PROTAGONISTI - Carlo Borromeo

Il concilio prese importanti decisioni anche sul piano disciplinare. Al centro della nuova struttura della Chiesa tridentina furono posti i vescovi, che fino a quel momento avevano spesso considerato le loro diocesi come semplici benefici, talvolta senza nemmeno risiedervi e curandosi assai poco dei doveri pastorali. Il nuovo sistema assegnava agli ▶ ordinari nuovi compiti:

  • preparare culturalmente e spiritualmente il clero nei seminari, istituti ecclesiastici di formazione e istruzione;
  • effettuare visite annuali (“pastorali”) nella circoscrizione loro assegnata;
  • esercitare un controllo della vita delle comunità parrocchiali, delle condizioni dei luoghi di culto, del rispetto delle regole nei monasteri e negli altri istituti religiosi (la clausura veniva spesso disattesa e gli scandali erano frequenti);
  • svolgere attività missionarie nelle campagne e nei centri abitati;
  • sorvegliare l’opera e le strategie dei predicatori.

Ai parroci fu richiesto di registrare su appositi registri i battesimi, i matrimoni, le morti; fu inoltre loro imposto di sorvegliare il rispetto del precetto pasquale da parte dei fedeli, chiamati a confessarsi e a ricevere l’eucarestia almeno una volta l’anno.

Il programma stabilito dal concilio fu quindi radicale e interessò tanto la vita comunitaria quanto quella individuale [ 3]. Tuttavia, l’attuazione dei decreti si rivelò ben presto complessa e incontrò non poche resistenze: alcune abitudini, radicate nel clero e tra i fedeli, si dimostrarono infatti dure a morire.

Il ruolo delle congregazioni

Il nuovo modello di virtù ecclesiastica si fondò su alcune figure esemplari, divenute tali per le opere compiute nelle loro diocesi, come Carlo Borromeo (1538-84), che ottenne la carica di arcivescovo di Milano nel 1564 e pose in atto tutte le disposizioni tridentine cercando di riformare la vita religiosa della sua arcidiocesi [▶ protagonisti].

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La riorganizzazione delle gerarchie ecclesiastiche locali andò di pari passo con un deciso accentramento ai vertici della struttura: la corte pontificia rafforzò il proprio ruolo affidando a cardinali ben preparati il controllo delle congregazioni, una sorta di “ministeri” vaticani cui erano delegati compiti di coordinamento in alcuni specifici settori: la congregazione dei “vescovi e regolari”, per esempio, si occupava del controllo delle diocesi e degli ordini religiosi; quella dei “riti” aveva competenze sulla pratica del culto e sull’organizzazione delle celebrazioni religiose; quella “de propaganda fide” concentrava la sua attenzione sull’evangelizzazione; quella “del Concilio” fu istituita nel 1564 per garantire l’effettiva osservanza dei decreti tridentini.

  protagonisti

Carlo Borromeo

Discendente di una nobile famiglia lombarda, nipote di Pio IV, nominato cardinale a soli 22 anni e vescovo a 26, Carlo Borromeo si costruì un solida fama di autentico uomo di Chiesa. Per tutta la vita infatti si impegnò, con le azioni e soprattutto con l’esempio, per ridare credibilità alle istituzioni cattoliche, minate dagli scandali e colpite dalla Riforma. Fu protagonista dei lavori del Concilio di Trento.

Nell’arcidiocesi di Milano, in 18 anni di attività pastorale, perseguì con tenacia l’obiettivo di porre un argine alle infiltrazioni delle idee protestanti, avvalendosi anche dell’aiuto dei gesuiti. Oltre a lavorare alacremente sull’istruzione del clero, sfruttò tutti gli strumenti a sua disposizione per controllare il territorio e intensificare l’attività pastorale: con­vocò infatti 11 sinodi diocesani e sei concili provinciali. Cruciale fu anche il soccorso al popolo nei periodi di emergenza, come l’epidemia di peste del 1576-77.

Si segnalò anche nell’azione repressiva: le sue iniziative contro i protestanti delle valli svizzere e contro decine di presunte streghe si distinsero per la loro violenza.

Agli inizi del Seicento, la Chiesa di Roma lo incluse formalmente fra i suoi “eroi”, proclamandolo santo.

I sacramenti e la famiglia cristiana

La nuova disciplina si proponeva di incidere non solo sulla dimensione sociale e comunitaria della fede cristiana, ma anche sul rapporto di individui e nuclei familiari con l’autorità ecclesiastica.

Il sacramento del battesimo fu sottoposto a regole rigide: doveva essere somministrato al bambino a pochi giorni dalla nascita e i padrini non potevano essere più di due, a differenza di quanto accadeva fino ad allora, quando le famiglie utilizzavano il sacramento per sancire o rafforzare patti di carattere privato, conferendogli una natura politica.

La confessione perse in parte la propria dimensione pubblica per divenire un momento di confronto individuale con Dio, attuato attraverso la mediazione sacerdotale. Fu proprio Carlo Borromeo a introdurre l’uso del confessionale per riportare alla sfera privata il momento della penitenza e al tempo stesso impedire, attraverso il contatto diretto fra penitente e confessore, che si consumassero abusi [▶ oggetti].

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I cambiamenti più consistenti riguardarono il matrimonio, che fino ai decenni precedenti aveva avuto una valenza civile e familiare in quanto frutto di accordi tra famiglie e gruppi di potere, che decidevano le unioni anche ignorando la volontà dei contraenti e senza il bisogno di validarle al cospetto di autorità religiose. Per affermare una nuova prassi fu imposta la “pubblicazione di matrimonio”, che rendeva partecipe l’intera comunità dell’intenzione dei due contraenti di sposarsi e permetteva a chiunque fosse a conoscenza di eventuali impedimenti di riferirli alle autorità. Il rito si doveva svolgere alla presenza di testimoni e di un ecclesiastico, che era tenuto a riportarne traccia sull’apposito registro parrocchiale. Non mancarono tuttavia incertezze nell’applicazione delle nuove norme: era richiesta la presenza di un sacerdote, ma non il suo assenso alle nozze e così molti approfittarono di questa opportunità per sorprendere i parroci e “registrare” ufficialmente unioni contrarie al volere delle famiglie o alle consuetudini sociali [ 4].

L’intero universo della famiglia fu sottoposto a un controllo più stretto: i genitori, il parroco, i vescovi, i membri degli ordini religiosi prendevano in carico, a diversi livelli, l’educazione dei bambini, dei giovani e delle donne. Allo stesso tempo, accanto alla dimensione comunitaria della società cristiana si affermò un nuovo protagonismo della sfera individuale che poneva il singolo credente al cospetto del giudizio di Dio, con la sola mediazione dei sacerdoti.

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Il confessionale

Prima della diffusione del confessionale, il sacramento della penitenza si celebrava nei luoghi più disparati, senza prescrizioni precise. Il nuovo arredo ecclesiastico prevedeva una grata a separare sacerdote e penitente, non consentendo alcun contatto visivo o diretto. Il carattere privato delle conversazioni era inoltre garantito da pannelli protettivi, di legno o di stoffa, che riparavano il fedele da occhi e orecchie indiscreti. La confessione faccia a faccia sarà nuovamente consentita dalla Chiesa di Roma solo dopo il Concilio Vaticano II (1962-65).

Il rapporto privato fra il rappresentante dell’autorità ecclesiastica e il peccatore ebbe risvolti importanti anche sulla repressione inquisitoriale. Nei casi di presunta eresia, infatti, l’assoluzione veniva talvolta negata o rimandata: il reo doveva dimostrare di aver deposto spontaneamente davanti ai giudici del Sant’Uffizio prima di poterla ottenere nel foro privato.

14.3 La repressione dei comportamenti devianti

Il Sant’Uffizio e i tribunali dell’Inquisizione

L’affermazione delle normative tridentine fu resa possibile da una riorganizzazione complessiva – già in corso prima del concilio – delle pratiche repressive. Nel 1542, qualche mese prima della prevista apertura dei lavori, Paolo III promulgò una bolla con la quale prendeva atto del fallimento dei tentativi di pacificazione con il mondo protestante e istituiva la «Sacra Congregazione della romana e universale Inquisizione» (presto identificata anche come Congregazione del Sant’Uffizio), chiamata a coordinare le attività di tutte le Inquisizioni locali, a preservare l’integrità della dottrina romana e a combattere tutte le deviazioni e le forme di dissenso. Tra i pontefici successivi, furono soprattutto Paolo IV (1555-59)e Pio V (1566-72) a fare affidamento su questa struttura per combattere eretici, riformati e altre minoranze religiose, prima fra tutte quella ebraica. Soltanto Pio IV (1559-65), alsecolo Gian Angelo de’ Medici, provò a porre degli argini al potere del temutodicastero, ma i risultati del suo operato non furono duraturi e le sue stesse scelte oscillarono fra prudenza e intransigenza. Fu lui, per esempio, ad autorizzare lo sterminio della comunità valdese [▶ cap. 2.6] stabilitasi in Calabria, nel 1561 e a combattere con determinazione la diffusione del calvinismo sul territorio francese.

Negli anni, la rete inquisitoriale si allargò e consolidò, diventando capillare soprattutto sul territorio italiano; qui, i giudici aprirono processi contro tutti coloro che erano sospettati di aver coltivato simpatie luterane, soffocando di fatto tutti i focolai della nuova fede che nascevano nella penisola.

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I ghetti ebraici

Come si è visto, l’azione repressiva postconciliare colpì l’ebraismo, da sempre avvertito come una minaccia al cristianesimo e alla società dei credenti. Con la pubblicazione della bolla Cum nimis absurdum da parte di Paolo IV, nel 1555, vennero posti forti limiti ai diritti delle comunità ebraiche nello Stato pontificio: agli ebrei fu imposto di abitare in luoghi separati dal resto delle comunità cittadine e di indossare abiti con segni di riconoscimento. I luoghi di culto vennero chiusi o demoliti, fu proibito il lavoro durante le festività del calendario liturgico cattolico, ai medici fu negato il diritto di curare i cristiani.

Queste limitazioni finirono pian piano per essere estese anche agli altri Stati italiani e – soprattutto nell’area centrosettentrionale della penisola – furono creati diversi ▶ ghetti, fra i quali quelli di Roma (1555), Firenze (1561), Bologna (1566); qui vennero confinati tutti gli individui di fede giudaica, con l’obbligo di vivere sotto stretto controllo e secondo le regole imposte dalla Santa Sede.

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I libri proibiti

Alla fine degli anni Cinquanta fu predisposto anche l’Indice dei libri proibiti, un elenco di tutte le opere che i cattolici non potevano leggere né possedere [ 5]. Nella lista figuravano non solo gli autori che avevano espresso posizioni esplicitamente contrarie alla dottrina di Roma, ma anche quelli che avevano affermato idee ritenute immorali, pericolose o destabilizzanti, come Niccolò Machiavelli, Erasmo da Rotterdam e altri esponenti della cultura umanistica e rinascimentale. Fra i testi messi al bando c’erano anche decine di edizioni delle Sacre Scritture, nella maggior parte dei casi tradotte in volgare (francese, spagnolo, tedesco, italiano, inglese, fiammingo). I trattati di astrologia e magia furono vietati, così come molti libri di teologia scritti in una lingua diversa dal latino, che poteva renderli disponibili a un pubblico alfabetizzato più ampio, non esclusivamente appartenente alle gerarchie clericali.

L’Indice fu aggiornato nei decenni successivi, lasciando aperta la possibilità di espurgare le opere da alcuni passaggi proibiti e consentendo la lettura della Bibbia in volgare solo dietro la concessione di speciali licenze. Le decisioni centrali della Chiesa su questa materia furono inoltre affiancate da iniziative locali, animate da soggetti che intendevano mettere in mostra il loro zelo per ricevere in cambio incarichi di prestigio. Nel 1580 fu pubblicato a Parma un Indice che si distinse per il suo rigore, colpendo letterati di primo piano quali Ludovico Ariosto e Pietro Bembo.

Censura e conformismo

Gli effetti complessivi di questa opera di controllo furono devastanti. La circolazione del sapere fu gravemente ostacolata e la cultura letteraria, filosofica e scientifica del tempo assunse i tratti del conformismo, dissuadendo gli intellettuali dall’affrontare le questioni più spinose e favorendo, al contrario, la produzione di opere apologetiche, incentrate unicamente sulla promozione delle dottrine ufficiali. Gli operatori del settore – committenti, scrittori, stampatori, librai – finirono vittime della cultura del sospetto, diventando censori preventivi dei loro stessi lavori nel tentativo di non incorrere nelle punizioni ecclesiastiche.

Il poema epico-cavalleresco più significativo del periodo, la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (ultimata nel 1575), fu sottoposto a una lunga serie di esami, richiesti in gran parte dallo stesso autore, che amplificava nella sua stessa psiche le ansie derivanti dalla repressione e temeva di aver reso i suoi versi permeabili a tentazioni etero dosse. L’opera fu letta da severi revisori come i cardinali Scipione Gonzaga e Silvio Antoniano, per poi essere sottoposta anche al giudizio dell’Inquisizione di Ferrara. I pareri positivi non convinsero il poeta ad abbandonare il proposito di riscrivere l’opera. Fu così che si giunse, nel 1593, alla pubblicazione della Gerusalemme conquistata, una versione rimaneggiata del poema in cui la trama era più chiaramente orientata verso l’imitazione dei modelli antichi, i protagonisti erano privi delle pulsioni erotiche e dei travagli interiori che caratterizzavano la prima versione, gli episodi incentrati sulla magia e sulle presenze diaboliche erano largamente modificati [ 6].

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Il primato del latino

L’azione censoria si concentrò anche sui testi destinati a un pubblico non colto, dotato di una dimestichezza solo parziale con le pratiche di lettura o avvezzo alla ricezione passiva dei contenuti, attraverso la trasmissione orale. Le autorità ecclesiastiche diedero infatti priorità assoluta al latino, togliendo dalla circolazione molti scritti devozionali che da secoli nutrivano la pietà di uomini e donne di ogni ceto.

Furono in particolar modo i sudditi degli Stati italiani – dove la rete dell’Inquisizione era più forte e capillare – a pagare il prezzo di queste scelte. La lentezza che contraddistinse i processi di alfabetizzazione nella penisola fu anche conseguenza di un clima che restrinse i più elementari spazi di libertà, di pensiero e di parola, riservando a pochissimi privilegiati la pratica della scrittura e la fruizione dei testi scritti.

14.4 Il controllo delle devozioni e la caccia alle streghe

Dalla lotta all’eresia alla lotta contro la superstizione

I fascicoli dell’Inquisizione rivelano un vivace rapporto di incontro/scontro fra la cultura ecclesiastica e quella dei fedeli, talvolta poco inclini a modificare i propri comportamenti anche di fronte alle ammonizioni dei giudici. Nonostante gli interventi repressivi, molte comunità locali restavano infatti saldamente ancorate alle loro abitudini, alle loro feste, al loro modo di vivere le devozioni, senza tener conto delle prescrizioni imposte dall’alto. Gli stessi sacerdoti raramente potevano contare su una solida istruzione e non possedevano quindi gli strumenti per governare la vita religiosa dei parrocchiani. In molti casi sceglievano di assecondare passivamente le loro iniziative o contribuivano al perpetuarsi di consuetudini consolidate.

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Consapevoli di questa situazione, le autorità centrali pianificarono, sia pure in maniera non organica, una strategia di reazione. Dal momento che negli anni Ottanta del Cinquecento, in particolar modo sul territorio italiano, la lotta all’eresia si poteva considerare ormai conclusa e non c’erano più elementi concreti per temere una diffusione del protestantesimo, le energie dei tribunali furono convogliate verso il controllo di uomini e donne inclini a coltivare e alimentare credenze e superstizioni che, anche se non esplicitamente contrarie all’ortodossia, non risultavano comunque in linea con le liturgie ufficiali. Rientravano in questa categoria tutte le pratiche legate a rimedi, pozioni, fatture, malocchi e formule propiziatorie, talvolta influenzati da culture arcaiche che pretendevano di mettere l’individuo in contatto diretto con il sovrannaturale, senza mediazione sacerdotale.

Nel 1586, Sisto V (1585-90) pubblicò la bolla Coeli et terrae creator (“Creatore del cielo e della terra”), con la quale condannava la magia, e l’anno successivo confermò il primato del Sant’Uffizio su tutti i reati contro la fede. Ai vescovi restavano le giurisdizioni ordinarie sui crimini comuni che coinvolgevano i membri del clero, che diedero luogo a numerosi processi criminali e a dure azioni repressive, mentre l’Inquisizione doveva occuparsi di tutti gli altri reati, fra i quali non solo l’eresia manifesta, ma anche i sortilegi, gli incanti, le divinazioni, l’abuso dei sacramenti e l’▶ apostasia.

I mille volti delle streghe, gli esorcisti e la lotta al maleficio

Una delle conseguenze più drammatiche di questa azione di disciplinamento fu la diffusione delle cacce alle streghe, cioè la persecuzione di donne accusate di praticare malefici e di stringere patti con il diavolo. Il fenomeno interessò vaste aree dell’Europa e persino le colonie americane, mostrando i risvolti più violenti dove il reato di stregoneria finì sotto il controllo non dei tribunali ecclesiastici ma di quelli secolari, come in Germania, Francia, Inghilterra e nel Nuovo Mondo anglosassone [▶ altri LINGUAGGI, p. 444]. L’Inquisizione romana mostrò maggiore cautela nella persecuzione delle presunte colpevoli, anche perché i confini fra stregoneria e superstizione erano molto labili: non erano rari i casi di donne che godevano della fiducia della comunità per le loro capacità di manipolare sostanze terapeutiche, ma che cadevano in disgrazia per interventi mal riusciti, o semplicemente perché erano sole e prive di protezioni all’interno del corpo sociale.

I processi celebrati in grandi centri come Napoli e Venezia e che in molti casi coinvolgevano individui provenienti dalle aree rurali, mostrano tendenze diffuse. Le donne che nel tardo Cinquecento apparivano di fronte ai tribunali frequentavano le messe e recitavano le preghiere seguendo le prescrizioni delle autorità, ma allo stesso tempo invocavano il diavolo per colpire i loro nemici, rubavano reliquie e altri oggetti sacri per organizzare riti propiziatori, si appropriavano dell’olio benedetto spalmandoselo sulle labbra e sugli occhi, nella convinzione che piacesse ai loro amanti. Altre cercavano di indovinare i luoghi in cui si trovavano gli oggetti smarriti o rubati, o confezionavano pozioni da somministrare alle partorienti per proteggere i nascituri. Solo in alcuni casi confessavano di aver partecipato a un  sabba diabolico, forse perché sfiancate da lunghissimi interrogatori e torture, di fronte a giudici animati da pesanti preconcetti e disposti a tutto pur di ottenere dalle imputate risposte aderenti alle loro aspettative [▶ FONTI].

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715