12.3 Gli Stati italiani e l’inizio delle “Guerre d’Italia”

12.3 Gli Stati italiani e l’inizio delle “Guerre d’Italia”

L’instabilità politica e la “discesa” di Carlo VIII

Alla fine del Quattrocento, la penisola italiana viveva un periodo di profonda crisi. Gli equilibri sanciti dalla pace di Lodi (1454) erano ormai compromessi, tanto più che con la morte del signore di Firenze Lorenzo de’ Medici, nel 1492, venne meno non solo la guida di una delle più importanti formazioni politiche italiane, ma anche un uomo abile nel garantire la pacifica convivenza fra gli Stati della penisola. Nello stesso anno ebbe inizio il pontificato di Rodrigo Borgia, divenuto papa con il nome di Alessandro VI (1492-1503), che si distinse per la sua vita dissoluta e per lo smodato desiderio di accrescere le ricchezze e il prestigio della sua famiglia. Le mire espansionistiche veneziane e milanesi completavano un quadro di grave instabilità, ben ritratto da pensatori come Machiavelli e Gucciardini, i quali, anche in virtù di un’esperienza maturata sul campo coprendo importanti cariche istituzionali a Firenze tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, cercarono di tradurre in termini concreti l’urgenza di una solida riorganizzazione politica della penisola.

Una delle posizioni più deboli era quella del Regno di Napoli, ormai nel mirino della Francia di Carlo VIII, che desiderava far valere il diritto ereditario risalente al dominio angioino  [▶ cap. 10.3]. Nell’estate del 1494 il sovrano francese si mise in marcia con un esercito ben attrezzato, comprendente migliaia di mercenari. L’11 settembre fu accolto ad Asti da Ludovico Maria Sforza, detto “il Moro”, reggente del Ducato di Milano e impegnato a gestire il fragile potere del nipote, il duca Gian Galeazzo  [▶ protagonisti]. Nel febbraio dell’anno successivo Carlo arrivò a Napoli, senza sottoporre a fatiche eccessive i suoi soldati. Egli non riuscì però a conseguire risultati durevoli, dal momento che gli Stati italiani – proprio su iniziativa del Moro, divenuto nel frattempo duca a causa della prematura morte di Gian Galeazzo – fecero venir meno il loro appoggio iniziale al sovrano francese, temendo che la sua presenza potesse farsi troppo ingombrante. Si formò anzi una Lega antifrancese, alla quale parteciparono, oltre a Milano, a Venezia e al papato, anche l’Impero di Massimiliano I e la Spagna di Ferdinando e Isabella.

Carlo VIII fu costretto a fare ritorno in Francia e ad accettare il reinsediamento degli aragonesi sul trono napoletano; tuttavia, i contraccolpi sul sistema politico italiano furono enormi. La “discesa” dell’esercito di Carlo, infatti, aprì un lungo periodo di contese militari per l’egemonia territoriale nella penisola: un insieme di conflitti, definiti dalla storiografia “Guerre d’Italia”, che avrebbero sconvolto gli Stati italiani fino alla metà del Cinquecento.

  protagonisti

Ludovico il Moro

Dopo avere accolto Carlo VIII ad Asti nel settembre del 1494, Ludovico il Moro raggiunse il culmine del suo potere. Viste le sue capacità di influenza sulle sorti della politica della penisola italiana, il suo obiettivo era quello di farsi arbitro nei rapporti fra i diversi Stati. Consapevole dell’ormai straripante pericolo derivante dalla Francia, cercò infatti di cambiare le carte in tavola cercando in un primo momento l’alleanza di Venezia e poi quella di Firenze. Le mosse non conseguirono gli effetti sperati, rivelandosi al contrario controproducenti. Fu infatti costretto a deporre le armi in seguito all’ascesa al trono di Luigi XII nel 1498, già acerrimo nemico di Ludovico e pretendente al Ducato di Milano (in virtù della sua discendenza da parte di madre dalla potente famiglia Visconti, che aveva occupato quel trono).

Pur essendo al centro di una convulsa serie di vicende politiche, Ludovico seppe imprimere al suo territorio negli ultimi due decenni del Quattrocento (fu reggente dal 1480 al 1494, poi duca fino al 1499) una grande spinta culturale. Fu lui a commissionare a Leonardo da Vinci il celebre affresco detto L’Ultima cena, nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie.

La Firenze di Savonarola e l’avventura di Cesare Borgia

 A Firenze, il passaggio di Carlo VIII indebolì il potere mediceo, lasciando così spazio alla predicazione del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-98). Il religioso denunciava la corruzione del potere secolare e di quello ecclesiastico, preannunciando un’imminente vendetta di Dio contro i peccati dell’umanità e affermando l’urgenza di una rigenerazione morale e sociale [ 8]. I suoi seguaci ottennero la costituzione di un Consiglio composto da ben 3000 cittadini, con il fine di scardinare il potere della vecchia aristocrazia. Le reazioni, tuttavia, non si fecero attendere. La più risoluta fu quella di Alessandro VI, che scomunicò Savonarola nel 1497, favorendo l’apertura di un processo che portò alla sua condanna a morte l’anno successivo.

Il figlio naturale del papa, Cesare Borgia – detto “Il Valentino” perché aveva ricevuto dal re di Francia Luigi XII il titolo di duca di Valentinois –, riuscì per breve tempo a imporre il suo dominio personale su alcune aree della Romagna e delle Marche, grazie al sostegno francese. L’impresa tuttavia naufragò, anche a causa della morte del padre (1503): il nuovo papa, Giulio II (1503-13) interpretò infatti queste iniziative come una minaccia al dominio temporale della Chiesa e si impegnò per riaffermare la sua autorità sul settore centrosettentrionale della penisola, dove anche Venezia aveva mostrato mire espansionistiche pericolose, occupando Rimini e Faenza (precedentemente sotto il

controllo del Valentino). Nel 1508, a Cambrai, il papa riuscì a promuovere un’alleanza fra l’imperatore Massimiliano, la Francia e la Spagna contro la Repubblica di Venezia, che il 14 maggio del 1509 fu sconfitta ad Agnadello, non lontano da Milano.

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La crisi e il nuovo equilibrio

La battaglia di Agnadello segnò l’apertura di un lungo periodo di crisi per gli Stati italiani, che presero coscienza dei loro limiti di fronte al potere delle grandi monarchie europee e compresero di non poter più coltivare mire egemoniche sulla penisola. Venezia riuscì a limitare le sue perdite territoriali grazie a un’abile azione diplomatica che evidenziò le divisioni del fronte avverso, ma anche grazie alla cessata ostilità di Giulio II, soddisfatto per aver salvaguardato le sue prerogative e intimorito dal fatto che le potenze vincitrici (l’Impero, la Francia e la Spagna) potessero a loro volta nutrire propositi di conquista.

Questo, in effetti, fu ciò che accadde nel 1515, quando il nuovo re di Francia Francesco I di Valois (1515-47) decise di oltrepassare le Alpi a capo di un esercito di 10 000 cavalieri e 30 000 fanti, in massima parte ▶ lanzichenecchi [ 9] reclutati in territorio tedesco. Egli entrò a Milano da vincitore, ponendo le basi per la firma della Pace di Noyon con la Spagna (1516), con la quale le due potenze sancirono, di fatto, l’esistenza di un nuovo equilibrio nella penisola italiana: la parte settentrionale veniva posta sotto il controllo francese, quella meridionale era assegnata al potere spagnolo.

12.4 Il sogno universalistico di Carlo V

Da Gand all’impero planetario

 Il 24 febbraio del 1500 nacque a Gand, nelle Fiandre, Carlo d’Asburgo, da Filippo il Bello (figlio dell’imperatore Massimiliano I) e Giovanna la Pazza (figlia dei “re cattolici” Ferdinando e Isabella). Il giovane Carlo crebbe in un ambiente impregnato di cultura aristocratica e cavalleresca, nel quale l’obbedienza alla tradizione si affiancava a una concezione sacrale del potere monarchico, chiamato a offrire ai sudditi dei modelli di comportamento, oltre che una direzione politica. In quegli anni, pochi avrebbero immaginato che quel bambino potesse diventare il sovrano più potente d’Europa.

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In seguito alla morte di Ferdinando il Cattolico nel 1516, Carlo si trovò a ereditare il trono di Spagna, comprendente i Paesi Bassi e l’Italia meridionale, oltre alle colonie del Nuovo Mondo che si andavano rapidamente allargando [ 10]. Sfruttava il diritto ereditario di sua madre, che aveva già mostrato in diverse occasioni segni di follia, mostrandosi inadeguata al governo del paese [ 11]. Furono le Cortes a riconoscere al giovane la legittimità del ruolo prestandogli un giuramento di fedeltà, ma anche ottenendo in cambio la promessa della conservazione delle consuetudini locali e l’impegno a escludere gli stranieri dal conferimento di cariche e benefici.

Nel gennaio del 1519, con la morte dell’altro nonno, l’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I, Carlo si vide spianata anche la strada verso la dignità imperiale, riconosciutagli pochi mesi più tardi (27 giugno) dalla Dieta di Francoforte, che lo preferì all’altro candidato, Francesco I, re di Francia. A rendere possibile questo successo furono due fattori, uno di natura politica, l’altro di carattere economico:

  • sul piano politico, i principi tedeschi si erano dimostrati più volte ostili alle pretese di Francesco I, e gli negarono ora il voto per il timore di vedere ridotte le loro prerogative territoriali;
  • sul piano economico, invece, il punto di forza di Carlo fu il sostegno dei grandi elettori, ottenuto in cambio di una sostanziosa quantità di oro raccolta grazie ai prestiti dei banchieri di Augusta, i Fugger e i Welser.
Il sovrano e l’identità ispanica

In quegli anni il regno iberico comprendeva diverse città, come Granada e Cordoba, che contavano fra i 30 000 e i 40 000 abitanti. Siviglia iniziò una straordinaria espansione sfruttando i commerci atlantici, mentre Toledo si affermò come centro di potere religioso e divenne sede di un’importante cattedra episcopale, che si distinse anche nell’opera di conversione degli “infedeli”. La corte era itinerante, cercando così di far sentire la sua presenza in un territorio profondamente segmentato e in rapida trasformazione (Madrid, che sarebbe diventata più tardi capitale del regno e sede stabile del sovrano, era allora un piccolo centro rurale di circa 4000 abitanti).La società presentava una stratificazione comune a quella di altre aree europee, con una nobiltà divisa al suo interno, un corpo ecclesiastico molto forte organizzato in diocesi, parrocchie e ordini religiosi, un nutrito ceto mercantile che animava le comunicazioni interne e quelle via mare con l’esterno, una popolazione rurale fatta di piccoli proprietari, salariati e braccianti sottoposti a molteplici giurisdizioni.

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L’ascesa al trono di Carlo suscitò non pochi timori nel paese. Fermo restando che la provenienza di un sovrano da un contesto diverso non era affatto insolita, era forte il timore che la tutela delle autonomie locali e degli interessi nazionali potesse venir meno, in un dominio tanto ramificato e vasto. Furono soprattutto i centri urbani a mostrare segni di disagio, in particolare quando ci si accorse che i prodotti dell’artigianato – su tutti, i panni di lana – percorrevano itinerari disegnati dalla corona finendo sui banchi dei mercati delle Fiandre, dove dovevano fare i conti con la concorrenza fiamminga. Altrettanto importanti furono le tensioni che segnarono l’area basca, a ridosso dei Pirenei, e quella catalana, che si mostrarono particolarmente gelose delle loro prerogative, manifestando insofferenza nei confronti della monarchia.

Nel 1520, alcune città castigliane approfittarono dell’assenza dell’imperatore per rivendicare un ruolo più importante nelle decisioni politiche, soprattutto in campo fiscale, dando vita a un movimento che fu definito dei Comuneros. Ben presto il malcontento si estese alle campagne, assumendo anche un carattere antifeudale e rendendo concreto il rischio di un sovvertimento dell’ordine vigente. Gli insorti furono sconfitti a Villalar nel 1521, e Carlo riprese il controllo del territorio grazie a un’alleanza con i grandi aristocratici, chiamati a governare a livello locale in suo nome.

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L’imperatore dimostrò comunque di aver colto l’ammonimento proveniente da queste difficoltà. In particolare, cercò di rafforzare la propria identità spagnola, apparsa fino a quel momento incerta. Imparò la lingua, si circondò di consiglieri castigliani e allungò i periodi di permanenza accanto ai suoi sudditi. Sposò inoltre la portoghese Isabella d’Aviz e diede al regno un erede: Filippo.

Il controllo dell’impero

L’impresa più difficile, per Carlo, era mantenere il controllo di un impero vastissimo senza poter assicurare ovunque la sua presenza fisica. Egli scelse di viaggiare molto e in alcuni casi, per consolidare l’immagine del potere del proprio casato, conferì importanti incarichi a membri della sua famiglia. In alcuni contesti particolarmente complessi si servì invece di figure a lui vicine (come il fiammingo Charles de Lannoy, viceré di Napoli), come alter ego visibile dell’imperatore.

In virtù di una concezione della dignità imperiale di ascendenza medievale, Carlo cercò di accreditarsi come autorità morale alla guida di un universo cristiano che, pur esteso ormai ad altre aree del mondo, manteneva il suo cuore pulsante nel continente europeo. Si arrogò quindi il ruolo di pacificatore interno dei suoi territori, favorendo la concordia dei principi cristiani e identificando nel “turco” la principale minaccia esterna. Tuttavia, l’unità religiosa si trovò ben presto minacciata dalla crescita di un forte dissenso verso la Chiesa di Roma e poi – come vedremo nel prossimo capitolo – spezzata dalla diffusione della Riforma protestante.

Il complesso sistema imperiale mostrò del resto molti altri punti deboli: furono le autonomie riconosciute ai diversi territori, in particolar modo, a dimostrarsi di difficile gestione, visto che i potentati locali non persero occasione di sfruttare il malcontento generato dal pesante carico fiscale per farsi promotori di istanze disgreganti.

Carlo, la Francia e la penisola italiana

A interferire nel progetto di potenza di Carlo fu innanzitutto la Francia, letteralmente accerchiata dai domini imperiali. Uno dei principali motivi di contesa fra Carlo V e Francesco I fu l’Italia.

La penisola italiana contava all’inizio del Cinquecento circa 9 milioni di abitanti, ma la popolazione crebbe nel giro di pochi decenni fino a 11 milioni. Rispetto ad altre aree europee, il tasso di urbanizzazione era molto alto: la frammentazione politica aveva favorito lo sviluppo di centri con più di 50 000 abitanti, come Milano, Genova, Firenze, Roma e Palermo, mentre altre realtà come Venezia e Napoli avevano assunto dimensioni eccezionali per i livelli medi dell’epoca, entrando nel novero delle città più popolose del continente (la prima contava più di 150 000 abitanti a metà secolo, la seconda superava i 200 000). Il paese deteneva ancora il primato economico grazie a una manifattura fiorente e a un commercio che sfruttava le tratte mediterranee (la penisola avrebbe perso la sua centralità solo con la definitiva affermazione dei commerci atlantici).

L’attenzione dell’imperatore allo spazio mediterraneo diede un ruolo di rilievo all’Italia, considerata come una frontiera naturale che separava i suoi domini da quelli ottomani. Per questa ragione, Carlo tentò di affermare la sua egemonia tessendo una fitta rete di alleanze al fine di indebolire la posizione francese. L’operazione fu complessa e gli Stati italiani non tardarono a comprendere le sue intenzioni, ma la loro cronica debolezza divenne drammaticamente evidente il 6 maggio del 1527, quando 12 000 lanzichenecchi al servizio della corona asburgica arrivarono a Roma senza incontrare alcuna resistenza. Rimasti privi di una solida guida (a causa della scomparsa di Carlo di Borbone, a capo della spedizione) i mercenari sottoposero la “città eterna” a un terribile saccheggio.

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Gli effetti del “sacco di Roma”

L’evento ebbe conseguenze enormi, sul piano culturale, politico e religioso, al punto che molti studiosi ne hanno evidenziato il valore simbolico identificandolo come la fine del Rinascimento. Molti contemporanei lo interpretarono come una catastrofe voluta dalla provvidenza per suggerire l’urgenza di una palingenesi, un cambiamento radicale nella società attuato attraverso il rinnovamento della Chiesa e la riscoperta della sua natura spirituale. Ma la crisi del Regno pontificio venne anche considerata come il segno più evidente di un più generale declino degli Stati italiani, che dovevano ormai riconoscere la loro debolezza e la loro marginalità nel contesto delle egemonie europee.

Risulta significativo il fatto che il dibattito sull’unità della penisola si spostò dal piano della politica a quello delle lettere e delle arti. Un momento di svolta si era avuto già nel 1525 con la pubblicazione delle Prose della volgar lingua da parte di Pietro Bembo, il quale riconobbe la necessità di individuare una lingua che potesse essere compresa nei diversi contesti degli Stati italiani. Il modello scelto fu quello dei grandi scrittori fiorentini del Trecento, come Petrarca e Boccaccio. Le idee di Bembo ebbero una veloce risonanza, ma il dibattito non si fermò: nel 1529 fu infatti pubblicato il dialogo Il Castellano di Gian Giorgio Trissino, che suggerì di operare una selezione fra i volgari usati nelle diverse corti, offrendo al contempo una viva testimonianza sulle diverse parlate del tempo. Questi tentativi di reagire alla crisi non oscurarono di certo l’atmosfera colma di angoscia degli anni Trenta del secolo, che trovò anche una compiuta espressione nel celebre Giudizio universale di Michelangelo Buonarroti, commissionato da papa Pao­lo III (1534-49): un’opera grandiosa che collocava tanto i dannati quanto i beati in un contesto caotico e privo di certezze [ 12].

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Nel 1530 fu la Pace di Cambrai (la cosiddetta “Pace delle due dame”) a stabilire le sfere di influenza di Carlo V e Francesco I: il primo si vedeva confermati tutti i suoi domini italiani, a partire dal Ducato di Milano; il secondo conservava la Borgogna, pur pretesa dal suo nemico.

L’affermazione del controllo asburgico non riuscì a placare le tensioni presenti nella penisola. Realtà come Genova e Firenze si dimostrarono instabili, dovendo gestire le rivolte dei sudditi che mettevano in discussione i poteri costituiti. La situazione non era certo più tranquilla nei domini diretti dell’imperatore, come per esempio il Regno di Napoli che attraversò un momento critico nel 1547: nobili, rappresentanze cittadine e popolo si coalizzarono in un fronte comune di resistenza costringendo la corona a rinunciare all’introduzione dell’Inquisizione spagnola, considerata come strumento di centralizzazione del potere giudiziario e di aggressione ai privilegi esistenti. L’episodio è rivelatore di un problema di più ampio nei rapporti fra Spagna e Italia meridionale, visto che proprio in quel vasto territorio, dotato di importanza strategica per la corona imperiale, i poteri locali conservarono abbondanti prerogative.

12.5 L’espansione della potenza ottomana

Il sultano e la guida politica del mondo islamico
 Il dominio europeo di Carlo V doveva guardarsi anche dalla minaccia rappresentata dalla potenza ottomana, che aveva ormai occupato i Balcani e controllava la costa meridionale del Mediterraneo, subendo invece a Oriente la ricostruzione dell’Impero persiano [ 13]. Fu il sultano Selim I (1512-20) ad arginare questo pericolo, rafforzando anche il suo potere interno tramite il massacro di un gran numero di sudditi sciiti  [▶ cap. 3.1]. Al 1516-17 risale la conquista della Siria e dell’Egitto, che consentì di controllare le principali vie commerciali che portavano all’Oceano Indiano attraverso il Golfo Persico e il Mar Rosso, ma ebbe anche un grande significato sul piano morale e religioso, essendo le città sacre di La Mecca e Medina sotto il dominio egiziano.


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Gli Stati del Nord Africa cominciarono a guardare al sultano come protettore e capo riconosciuto dell’islam sunnita, sentendosi più sicuri nell’esercizio della guerra di corsa sul Mediterraneo, di fatto una delle loro principali fonti di ricchezza: agli introiti derivanti dalle merci, infatti, bisognava aggiungere quelli legati agli uomini catturati in mare, spesso ridotti in schiavitù e liberati in cambio di ricchi riscatti. Il corsaro più intraprendente fu certamente Khair ad-Din (meglio conosciuto come Ariadeno Barbarossa [ 14]), signore di Algeri, che conservò la sua autonomia nonostante i tentativi di grandi potentati del tempo di ridurlo al loro servizio e arrivò in diverse occasioni a fare ricchi bottini sulle coste italiane.

Anche l’espansione balcanica continuò in maniera consistente. Nell’estate del 1526, Solimano “il Magnifico” (Sulaiman, 1520-66) riuscì ad arrivare fino a Buda, trasformando l’Ungheria in uno Stato vassallo [ 15], e nel 1529 si spinse perfino ad assediare la stessa Vienna. Il successivo scontro con il Sacro Romano Impero condusse le due potenze a firmare una pace, con la quale si riconosceva a Carlo V il possesso di un settore nordoccidentale del territorio ungherese.

L’organizzazione dell’impero
Nonostante l’attenzione dei sultani alla dimensione religiosa del loro potere, l’Impero ottomano non era una compagine unicamente islamica. Nei confini controllati nel 1530 da Solimano il Magnifico vivevano circa 30 milioni di persone, tra cui molti cristiani ed ebrei. Dei 400 000 abitanti della capitale, Istanbul, solo poco più della metà era musulmana. L’impero era fondato dunque su una delicata convivenza fra gruppi di diversa cultura e religione (che non escludeva comunque, come si è visto nel caso del massacro degli sciiti per mano di Selim I, lo scoppio di violenti contrasti). I cristiani potevano professare il loro credo dietro il pagamento di una tassa e contribuivano al reclutamento dell’esercito con la leva forzata dei loro figli, addestrati a diventare membri del corpo scelto di fanteria, composto dai cosiddetti giannizzeri [ 16].

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I cavalieri al servizio del sultano ricevevano terre in cambio del servizio militare, ma le concessioni erano solo temporanee e non permettevano il consolidamento di poteri assimilabili a quelli dei feudatari europei. L’autorità centrale era dotata di un notevole potere di intervento, ma era anche spesso indotta a trovare forme di compromesso con le realtà locali e periferiche. La civiltà ottomana era quindi ben più complessa rispetto all’immagine che emergeva dalle descrizioni del “turco” destinate al pubblico dell’Europa cristiana di Carlo V e dei suoi successori: lo spirito di contrapposizione sottraeva al nemico ogni sfumatura, rappresentando invece gli “infedeli” come avvezzi a sottostare a un potere cieco e dispotico, privo di qualsiasi forma di umanità.

12.6 I nuovi equilibri del continente europeo

La conclusione del conflitto franco-asburgico e la divisione dell’impero

Con la morte di Francesco I, avvenuta nel 1547, il conflitto tra Valois e Asburgo si spostò dalla penisola italiana, ormai soggetta all’egemonia imperiale, al confine renano. Approfittando delle divisioni religiose del mondo tedesco e dell’insubordinazione dei principi che – come vedremo – aderirono alla Riforma, il successore al trono di Francia, Enrico II (1547-59), promosse nuove offensive ma rimase lontano dal raccogliere i risultati sperati. Cercò di sfruttare le pressioni esercitate dal sultano sul fronte orientale della compagine asburgica, ma non riuscì a far pendere la bilancia del conflitto dalla parte dei Valois.

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Carlo V, al culmine di un vorticoso alternarsi di successi e insuccessi, si ritirò nel 1556 in un convento di Yuste, in Estremadura (Spagna sudoccidentale), dove avrebbe trovato la morte due anni più tardi. Comprese sul finire della sua vita che la divisione fra la corona spagnola e quella imperiale era ormai inevitabile, riconoscendo al contempo il fallimento del suo disegno universalistico [▶ FONTI, p. 396].

La spartizione fu così effettuata:

  • i possedimenti derivanti dall’eredità materna (quella della madre Giovanna e dei nonni Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia) vennero assegnati al figlio Filippo;
  • quelli pertinenti direttamente alla casa d’Asburgo (ereditati dal padre Filippo il Bello e dal nonno Massimiliano I) andarono al fratello Ferdinando, sostenuto anche per il riconoscimento ufficiale del titolo di imperatore.

Di lì a poco, nel 1559, fu stipulata la Pace di Cateau-Cambresis, con la quale i Valois riconoscevano una limitata supremazia asburgica sull’area continentale decretando di fatto la sostanziale inutilità di decenni di conflitti [ 17]. I confini francesi tornavano infatti a essere quelli del 1494, a eccezione di Calais e di alcuni territori in Alsazia, entro i confini dell’Impero. Non è semplice comprendere se tali guerre furono espressione di una reale politica di potenza, volta a rafforzare il potere centrale, o guerre dinastiche per imporre i diritti della famiglia regnante  [▶ fenomeni, p. 396]. È certo però che i Valois, pur impegnandosi nella difesa del casato, erano riusciti a consolidare il ruolo della monarchia nella società francese, favorendo anche un processo di identificazione fra corona e nazione. Al contrario, gli Asburgo avevano mantenuto il controllo di un territorio smembrato, impegnando tutti i sudditi in imprese militari percepite come estranee.

Oltre a segnare la fine delle Guerre d’Italia, la pace ebbe un ruolo cruciale nella ridefinizione delle egemonie europee per diversi decenni.

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  fenomeni

L’età di Carlo V tra continuità e rotture

Non è facile tracciare un bilancio sulla parabola del sovrano più potente dell’Europa occidentale nella prima metà del secolo XVI. La storiografia degli ultimi decenni, pur tenendo in conto gli innegabili elementi di rottura che accompagnarono l’esperienza di Carlo V, ha teso ad accentuare la presenza di forti elementi di continuità, visibili sia sul piano dell’organizzazione interna dello Stato sia su quello della politica estera.

I tentativi di rafforzamento del potere monarchico furono soggetti a una consistente quantità di vincoli, dovuti certo all’eterogeneità dei possedimenti, ma anche a una più generale tendenza al rispetto delle consuetudini. Ne derivò la persistenza delle divisioni territoriali e il rafforzamento delle élite nobiliari, pronte ad avvalersi dei loro margini di trattativa nei confronti di un imperatore incline ad accettare compromessi di ogni tipo pur di disporre delle risorse economiche necessarie a sostenere le sue spese militari.

Tra Spagna e impero

Fra le sfide più difficili affrontate dal sovrano ci fu infatti proprio la conciliazione fra le esigenze particolari della corona spagnola – che imponevano una grande attenzione alle priorità economiche e politiche della realtà iberica – e quelle più generali dell’impero. Per soli sedici anni soggiornò in quelle terre, facendo i conti con malumori e sospetti, soprattutto nei momenti in cui diveniva evidente che il peso degli impegni bellici gravava in misura considerevole sulle spalle dei sudditi castigliani. In compenso offrì loro prestigiosi incarichi civili e militari, accompagnati da una serie di benefici che si rendevano disponibili nei possedimenti del Nuovo Mondo.

FONTI

I ritratti dell’imperatore

Carlo V, insieme ai membri della sua famiglia, commissionò diverse opere al celebre pittore italiano Tiziano Vecellio, straordinariamente apprezzato per la sua abilità e ritenuto in grado di valorizzare l’immagine dell’imperatore attribuendogli sicurezza e determinazione.


Tiziano, Ritratto di Carlo V a cavallo, 1548.

Tiziano, Ritratto di Carlo V, metà XVI secolo.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715