1.3 Strumenti e tecniche

1.3 Strumenti e tecniche

Dalla rotazione biennale a quella triennale

All’espansione delle terre coltivate si accompagnarono anche il miglioramento delle tecniche agricole e la diffusione di alcune tecnologie, il cui impatto sull’aumento di produttività fu però inizialmente piuttosto limitato. Il primo problema che i contadini dovevano affrontare consisteva nel mantenere a lungo la fertilità dei campi, e poteva essere affrontato in due modi: concimando la terra o lasciando il suolo a riposo per un tempo sufficiente a ricostituire il suo ▶ humus. Il concime a disposizione, costituito dal letame animale, era però insufficiente, e d’altro canto lasciare a lungo le terre incolte comportava la fatica di doverle quasi nuovamente dissodare alla ripresa delle coltivazioni.

Progressivamente, a questa alternanza tra un lungo ciclo di coltivazione e un altrettanto lungo ciclo di riposo/pascolo si era affiancato un altro metodo, già noto nell’antichità: la rotazione biennale. Secondo questo sistema, il contadino divideva la terra in due parti: il primo anno ne seminava una a frumento (o altro cereale a semina invernale, come la segale o l’orzo invernale), lasciando l’altra a riposo (maggese), disponibile per il pascolo degli animali; l’anno seguente invertiva l’ordine [ 5]Già in età carolingia, tuttavia, si iniziò ad applicare anche un nuovo ciclo colturale, su base triennale. Esso prevedeva che solo un terzo del campo fosse lasciato a maggese, mentre gli altri due terzi erano dedicati l’uno alla semina di cereali invernali, l’altro a colture primaverili, cerealicole (avena, orzo primaverile, miglio, panìco, sorgo) o leguminose (piselli, fave, ceci), destinate tanto al bestiame quanto all’alimentazione umana. L’anno successivo le semine invernali, che erano di maggior pregio ma sfruttavano molto il terreno, erano effettuate sul maggese, mentre sui terreni prima seminati a frumento, orzo o segale si piantavano le colture primaverili perché i legumi, oltre a fornire proteine, contribuivano a fissare l’azoto nei terreni e a mantenerli produttivi.

I vantaggi della rotazione triennale risiedevano dunque in una più equilibrata distribuzione dei lavori agricoli nel corso dell’anno e in raccolti più frequenti e diversificati, cosa che consentiva al contadino di compensare eventuali cattive annate. Inoltre, il fatto che una parte del raccolto fosse destinato agli animali rese possibile, in tempi lunghi, sia l’aumento del numero dei capi allevati, sia l’incremento della loro taglia, permettendo di avere maggiori quantità di carne a disposizione. Nel giro di due secoli questo sistema si diffuse in particolare in Francia (Normandia, Île-de-France), in Inghilterra e nell’Europa centrale, pur senza determinare la scomparsa della rotazione biennale; l’adozione della rotazione triennale fu invece più limitata nell’Europa mediterranea, dove le condizioni ambientali permisero di mantenere ancora a lungo il sistema biennale come sistema dominante.

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Aratro leggero e aratro pesante
Altre innovazioni, la cui diffusione non fu comunque rapida né uniforme, riguardarono gli aratri e gli animali da tiro. Nelle umide e pesanti ▶ pianure alluvionali dell’Europa centrale e settentrionale, ma anche nella Pianura Padana e in alcune zone dell’Italia centrale, fu gradualmente introdotto un nuovo tipo di aratro pesante, caratterizzato dalla presenza di un versoio, un “coltello” laterale di metallo [ 6]. A differenza dell’aratro leggero di derivazione preromana, costruito in legno, l’aratro a versoio penetrava più in profondità nel terreno, rivoltandone le zolle e garantendone l’ossigenazione. La pesantezza, la complessità e la difficile manovrabilità di questo strumento, che richiedeva l’impiego di due o tre coppie di animali da tiro, erano in parte superate dall’uso di una o più ruote per dirigerlo meglio ed erano comunque compensate dai vantaggi che l’aratura in profondità comportava.

Nei terreni più friabili e argillosi dell’area mediterranea, tuttavia, continuò a lungo a essere impiegato l’aratro leggero. Esso era in grado soltanto di fendere la crosta dei terreni: per rivoltare le zolle era necessario dunque intervenire ciclicamente, a distanza di qualche anno, rompendo in profondità il terreno con la vanga. L’aratro leggero aveva però dei vantaggi: era poco costoso, aveva bisogno di un solo animale da tiro e risultava più maneggevole e adeguato alle caratteristiche dei suoli mediterranei.

L’impiego delle due principali tipologie di aratri influiva anche sulla forma dei campi coltivati, in modo così duraturo che ancora oggi i paesaggi rurali europei ne conservano tracce sensibili. Tipica dei campi coltivati a cereali con l’aratro a versoio è la forma stretta e allungata, senza recinzioni o siepi a delimitarne i confini (open field), dal momento che i contadini tendevano a ridurre al minimo il numero dei giri che dovevano compiere con il pesante attrezzo. Nell’Europa meridionale prevaleva invece il campo recintato di forma quadrangolare o, nella Francia occidentale, irregolare (bocage), poiché i contadini che usavano aratri leggeri tendevano a intersecare i solchi, in modo da smuovere maggiormente il terreno.

I miglioramenti della trazione animale

L’uso di aratri più robusti e l’espansione dei seminativi comportarono alcuni mutamenti anche nell’impiego degli animali da lavoro, in relazione sia alle specie utilizzate, sia ai sistemi di attacco e ferratura. Nei paesi mediterranei gli animali da lavoro per eccellenza rimasero i bovini, mentre nel centro-nord del continente europeo si assisté, dal XII secolo in particolare, a una lenta e parziale sostituzione del tiro bovino con quello equino. Sebbene fossero meno resistenti alle malattie, i cavalli si mostravano più veloci e facili da allevare grazie all’impiego di cereali come orzo e avena, che ben attecchivano nei climi continentali. Anche nei sistemi di aggiogamento vi furono alcune migliorie, che permisero di sfruttare meglio l’energia animale: per i bovini il giogo non venne più fissato al garrese ma alle corna, mentre per gli equini si dimostrò vantaggioso adottare un collare di spalla rigido e imbottito anziché le cinghie, che soffocavano l’animale durante lo sforzo.

La crescente produzione di ferro, collegata a una maggiore capacità estrattiva nelle miniere, consentì inoltre il diffondersi della ferratura degli zoccoli dei cavalli, a partire dall’XI secolo, mentre è databile a periodi successivi l’uso di ferrare i bovini. Ancora, il più largo impiego di ferro migliorò la resistenza e l’efficacia degli attrezzi agricoli (zappe, vanghe, falci e falcetti, erpici).

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I mulini

Sul piano tecnologico, il lavoro di macinatura dei cereali fu svolto, molto più che in passato, da macine azionate dall’energia idraulica ed eolica  [ 7]. Mentre nell’antichità il modello dominante di macina prevedeva l’impiego di forza lavoro umana o animale, a partire dall’epoca carolingia un processo sempre più rapido condusse allo sfruttamento della forza dell’acqua, lungo fiumi e torrenti, o del vento, come per esempio in Normandia, Bretagna e Inghilterra. La diffusione dei mulini avvenne per iniziativa signorile, a causa dell’ingente investimento di capitali necessario alla loro costruzione. Di conseguenza, i contadini furono progressivamente obbligati a macinare il proprio grano nei mulini signorili, mentre quelli azionati dalla forza umana o animale, spesso distrutti dagli stessi signori, sopravvissero solo per far fronte alle emergenze o in territori a rischio di siccità e poveri di corsi d’acqua.

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L’energia di acqua e vento fu in seguito impiegata anche per la trasformazione di altri prodotti agricoli, per esempio per macinare le castagne o spremere le olive, o ancora per azionare i mantici usati nella lavorazione dei metalli e per la battitura dei tessuti (follatura), operazione che serviva a renderli più compatti. In ciascun campo in cui fu utilizzato, il mulino costituì un salto tecnologico importante e permise di impiegare la manodopera per altre attività.

L’andamento delle rese

Queste innovazioni colturali e tecnologiche ebbero conseguenze sulle rese dei cereali, anche se i secoli successivi al Mille, sino al tardo Trecento, non registrarono progressi significativi rispetto all’alto Medioevo carolingio. Le rese cerealicole europee medie mantennero infatti un rapporto di 3 o 4 semi raccolti per ogni seme seminato, o addirittura inferiori; rese più alte si avevano invece nelle pianure mediterranee. A migliorare in maniera più sensibile, grazie all’intensificazione del lavoro umano e alle nuove tecniche colturali, furono invece i rendimenti pluriennali: rispetto al passato i contadini riuscirono a raggiungere per più anni la resa massima possibile. Questa lieve tendenza al miglioramento della produttività dei terreni spiega perché i prezzi delle derrate alimentari crebbero continuamente nel corso di questi secoli: il debole incremento dell’offerta di prodotti non riusciva a tenere il passo della domanda di una popolazione in crescita.

1.4 Il denaro

La diffusione della moneta
Il più frequente impiego della moneta, cui si è accennato, costituì un altro aspetto importante della fase di crescita economica dei secoli XI-XIII. Esso non fu determinato da questa crescita: al contrario, era un elemento già presente in molte aree europee – per esempio in Frisia (regione dei Paesi Bassi) e nella Francia carolingia – che accompagnò e favorì l’espansione economica. In Francia, per impulso della riorganizzazione delle grandi aziende agrarie, la circolazione commerciale dei prodotti della terra aveva proceduto di pari passo con la riforma monetaria di Pipino il Breve e Carlo Magno. I re franchi avevano imposto un sistema monetario basato sul denaro d’argento, con l’abbandono definitivo delle monete d’oro, rimaste in circolazione solo nel mondo bizantino e arabo-musulmano. In età postcarolingia, in seguito all’indebolimento dell’autorità centrale e alla conseguente proliferazione di poteri locali, si moltiplicarono anche le zecche in cui le monete venivano coniate, cosa che favorì un processo di ▶ svalutazione del denaro.

Alla metà del XII secolo, però, un’ondata di argento si riversò nei mercati europei in seguito alla scoperta di nuove miniere nell’Europa centrosettentrionale (Sassonia, Boemia, Carinzia, Ungheria). Al denaro tradizionale, fortemente svalutato, fu allora affiancato un nuovo denaro, detto “grosso”, usato per gli scambi di maggior valore e coniato nelle zecche regie o appartenenti a grandi principati e città. Alla metà del Duecento, infine, ripresero a essere coniate anche in Occidente le monete auree (il fiorino a Firenze, il genovino a Genova, l’augustale nel regno di Sicilia, il ducato a Venezia), che si affiancarono alle monete d’argento e che divennero rapidamente, grazie alla stabilità della quantità d’oro contenuta al loro interno (circa 3,5 grammi), i principali mezzi di pagamento internazionali. Si affermò dunque, da questo momento in poi, un sistema monetario bimetallico.

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La necessità di denaro per gli scambi, tuttavia, non fu mai soddisfatta dalla quantità di metallo prezioso coniato e si dovette perciò ricorrere ad altre forme di pagamento, come la lettera di cambio – cioè una promessa scritta con cui un debitore si impegnava a corrispondere la somma dovuta in un secondo momento –, che avevano le stesse funzioni della moneta. Da queste innovazioni, originariamente diffuse in ambito mediterraneo, sarebbe derivata – alcuni secoli dopo – la formazione di un vero mercato del credito e di sistemi bancari complessi.

Aveva insomma inizio un processo che, lentamente e con molte resistenze, tendeva a adottare la moneta come misura di tutte le cose, sebbene molta parte della vita materiale delle popolazioni europee del tempo fosse ancora irriducibile alle logiche mercantili delle moderne economie di scambio [▶ fenomeni].

  fenomeni

L’economia del dono

Nelle economie preindustriali (ma accade spesso anche nelle nostre) gli scambi di beni, di ricchezze e di prodotti non avvenivano sempre in un contesto mercantile, in cui un individuo cede a un altro un bene in cambio di denaro o di un bene equivalente. In primo luogo perché la dimensione collettiva era preponderante rispetto a quella individuale: erano spesso le collettività, e non i singoli, a impegnarsi reciprocamente in scambi e contrattazioni. In secondo luogo, perché non solo beni e ricchezze materiali erano oggetto di scambio: atti rituali, prestazioni militari, consumi di cibo e bevande costituivano anch’essi beni scambiati tra collettività e individui in base a – terzo punto – convenzioni convalidate da tutti e cui non si può sfuggire, pena la riprovazione sociale e il conflitto.

Bisogni materiali e immateriali

Già Marcel Mauss (1872-1950), uno dei maestri dell’etnologia, aveva indicato nei bisogni immateriali una componente importante della vita economica delle società umane. Una parte considerevole della produzione economica entrava dunque in circuiti di scambio estranei allo scambio monetario o anche al baratto. Canoni versati dai contadini in occasione di determinate feste dell’anno, concessioni di terre, doni in occasione di matrimoni o di visite a corte, distribuzioni di bottino di un re ai suoi aristocratici o alle chiese dopo una campagna militare, o ancora grandi mangiate e bevute in occasione di feste, sacrifici di bestiame e in particolare di cavalli alla morte di un capo militare sono tutti esempi di sottrazione o distruzione di risorse, a spese della produzione o di un consumo più oculato e prolungato nel tempo, che tuttavia avevano un preciso scopo: garantirsi la positiva mediazione dell’aldilà in merito all’abbondanza dei raccolti e alla cessazione di calamità, stringere legami familiari o di più ampia solidarietà, esorcizzare la fame, dimostrare la potenza di una famiglia o di un popolo.

L’appropriazione, distribuzione e consacrazione rituale dei beni sono dunque essenziali per comprendere come un comportamento apparentemente assurdo o antieconomico possa avere invece valenze profonde, legate ai rapporti tra individui, comunità e divinità.

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La decima rurale

Abbiamo visto che il crescente uso del denaro modificò le relazioni tra contadini e signori, contribuendo a mutare in moneta i canoni in natura o in lavoro. L’aumentata disponibilità di denaro contribuì anche a modificare le modalità di riscossione della decima rurale. Come dice il nome, la decima era un contributo corrispondente a 1/10 del raccolto (o al suo equivalente in moneta), che ciascun fedele era tenuto a versare alla propria chiesa per il mantenimento del clero. Essa non solo assicurava risorse per la costruzione di edifici religiosi, ma funzionava anche come deposito collettivo, controllato dalla comunità, per la distribuzione dell’elemosina ai bisognosi e delle sementi necessarie a proseguire il ciclo di coltivazione ai contadini più poveri (analoghe pratiche assistenziali, come si vedrà, saranno attivate anche in ambito urbano).

A partire dal tardo XI secolo, la decima iniziò a essere riscossa dai signori in modo sistematico e in denaro, anziché in natura. L’▶ appalto per la raccolta della decima favorì inoltre la nascita di un’élite di notabili che fungevano da intermediari nelle operazioni di prestito del denaro, favorendo in questo modo una maggiore circolazione monetaria.

1.5 Società e famiglia

I cambiamenti dello status sociale

L’impiego di nuovi strumenti e tecnologie nella produzione agricola contribuì anche a determinare profondi cambiamenti sociali.

La popolazione europea viveva per lo più in villaggi che facevano capo a un centro di potere, laico o religioso. Le comunità di villaggio si occupavano collettivamente di alcuni aspetti fondamentali per la vita della collettività come la regolamentazione dello sfruttamento delle risorse comuni (legna, acqua, pascoli, campi cerealicoli, frutti del bosco) e il mantenimento delle relazioni con le comunità vicine e con i signori. Esse però, a differenza di quanto spesso si pensa, non erano realtà immutabili, omogenee al loro interno e dominate dalla tradizione; erano invece attraversate da nette stratificazioni, in base alla quantità di terra detenuta (in proprietà o in affitto), ai guadagni ottenuti con attività extragricole (piccoli commerci, attività artigianali), all’appartenenza a ▶ clientele che facevano capo ai signori, all’inserimento in varie reti di solidarietà e di aiuto reciproco [▶ altri LINGUAGGI, p. 60].

Chi era in grado di gestire i progressi tecnologici poteva migliorare il proprio reddito e salire rapidamente lungo la scala sociale; alcuni poi, per l’importanza del loro lavoro (come per esempio i mugnai), godevano di una maggiore vicinanza al signore, creando così un forte legame di fedeltà.

Mobilità sociale e teoria degli ordini

È interessante notare come proprio in questo momento di grande trasformazione sociale la cultura delle élite si sforzasse invece di dare una forma semplice e intellegibile, e dunque controllabile, a società sempre più complesse. Nella prima metà dell’XI secolo, infatti, Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai, due influenti vescovi, portarono a compimento l’elaborazione di una teoria di funzionamento della società medievale sulla base di una sua ripartizione in tre ordini: coloro che pregano (oratores), coloro che combattono (bellatores) e coloro che lavorano (laboratores), senza distinzioni interne a ciascun ordine. Un sistema interpretativo che, vista la complessità delle stratificazioni sociali, funzionava poco nella descrizione della realtà, ma che costituiva un punto di riferimento ideologico a sostegno della superiorità dei primi due ordini sul terzo e del primo sugli altri due.

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I modelli familiari

Un altro aspetto importante della stratificazione delle comunità medievali, a ogni livello sociale, riguarda le modificazioni della struttura familiare e delle consuetudini di trasmissione ereditaria dei patrimoni. Nell’alto Medioevo convivevano due modelli familiari:

  • quello cognatizio, secondo cui le linee di parentela collegano il singolo individuo con entrambe le famiglie, materna e paterna, che dava vita a un gruppo famigliare largo;
  • quello agnatizio, fondato sulla successione di padre in figlio e sostanzialmente più ristretto.

Sul piano economico, il sistema agnatizio aveva il vantaggio di mantenere unito il patrimonio, che passava di generazione in generazione attraverso i figli maggiori. Il sistema cognatizio, ridefinendo a ogni generazione il sistema della parentela, favoriva invece la dispersione del patrimonio tra molti eredi, tra i quali, seppur con quote minori, erano compresi anche i figli nati al di fuori del contratto matrimoniale.

Dall’XI-XII secolo, a seguito sia del processo di frazionamento delle proprietà, sia di un profondo impegno della Chiesa nel ridefinire le norme sul matrimonio, si affermò decisamente il secondo modello [ 8]. La famiglia si strutturò progressivamente come nucleo formato dalla relazione tra marito, moglie e figli, fondato su un vincolo matrimoniale monogamico. Nelle società cittadine questo modello si fissò definitivamente intorno al XIII secolo; nelle campagne, invece, il processo fu in parte diverso: l’introduzione di contratti come quelli ▶ mezzadrili, che obbligavano alla mobilitazione dell’intera forza lavoro familiare, condusse infatti all’istituzione di nuove forme di famiglia allargata, come quella ▶ patriarcale, giunte sino al XX secolo.

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I mutamenti della condizione femminile

Per le donne il passaggio al sistema agnatizio rappresentò un peggioramento della condizione economica e sociale. Infatti, mentre in precedenza il patrimonio della donna era costituito da quote-parte del patrimonio del padre (dotazione) e del marito (dotario), che restavano a lei anche in caso di morte del coniuge o di separazione, con l’affermarsi della ▶ patrilinearità queste quote furono gradualmente abolite: la donna che si sposava aveva soltanto una dote da offrire alla famiglia del marito e restava esclusa dall’eredità.

Un altro importante effetto di questi cambiamenti riguardò l’identità soggettiva di uomini e donne. A partire dal XII secolo, per indicare la continuità delle generazioni, dei patrimoni e dei poteri si affermò l’uso dei cognomi su base patrilineare, mentre nei secoli precedenti al nome personale era solo talvolta aggiunto il patronimico o il matronimico, o ancora l’indicazione della provenienza. L’uso del cognome si diffuse dapprima nei ceti aristocratici, poi più lentamente in quelli inferiori, ma le donne rimasero ancora a lungo identificate dal solo nome, seguito talvolta dal nome del padre o del marito.

Alle trasformazioni sociali si accompagnò inoltre una profonda ridefinizione ideologica dell’immagine della donna, caratterizzata sempre più, negli scritti di autori ecclesiastici, da pulsioni istintuali, carnali e irrazionali. A questa immagine veniva opposto, come modello cui tendere, Maria vergine e madre: una condizione biologicamente impossibile, ma che forniva un esempio di rinuncia alla sessualità e di sottomissione al volere altrui [

 

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Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715