3. La Controriforma: libri, lingua e censura

PERCORSO 3

La Controriforma: libri, lingua e censura

Oltre a incidere in maniera corposa sui comportamenti dei devoti, la Chiesa controriformista ebbe un impatto enorme sulla diffusione della parola scritta e sulla lingua. Negli ultimi decenni la storiografia ha fatto enormi passi in avanti nel comprendere il funzionamento dei tribunali inquisitoriali, conquistando l’accesso a fonti di primaria importanza, in particolar modo dopo l’apertura dell’archivio centrale del Sant’Uffizio, avvenuta solo nel 1998. I lavori di Gigliola Fragnito e Marina Roggero guardano, tuttavia, a una strategia repressiva più ampia che non si occupò solo della lotta all’eresia, ma riuscì anche a limitare l’uso delle lingue volgari a vantaggio del latino, guardando con sospetto a tutte le opere (in poesia o in prosa) che arrivavano a un pubblico ampio e promuovevano una morale non aderente ai modelli imposti dalle autorità.

TESTO 1
Gigliola Fragnito

La Chiesa e il primato del latino

Fragnito mostra come la Chiesa di Roma proibì in maniera severa la diffusione di testi sacri, preghiere, riflessioni teologiche in lingua volgare, riservando l’accesso a questa produzione solo a coloro che conoscevano il latino. Escludendo gli illetterati dalle riflessioni sui misteri della fede, le autorità ecclesiastiche riuscirono preservare in tal modo il loro monopolio della dottrina e a prevenire la diffusione del dissenso. 

Solo con la penetrazione della Riforma nella penisola, la Chiesa cominciò a cogliere le potenzialità eversive del volgare. L’abbattimento di una barriera sociolinguistica, l’allargamento dei confini del sapere scientifico, filosofico e religioso a gruppi sociali fino ad allora estranei alla cultura scritta, la caduta degli steccati che separavano il mondo dei chierici e dei dotti dal comune fedele che esso aveva favorito non potevano non destare allarme. Di fronte a uomini e donne di ogni ceto sociale che, nei centri urbani e nelle campagne, si erano sentiti legittimati a «por bocca nelle cose pertinenti alla religione et de essa ragionare così alla libera come se fossero gran theologi» e a rifiutarsi di «stare cheti ai precetti, comandamenti et declaratione della Santissima Romana Chiesa1», di fronte alla sottrazione al clero del monopolio della teologia, una stagione di grandi aperture al volgare si avviò inevitabilmente al tramonto.

Ma l’inversione di rotta fu contraddittoria e incerta, come mostra la proibizione delle traduzioni vernacolari della Bibbia, decisamente tardiva se messa a confronto con quanto era avvenuto altrove. In Spagna i re cattolici, nella lotta contro gli ebrei e contro le tendenze giudaizzanti dei conversos, le avevano proibite fin dal 1492; in Inghilterra, dopo i provvedimenti adottati all’inizio del Quattrocento contro la diffusione tra i lollardi2 della versione biblica attribuita a Wycliffe e dopo il divieto del vescovo di Londra Cuthbert Tunstall (24 ottobre 1526) della traduzione inglese del Nuovo Testamento di William Tyndale pubblicata a Worms e ad Anversa, Enrico VIII, con una Proclamation del 1530, aveva vietato le traduzioni in inglese, francese e tedesco, assumendo solo dopo la rottura con Roma posizioni meno intransigenti […].

Consapevole dell’antica familiarità intrattenuta da alcune popolazioni cattoliche con i volgarizzamenti biblici che aveva indotto nel 1546 i padri riuniti al Concilio di Trento a non pronunciarsi sulla loro liceità o non liceità, Roma intervenne solo con il primo Indice “universale” promulgato nel 1558 dall’Inquisizione, congregazione creata nel 1542. Solo allora, alla luce del ruolo svolto dalla lettura e dall’ascolto delle traduzioni bibliche e dalle erronee interpretazioni che ne erano derivate emerso nel corso dei processi contro eretici o presunti tali, ci si avvide della necessità di bloccare il processo di acculturazione biblica dei fedeli, vietando tassativamente la lettura, il possesso e la stampa di traduzioni. Ma il divieto incontrò resistenze ai vertici stessi della Chiesa e fu all’origine di profondi contrasti. Sebbene fosse stato moderato dalla commissione di vescovi che al concilio elaborò il secondo indice universale o tridentino del 1564, mediante la regola IV che stabiliva che, previa licenza del vescovo o dell’inquisitore, lettura e possesso potessero essere autorizzati, fu ripristinato in maniera surrettizia dall’Inquisizione a partire dagli anni Ottanta. Alle direttive diramate da quest’ultima agli inquisitori periferici si opposero la Congregazione dell’Indice, creata nel 1572, e Clemente VIII: nel terzo indice romano del 1596 riproposero la regola IV, provocando l’inaudito intervento dell’Inquisizione che costrinse il papa a sospendere l’indice già promulgato e spedito in tutt’Europa per reintrodurre in fogli aggiuntivi, tra le tante “correzioni”, il divieto tassativo non soltanto del testo integrale della Sacra Scrittura ma di una serie infinita di opere di contenuto biblico che dal tardo Medioevo avevano nutrito la pietà del clero e del laicato. Un divieto che, al momento dell’esecuzione dell’indice clementino, suscitò proteste e resistenze da parte delle popolazioni di tutta la penisola, tenacemente attaccate ai loro libri di devozione – proteste e resistenze di cui si fecero portavoce vescovi e inquisitori presso la Congregazione dell’Indice.

Se i divieti delle traduzioni della Scrittura e dei volgarizzamenti biblici furono certamente l’espressione più significativa dell’inversione di rotta della Chiesa nei confronti dell’uso del volgare, provvedimenti precedenti e successivi indicano che l’obiettivo non fosse soltanto la lotta al principio luterano del sola Scriptura e alle ricadute sulla diffusione delle dottrine riformate. Vi era anche quello di allontanare dal patrimonium fidei chi era digiuno di latino, vale a dire la massa dei fedeli e gran parte del clero. Basti ricordare la bolla Ac ut fidelium emanata nel 1571 da Pio V che, mentre imponeva l’Officium beatae Mariae Virginis nella versione rivista, ossia depurata dal Maestro del Sacro Palazzo3 di “molte cose superflue” tendenti a incoraggiare “varie superstizioni”, non prevedeva la stessa operazione per gli Ufficioli4 della Madonna, ma li proibiva in tutte le lingue vernacole, in primis in italiano, e prescriveva che fossero consegnati “quanto prima” agli inquisitori “senza speranza alcuna di recuperarli mai”.

Estendeva, inoltre, il divieto alle orazioni e alle litanie in volgare. Nel divieto degli Ufficioli della Madonna, per il cui tramite avveniva prevalentemente la formazione biblica dei laici, fu certamente determinante l’avversione nei confronti delle traduzioni della Scrittura, ma essa si coniugò con la crescente opposizione alla tesi, peraltro sostenuta anche in ambito cattolico, secondo cui l’efficacia della preghiera era strettamente legata alla comprensione letterale dei testi. A riprova uno dei più fortunati manuali per gli inquisitori, il Sacro Arsenale di Eliseo Masini5, il quale nelle istruzioni ai giudici sul Come habbiano ad essaminarsi gl’heretici formali, tra le domande da rivolgere all’imputato per accertarne l’adesione a posizioni ereticali, suggeriva di chiedere «se avesse creduto che la Sacra Scrittura dovesse essere letta indiscriminatamente da tutti nella lingua volgare» e «se avesse creduto che […] fosse inutile per coloro che non capivano la lingua latina recitare l’Ufficio della B.M. Vergine, e altre orazioni, se non nella lingua volgare».

Bibbie integrali o singoli libri della Scrittura, letteratura devozionale di derivazione biblica, libri di preghiera, non furono gli unici bersagli dei censori. Un altro settore più strettamente teologico venne colpito, di nuovo tra non poche contraddizioni e ritardi. Si tratta dei libri di controversia religiosa tra cattolici e riformati. La percezione da parte della Chiesa di Roma della pericolosità dell’uso del volgare nelle opere teologiche non fu però immediata, nonostante il dilagare nella penisola della Riforma protestante nelle sue varie declinazioni. Anche in questo caso il confronto con le politiche della lingua di altri paesi cattolici è illuminante. In Spagna, dove la penetrazione delle dottrine riformate era stata tempestivamente soffocata, l’Inquisizione, fin dagli anni Cinquanta, aveva ostacolato con ogni mezzo la produzione di testi religiosi e teologici in volgare non tanto per preservare i fedeli da errori dottrinali, quanto per mantenerli nell’ignoranza dei misteri della fede. La politica di esclusione dei “semplici” dalla conoscenza della teologia si spinse fino a indurre l’Inquisizione spagnola a vietare la traduzione castigliana del Catechismus ad parochos, ossia del catechismo romano promulgato nel 1566, nel timore che «de andar en manos de todos en romance se podrían seguir muy peligrosos inconvenientes». In Francia, per contro, per arginare la diffusione della Riforma, contro il dominio fino ad allora incontrastato del latino nel campo della teologia, venne precocemente adottato il francese sia nella trattatistica teologica e nella controversistica, sia in opere catechetiche e in scritti devozionali. […]

Concludo osservando che se la Chiesa inizialmente aveva saputo sfruttare le potenzialità offerte dall’invenzione della stampa per divulgare il suo patrimonium fidei e renderlo accessibile anche al di fuori della ristretta cerchia dei dotti e se queste aperture avevano consentito a uomini e donne di ogni ceto sociale di avvicinarsi, sia pure con diversi livelli di cultura, alla Sacra Scrittura e alla teologia, di fronte alla diffusione delle dottrine riformate modificò la sua politica della lingua, pur tra forti contrasti ai suoi vertici. L’inversione di rotta non fu, quindi, né tempestiva né radicale. Sulle prime il bersaglio erano state le traduzioni vernacolari della Sacra Scrittura per il loro peso, vero o presunto che fosse, nel dilagare dell’eresia, ma in prosieguo di tempo la lotta al volgare rettificò i suoi obiettivi, trasformandosi in una decisa battaglia finalizzata all’esclusione dei semplici e dei semicolti dalla comprensione dei misteri della fede e progressivamente anche dalla cultura alta, sulla quale venne crescentemente imposto il monopolio del latino. La convinzione di Dante6 che il volgare sarebbe stato «luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l’usato7 tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce», si rivelerà fallace. Per potere riaffermare il proprio potere dopo la frantumazione della cristianità ed esercitare un più vigoroso controllo sulle menti e sulle coscienze, la Chiesa, sempre più diffidente verso un eccesso di cultura libresca, si impegnerà infatti a mantenere «in tenebre ed in oscuritade» la gran massa dei fedeli, chiudendo il proprio patrimonio di fede e di dottrina in un fortilizio inespugnabile da chi non possedesse la chiave del latino, col pretesto di preservare il “popolo fanciullo” dai pericoli di un’autonoma, personale riflessione.


tratto da Censura romana e usi del volgare, in Il volgare: Idee, testi e contesti, “Philosophical Readings”, VII.3, 2015 

 >> pagina 491 

TESTO 2
Marina Roggero 

La Chiesa, le storie d’amore e le avventure cavalleresche

Secondo Roggero, l’attenzione riservata dai censori alle narrazioni epico-cavalleresche era un chiaro indizio del loro successo. Oltre a essere largamente diffuse e capaci di attrarre l’attenzione di un pubblico ampio, queste appassionanti storie erano malviste in ambito ecclesiastico perché allontanavano il popolo dalla pratica religiosa e dal consumo di libri incentrati su temi sacri (come per esempio i catechismi e le vite dei santi).

Un tratto caratteristico della produzione cavalleresca, comune tra l’altro a molti paesi, era la mescolanza e la sovrapposizione di stampe di vario livello e qualità, riferimento implicito a una pluralità di lettori dall’identità mobile, il cui profilo umbratile ha talvolta disorientato gli studiosi. […] Chi si è soffermato sui motivi chiave dei testi, sul linguaggio o sui tratti aristocratici dei protagonisti ha pensato ch’essi parlassero soprattutto a un pubblico di cortigiani, cavalieri e letterati. Chi invece ha studiato le carte degli inquisitori o magari esaminato i libri dei conquistadores è del parere che ad appassionarsi a questi romanzi non fossero soltanto gli hidalgos1, ma anche gli agricoltori, i piccoli mercanti e i soldati della milicia de la India, alcuni dei quali appunto «traían entre las armas un libro de caballería, con que pasaran el tiempo»; come testimoniano i diari dei naviganti, non era affatto raro che nel corso delle lunghe traversate transoceaniche i viaggiatori si intrattenessero con la recita e con il canto di romances de caballerías. A complicare ulteriormente il quadro concorre il fatto che in certe situazioni le tracce sono state occultate. È verosimilnente il caso degli uomini colti che, sebbene si dilettassero di tali letture, non amavano vantarsene, e dalle loro biblioteche – ove l’ordine dei libri rifletteva simbolicamente una gerarchia ideale – tendevano a eliminare i testi di consumo in volgare, magari acquistati o copiati, certo usati e letti. A questi livelli la circolazione si svolgeva per lo più in modo informale, in base a scambi o lasciti tra parenti e amici, perché l’estraneità al canone riconosciuto rendeva simili opere indegne di una conservazione pubblica e di un’utilizzazione a scopo di studio. Gli inventari legati ai testamenti rischiano pertanto di restituirci immagini parziali e addomesticate, soprattutto nel caso di biblioteche di intrattenimento, non professionali: queste cambiavano infatti con il mutare dell’età e del gusto del proprietario, che non di rado, con il passare degli anni, metteva da parte ciò che aveva apprezzato in gioventù. Considerata la cattiva fama di certi generi di libri presso i censori del Sant’Uffizio, non è infondato supporre che qualche lettore pentito provvedesse a disfarsi di opere sospette, caballerías comprese, per stare in pace con il proprio confessore o con la propria coscienza. L’ampiezza del consumo, che si è a varie riprese sottolineata, non deve occultare la diversità dei modi di approccio ai testi. […]

Accantoniamo comunque per il momento il problema della molteplicità delle letture per soffermarci sulla moltitudine dei lettori. Nella stagione della Controriforma, periodo nel complesso poco favorevole al sistema letterario ed editoriale, i libri “de bataia2” avrebbero manifestato una notevole vitalità, dando filo da torcere a moralisti e censori. Un chiaro segno del successo era dato proprio dai timori ricorrenti e mai sopiti delle gerarchie ecclesiastiche, che vedevan nel genere cavalleresco non soltanto una fonte di corruzione morale (per le storie d’amore narrate) o un possibile veicolo di eresia (per le pratiche magiche divulgate), ma un prodotto concorrenziale per la letteratura religiosa. Per cogliere tutta la diffidenza della Chiesa romana, una diffidenza nutrita della consapevolezza che simili opere occupavano uno spazio vasto e potenzialmente pericoloso nell’immaginario del pubblico, occorre andare oltre gli Indici dei libri proibiti, ove ne era fatta menzione solo tangenzialmente. Si consideri piuttosto un’opera fondamentale della stagione postridentina, quella Bibliotheca selecta3 (1593) che diservana il canone su cui laici e clero dovevano modellare le loro letture. Nelle pagine di Antonio Possevino – missionario, diplomatico, inquisitore, segretario della Compagnia di Gesù – romanzi di cavalleria e testi eretici in volgare erano accomunati dalla medesima condanna, poiché venivano percepiti come ingranaggi che facevano parte della stessa macchina diabolica. Tra Lancillotto e Tristano, Amadigi e Giron Cortese, spiccava in quella lista il titolo del Furioso, che catalizzava le ire dei censori, forse in virtù della sua straordinaria diffusione. In effetti l’opportunità di mettere al bando […] il poema di Ariosto, «qui passim non sine magno detrimento legitur et canitur4» (1593), era sostenuta anche dai più equilibrati membri della Congregazione dell’Indice […].

Limitiamoci per il momento a sottolineare che il giudizio espresso dagli illustri gesuiti costituiva ovviamente un’opinione isolata. Se neppure in passato erano mancate condanne di tale letteratura, dopo il Concilio di Trento i moralisti si erano fatti assai più severi verso opere mondane (poemi, novelle, opere teatrali), la cui carnale naturalezza appariva incompatibile con i valori centrali del cristianesimo. Un diffuso sospetto nei confronti della finzione poetica, che mescolava irriverentemente sacro e profano, e un timore esasperato per la lascivia dei temi d’amore, che costituiva un pimento allettante, una salsa in grado di insaporire ogni vivanda, portavano a censurare anche gli eroi cavallereschi, letterariamente meno autorevoli, ma eticamente non meno pericolosi di quelli della classicità pagana.

La diffidenza non era attizzata soltanto dal gioco più meno esplicito delle passioni, ma dal distacco – ingannevole e seducente – dalla realtà. Era la fantastica, incontenibile, arbitraria leggerezza di storie che non rispondevano ad alcun criterio di verosimiglianza o di utilità a inquietare moralisti e pastori d’anime: a che serviva rappresentare ciò che non esisteva e mai era esistito? Quali insegnamenti si potevano trarre da eventi tanto improbabili? Per comprendere tutto il senso di queste osservazioni bisogna ricollocarle sullo sfondo di un’epoca in cui uomini di Chiesa e di governo erano drammaticamente consapevoli del potere dei libri, del ruolo acculturante e normativo della parola scritta. Ma entro questo generale contesto ciò che si vuole qui sottolineare è il fatto che disagio e timori tendevano a crescere con il crescere del pubblico potenziale; che l’emergere di lettori inesperti, apparentemente senza difese di fronte al testo, indiceva quanti avevano l’autorità di regolamentare le condotte e formare gli spiriti a moltiplicare i controlli sui prodotti stampati di vasta diffusone, a inasprire censure e esplicite o oblique per espungerne tutto ciò che poteva offendere religione, morale, decenza.


tratto da Le carte piene di sogni. Testi e lettori in età moderna, Il Mulino, Bologna 2006

 >> pagina 493

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) La lotta al volgare rettificò i suoi obiettivi, trasformandosi in una decisa battaglia finalizzata all’esclusione dei semplici e dei semicolti dalla comprensione dei misteri della fede.

b) Uomini di Chiesa e di governo erano drammaticamente consapevoli del potere dei libri, del ruolo acculturante e normativo della parola scritta.

c) Un diffuso sospetto nei confronti della finzione poetica [portava] a censurare anche gli eroi cavallereschi.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


   La Chiesa e il primato del latino La Chiesa, le storie d’amore e le avventure cavalleresche
TESI    
ARGOMENTAZIONI    
PAROLE CHIAVE    
Dal dibattito storiografico al DEBATE

I due passi storiografici proposti esprimono due idee fondamentali:


a) La Chiesa tende a tenere i “semplici” lontani da riflessioni riservate solo a teologi e gerarchie ecclesiastiche.

b) La Chiesa guarda con sospetto a prodotti ed eroi letterari capaci di stimolare la fantasia e di avere un impatto sui comportamenti dei fruitori/lettori.


Si pensi alla centralità dei discorsi odierni sul carattere educativo/diseducativo di personaggi letterari/cinematografici/televisivi, sulla loro capacità di incidere sui modelli di comportamento e di stimolare imitazioni da parte del pubblico (proprio come quello descritto da Marina Roggero). Si pensi a prodotti come GomorraSuburra ecc.


a) Creazione dei gruppi di lavoro La classe si divide in due gruppi che sostengono tesi opposte:

Gruppo 1: I personaggi delle serie televisive sono capaci di stimolare comportamenti imitativi e negativi.

Gruppo 2: L’arte e la fiction non possono essere costrette a un ruolo pedagogico. La fiction, per sua stessa definizione, non può avere un potere persuasivo.


b) competenza DIGITALE Laboratorio di ricerca a casa e in classe In classe si propone la lettura di alcuni articoli online a favore e contro le responsabilità delle fiction e il loro potere persuasivo.


c) Preparazione di argomentazioni e controargomentazioni Ciascun gruppo prepara le proprie argomentazioni e riflette sulle possibili repliche alle tesi del gruppo antagonista.


d) Dibattito Ciascun gruppo sceglie uno o più relatori che espongano almeno tre argomentazioni a favore della propria tesi, sostenendole con prove della loro validità (esempi, analogie, fatti concreti, dati statistici, opinioni autorevoli, principi universalmente riconosciuti, ecc.). In seguito, ciascun gruppo espone le controargomentazioni rispetto alle argomentazioni antagoniste. Con la guida dell’insegnante si conclude il dibattito con la sintesi e il bilanciamento delle posizioni.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715