Concludo osservando che se la Chiesa inizialmente aveva saputo sfruttare le potenzialità offerte dall’invenzione della stampa per divulgare il suo patrimonium fidei e renderlo accessibile anche al di fuori della ristretta cerchia dei dotti e se queste aperture avevano consentito a uomini e donne di ogni ceto sociale di avvicinarsi, sia pure con diversi livelli di cultura, alla Sacra Scrittura e alla teologia, di fronte alla diffusione delle dottrine riformate modificò la sua politica della lingua, pur tra forti contrasti ai suoi vertici. L’inversione di rotta non fu, quindi, né tempestiva né radicale. Sulle prime il bersaglio erano state le traduzioni vernacolari della Sacra Scrittura per il loro peso, vero o presunto che fosse, nel dilagare dell’eresia, ma in prosieguo di tempo la lotta al volgare rettificò i suoi obiettivi, trasformandosi in una decisa battaglia finalizzata all’esclusione dei semplici e dei semicolti dalla comprensione dei misteri della fede e progressivamente anche dalla cultura alta, sulla quale venne crescentemente imposto il monopolio del latino. La convinzione di Dante6 che il volgare sarebbe stato «luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato7 tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce», si rivelerà fallace. Per potere riaffermare il proprio potere dopo la frantumazione della cristianità ed esercitare un più vigoroso controllo sulle menti e sulle coscienze, la Chiesa, sempre più diffidente verso un eccesso di cultura libresca, si impegnerà infatti a mantenere «in tenebre ed in oscuritade» la gran massa dei fedeli, chiudendo il proprio patrimonio di fede e di dottrina in un fortilizio inespugnabile da chi non possedesse la chiave del latino, col pretesto di preservare il “popolo fanciullo” dai pericoli di un’autonoma, personale riflessione.
tratto da Censura romana e usi del volgare, in Il volgare: Idee, testi e contesti, “Philosophical Readings”, VII.3, 2015