4. Il mondo carolingio

I franchi

Come tutte le altre popolazioni barbariche, i franchi costituivano un’ag­gregazione aperta e instabile di gruppi familiari germanici. Presto egemonizzati dai salii guidati dal re Clodoveo – chia­ma­ti poi Merovingi dal nome del leg­gendario nonno di Clodoveo, Meroveo – i franchi progressivamente sottomisero e coordinarono altri clan germanici partendo dal loro nucleo territoriale originario nella Gallia nordorientale (Austrasia), verso la Neustria a nord-ovest, l’Aquitania, la Burgundia e la Turingia [ 4]. La Storia dei Franchi di Gregorio vescovo di Tours, illustrando la conversione di Clodoveo al cristianesimo niceno, permette di cogliere uno dei principali punti di forza della sperimentazione politica franca. Al battesimo del re, nel 496, Gregorio fece infatti seguire la conversione del suo seguito armato e poi di tutta la popolazione franca. Come un nuovo Costantino, il re doveva ora garantire l’unità religiosa del regno, minacciata da alamanni e visigoti, in quel momento ariani. Questo significò l’avvio di una stretta collaborazione tra aristocrazie guerriere ed élite vescovili di estrazione sociale e cultura romana.

Un altro elemento che spiega la grande efficacia dei franchi nel costruire una solida struttura statale è l’organizzazione militare e lo stretto nesso tra autorità regia ed élite aristocratiche. Alla morte di Clodoveo il regno andava dal Reno ai Pirenei e i suoi successori sottomisero il Regno dei Burgundi e ampie zone della Germania: un’estensione notevole, che consentiva all’aristocrazia franca di essere la più ricca e di disporre di più terre di qualsiasi élite nell’area euromediterranea.

Il rapporto beneficiario-vassal­la­tico

L’aristocrazia franca gestiva le proprie terre secondo modalità proprie delle grandi famiglie senatorie. Tipicamente germanico era invece il coordinamento di clientele armate, composte di nuclei di uomini legati da rapporti di fedeltà personali. L’efficacia di queste clientele, che affiancavano la massa del popolo in armi, si pose alla base della tradizione vassallatica, caratterizzata da un vincolo personale reciproco tra il vassus (chiamato indifferentemente anche vasallus, valvassor, miles, fidelis), giuridicamente libero ma tenuto al servizio in armi e all’obbedienza, e il senior, che gli garantiva protezione e sostentamento. Pur in via facoltativa, ben presto si affermò l’uso di remunerare il servizio vassallatico mantenendo il fidelis nella casa signorile o, più frequentemente, assegnandogli in usufrutto temporaneo un beneficio (beneficium), molto spesso una terra. La cerimonia attraverso la quale un uomo libero si affidava a un altro uomo prendeva il nome di accomendatio, secondo l’uso tardoantico, o “omaggio” (homagium/hominagium), e prevedeva che il vassallo prima ponesse le sue mani giunte in quelle del suo signore e poi giurasse sulle reliquie dei santi. A differenza di altri rapporti di dipendenza economica che riguardavano contadini e proprietari terrieri, i franchi connotarono questo legame sotto l’aspetto prevalentemente politico-militare.

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L’ambiguità delle istituzioni civili ed ecclesiastiche
 La sintesi latino-barbarica operata dai franchi si giocò anche nel ruolo cruciale dell’episcopato, che godeva di un prestigio e di una capacità pastorale in grado di integrare, sul piano sociale e culturale, l’azione politico-militare dei sovrani. Questo ambiguo intreccio tra amministrazione civile ed ecclesiastica da un lato permetteva ai re di fornire protezione militare ed esenzioni fiscali alla Chiesa, intervenendo anche nelle elezioni episcopali; dall’altro consentiva ai vescovi di governare ampi territori senza per questo essere funzionari pubblici o vassalli del re. I diplomi di  immunità concessi dal re ad alcuni grandi centri vescovili e monastici garantivano, in cambio del consenso intorno al potere regio, il diritto di non essere sottoposti alla tassazione regia e di provvedere autonomamente alla difesa o ai lavori di interesse comune.

4. Il mondo carolingio

La dinastia pipinide-carolingia

Impoverito da minori entrate fiscali e da una politica di successione ereditaria che prevedeva la spartizione della regalità tra tutti i figli maschi provenienti da varie unioni matrimoniali, il potere merovingio attraversò una fase di debolezza tra il VII e i primi dell’VIII secolo. Nel secondo decennio dell’VIII secolo Carlo Martello (684-741), capo dell’aristocrazia di  palazzo merovingia, diede tuttavia inizio a una serie di conquiste, estendendo i domini franchi a est, in Frisia e Turingia, e a sud, in Provenza e in Aquitania, dove contrastò efficacemente le incursioni arabo-musulmane (si pensi alla vittoria, tanto celebre quanto mitizzata, conseguita a Poitiers nel 732).

Questo dinamismo politico e militare favorì l’affermazione di una nuova dinastia di maestri di palazzo, detta pipinide-carolingia. I sovrani merovingi, senza ormai alcun potere effettivo, furono deposti nel 751, quando Pipino III, figlio di Carlo, assunse il titolo regio, corroborato prima dall’unzione dell’arcivescovo di Magonza Bonifacio e poi dall’unzione dello stesso papa romano, Stefano II, che aveva bisogno dell’aiuto dei franchi contro i longobardi. Questo gesto, senza precedenti nel mondo franco, determinò un inestricabile intreccio tra politica regia ed ecclesiastica: entrambe le sfere di potere si sovrapponevano e si davano forza a vicenda.

Le riforme ecclesiastiche

Religione e armi resero l’aristocrazia franca, coordinata dai Pipinidi-Carolingi, la forza egemone in Europa. In primo luogo, la politica pipinide si caratterizzò per il sostegno ai vescovi e alla cristianizzazione dei pagani del Nord. La Chiesa franca viveva una fase di declino: con il progressivo mescolarsi delle aristocrazie gallo-romane e franche, più frequentemente salivano al soglio episcopale uomini provenienti da famiglie di tradizione militare, violenti e ignari dell’etica pastorale tardoantica, fenomeno che costituiva una minaccia anche sul piano dell’ordine civile. I Pipinidi garantirono una profonda riforma delle strutture ecclesiastiche, facendo affidamento sul monachesimo delle isole britanniche, sviluppatosi tra il VI e il VII secolo per ispirazione romana e orientale. Questo movimento monastico, animato dall’esigenza di praticare la penitenza e la purificazione interiore, fu caratterizzato da un forte impegno missionario verso le tribù non cristiane. L’ampio programma di disciplinamento del mondo ecclesiastico ispirò un riordinamento delle diocesi, un’espansione dell’area di influenza cristiano-romana e una duratura organizzazione culturale, che trovò l’apice nella scuola palatina carolingia.

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Il coordinamento delle aristocrazie militari

Il secondo elemento di forza della politica pipinide riguardò la capacità di coordinare le aristocrazie franche. Il consenso che essi attirarono su di sé garantì un’enorme forza militare, grazie alla quale il dominio franco si estese su un’area che dai Pirenei giungeva alle pianure dell’Europa centrale, dal Mare del Nord all’Italia centromeridionale. Questo successo consentì di attivare un virtuoso processo di redistribuzione delle risorse acquisite (terre, metalli preziosi, uomini), ampliando e consolidando ulteriormente il consenso e, di conseguenza, la potenza militare.

Da questo punto di vista, molto efficace fu l’azione di governo, tra la fine dell’VIII e gli inizi del IX secolo, portata avanti da Carlo, detto poi “Magno” per distinguerlo da un figlio con lo stesso nome, ma presto definito così per il peculiare carisma. Al termine di una serie di vittoriose campagne militari, condotte con largo impiego della cavalleria corazzata e dirette contro frisoni, sassoni, avari e gli stessi longobardi, Carlo incamerò ingenti ricchezze, inquadrò i territori conquistati sotto l’aspetto politico, sociale e religioso e divenne rapidamente un modello di governo anche per i regni britannici anglosassoni. Nella penisola iberica, la creazione di una marca con centro a Barcellona segnò i limiti dell’espansione dinanzi all’emirato (poi califfato) di Cordova e a realtà regionali come i regni cristiani del Nord e i territori controllati dai baschi. La sconfitta subita nel 778 per opera di questi ultimi a Roncisvalle, nei Pirenei occidentali, fu poi reinterpretata in chiave antimusulmana tra il tardo XI e il XII secolo, fornendo una base storica per l’epica Chanson de Roland  [ 5].

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L’incoronazione imperiale

La campagna contro i longobardi in Italia ebbe un grande rilievo strategico, poi arricchito di enormi connotati simbolici. Carlo ebbe infatti la possibilità di dominare definitivamente lo scacchiere italico, sconfiggendo il re longobardo Desiderio ed espugnandone la capitale, Pavia. Assunse così nel 774 il titolo di rex Francorum et Langobardorum, esercitando anche forme di controllo sul Principato di Benevento e sui monasteri di San Vincenzo al Volturno e Montecassino. L’aristocrazia longobarda non fu tuttavia esautorata: mantenne le proprietà e le funzioni amministrative e fu assimilata alle élite franche; anche le leggi del regno rimasero in vigore. Carlo accentuò inoltre il proprio ruolo di protettore della Chiesa di Roma, che allora viveva una fase di duro conflitto con il mondo bizantino. La successione di papa Leone III ad Adriano I, contestata dall’aristocrazia romana, consentì a Carlo di intervenire direttamente a favore di Leone, che ne aveva implorato l’aiuto. Sulla base del Constitutum Constantini (“Ordinanza di Costantino”, meglio noto come Donazione di Costantino), un falso privilegio redatto in questi decenni dalla cancelleria pontificia con il quale l’imperatore nominava papa Silvestro I suo erede in Occidente – e che dunque legittimava il pontefice a creare re e imperatori – il re franco fu incoronato e unto con il crisma sacerdotale dal papa nel Natale dell’800 dinanzi al popolo di Roma, che lo acclamò «grande e pacifico imperatore dei Romani, incoronato da Dio» [ 6]. L’importanza ideologica dell’evento fu immediatamente evidente, sia sul piano dei rapporti tra autorità papale e potere regio, tra i quali la supremazia rimase dubbia, sia sul piano diplomatico. Solo nell’812 Costantinopoli, in conflitto con i franchi sia sul piano politico-militare sia sul piano ideologico, riconobbe infatti in Carlo un imperator, inteso come coordinatore di più regni, titolo che sino a quel momento aveva negato. Una qualifica personale, dunque, ma dalla forte carica simbolica e religiosa, attinta dalle figure di re ebraici e dall’imperatore Costantino: come tale fu riconosciuta a Carlo anche dal califfo di Baghdad Harun al-Rashid e questo consentì di stabilire regolari ambascerie e di promuovere alcune fondazioni monastiche in Terrasanta.

L’attività legislativa

La costruzione politica carolingia cercava di conservare un’idea pubblica del potere e fece dell’attività legislativa il suo principale strumento. Attraverso insiemi di norme ( capitolari) emanate in occasione di assemblee generali e locali (placiti) di grandi dignitari e funzionari, i Carolingi cercavano di promuovere il processo di riforma morale del clero, di coordinare le tradizioni giuridiche dei singoli popoli ora sottomessi e di fornire norme di gestione delle grandi proprietà terriere della corona (villae /curtes).

In mancanza di un sistema fiscale sul modello tardoantico, queste ultime costituivano infatti uno dei pilastri della ricchezza regia, insieme con i doni annuali forniti dagli aristocratici come attestazione della loro subordinazione ma anche di un reciproco riconoscimento. All’interno delle curtes si avviò, in alcune regioni nordeuropee, una prima ripresa economica su ampia scala, i cui esiti si consolidarono e si estesero poi anche ad altri ambiti geografici nel corso dell’XI e XII secolo.

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La rete dei funzionari pubblici e la corte

Un ulteriore fattore di coordinamento fu individuato nell’insieme di funzionari pubblici, spesso, ma non sempre, reclutati tra gli stessi vassalli del re. Alcuni erano più mobili, come i missi dominici (inviati del sovrano, laici o ecclesiastici), altri erano posti al governo di ampie circoscrizioni territoriali, i  comitati e le marche, ed erano definiti rispettivamente comites (conti) e prefecti (“prefetti”, duces in aree di influenza bizantina), in seguito marchiones (marchesi).

Nelle aree coperte da immunità Carlo si preoccupò di intervenire nella scelta di agenti laici (advocati), individuati come elemento di integrazione di queste aree con il resto dell’ordinamento territoriale: garantivano infatti che gli uomini che vivevano in un territorio sottoposto a immunità fossero comunque sottoposti alla giustizia regia e servissero nell’esercito.

Grande impulso ebbe l’attività della corte, all’interno della quale furono sviluppate alcune funzioni come quelle di cappellano (preposto ai culti sacri e figura centrale del nesso tra Chiesa e potere regio), di camerario (controllore del tesoro della corona e dei beni della famiglia regia) e di apocrisario (sovrintendente della cancelleria).

Pur restando itinerante, la corte carolingia trasse ispirazione dai modelli di corte romani e orientali e iniziò a risiedere con più frequenza nella città termale di Aquisgrana (l’attuale Aachen, in Germania), che fu dotata sia di un palazzo sul modello del Laterano a Roma, la sede dei pontefici per tutto il Medioevo, sia di una Cappella palatina realizzata a imitazione di San Vitale di Ravenna [ 7].

La scuola palatina

Il palazzo fu inoltre il fulcro di un importante movimento culturale. Sede di una schola, guidata dal monaco Alcuino di York, esso costituì un centro di coordinamento intellettuale su scala europea che nel corso dei decenni ospitò, tra gli altri, il teologo di origine visigota e vescovo di Orléans Teodulfo, il monaco cassinese, autore dell’Historia Langobardorum, Paolo Diacono, senza contare il suo contributo nella formazione del biografo di Carlo, Eginardo, e di Giovanni Scoto, il più importante teologo occidentale del IX secolo. La scuola palatina collaborò con grandi episcopati e monasteri nel concentrare la propria attività nella lettura dei classici, nello studio della lingua latina e nell’ortografia. In quest’ultimo campo, per esempio, si ideò una nuova scrittura molto chiara e leggibile, la minuscola carolina, che ha costituito il fondamento dei nostri caratteri a stampa. Ponendo le basi per la nascita di una nuova lingua, il mediolatino, e per un suo uso rinnovato, avviando una distinzione trasermo rusticus, popolare, esermo doctus, letterario e colto, si avviò un processo di uniformazione in ambito grammaticale e retorico che codificò in modo decisivo le mitologie, le storie e le identità storiche dei popoli barbarici e al tempo stesso consentì di conservare e trasmettere i testi sacri e alcuni testi della classicità. Si costituirono infatti, o si arricchirono, le grandi biblioteche monastiche del tempo e Alcuino stesso effettuò una revisione dell’Antico e del Nuovo Testamento, sulla base della traduzione latina (Vulgata) della Bibbia greca “dei Settanta” curata da san Gerolamo nel IV secolo, stabilendo nella sostanza il testo ancora oggi usato nel mondo cattolico.

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5. Crisi e mutamenti dell’ordinamento carolingio

La fine dell’espansione e dell’unità carolingia

Fino agli anni Venti del IX secolo il regno di Ludovico “il Pio”, unico erede rimasto in vita alla morte di Carlo (814), costituì l’apogeo dell’affermazione carolingia [ 8]. Tuttavia, la crisi del processo di redistribuzione delle risorse, causata della fine dell’espansione territoriale, e i conflitti scoppiati in seno alla corte tra l’830 e l’840 incrinarono definitivamente gli equilibri.

Prima il contrasto tra Ludovico e uno dei suoi figli, Lotario, e in seguito la lotta tra lo stesso Lotario e i suoi fratelli, Carlo “il Calvo” e Ludovico “il Germanico”, ciascuno con il proprio seguito di clientele armate, acuirono i problemi. Solo il giuramento di Strasburgo (842) tra Carlo e Ludovico e il successivo trattato di spartizione dell’impero siglato con Lotario a Verdun (843), nell’attuale Francia, posero fine al conflitto. Il regnum Francorum sopravvisse solo come entità collettiva, territorialmente divisa in Francia occidentale compresa l’Aquitania (Carlo), Francia orientale comprese Baviera, Sassonia e Alemannia (Ludovico) – contrassegnate rispettivamente da una parlata romanza (rusticam romanam linguam) e da una germanica, definita theotisca (“popolare”) – e i territori intorno ad Aquisgrana, la Borgogna, la Provenza e il Regno italico (Lotario, con il titolo imperiale).

Tra essi, Carlo il Calvo mostrò notevole capacità di indirizzo politico – emanando norme su fisco e moneta, fortificazioni e patrimonio fondiario – e intellettuale: grandi studiosi come Giovanni Scoto, Rabano Mauro e Incmaro di Reims animavano la scuola palatina, contribuendo a rafforzare una concezione imperiale del potere del sovrano. Tuttavia, il Regno occidentale doveva affrontare crescenti difficoltà militari, nel fronteggiare sia i bretoni, sia i pirati vichinghi, sia ancora i conflitti interni alla famiglia carolingia.

Alla fine degli anni Ottanta del IX secolo, dopo la morte di Lotario, di Ludovico e di Carlo il Calvo, solo uno tra i pretendenti al trono di un impero ormai diviso era di famiglia carolingia, l’ultimo figlio di Ludovico il Germanico, Carlo “il Grosso”. Da imperatore riunificò temporaneamente i regni franchi ma nell’887 fu deposto da Arnolfo di Carinzia, suo nipote illegittimo.

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La regionalizzazione dei poteri

Le aristocrazie franche iniziarono così a operare spesso in modo svincolato dal potere regio, ridisegnando la geografia del potere in una nuova prospettiva regionale. All’interno dei singoli regni, intorno a dinastie che assommavano alla carica pubblica grandi proprietà fondiarie  allodiali e il coordinamento di clientele armate, nacquero formazioni territorialmente ridotte rispetto alle divisioni amministrative carolingie, ma politicamente ormai semiautonome (ducati, contee e marchesati).

Il Regno franco orientale andò configurandosi come unione tedesca di ampi ducati formati su base genericamente etnica – Sassonia, Svevia (Alamannia), Baviera – o costituiti sulla base delle circoscrizioni carolingie, come la Franconia e la Lotaringia [ 9]. Tra i maggiori esponenti delle stirpi ducali si eleggeva un re – le prime furono quelle di Corrado I di Franconia (911-18) e di Enrico I di Sassonia (919-36) – con funzione simbolica, di capo militare e giudice supremo, che con difficoltà cercava di stabilire un principio dinastico.

Nella penisola italica il trono del regnum Italiae (così definito, al posto di regnum Langobardorum, a partire circa dagli anni Venti del IX secolo) era di regola conteso tra signori che controllavano grandi aggregazioni territoriali di origine pubblica, i marchesi di Tuscia, Ivrea, Spoleto e Friuli. Tra essi emersero, opposti in un duro conflitto, Guido di Spoleto e Berengario I del Friuli, il quale stabilì una breve egemonia. Nella seconda metà del X secolo Adalberto Atto di Canossa, esponente di una dinastia emergente nell’aristocrazia italica, sollecitò la discesa in Italia di Ottone I di Sassonia, figlio e successore di Enrico I, quale mediatore nei conflitti tra gruppi aristocratici: il sovrano tedesco fu incoronato re d’Italia nel 961 e l’anno successivo venne unto imperatore da papa Giovanni XII. Da quel momento Regno orientale, Regno italico e Impero furono stabilmente legati tra loro, con l’esclusione del breve periodo di regno di Arduino d’Ivrea tra il 1002 e il 1015.

La Francia occidentale, anch’essa divisa in grandi domini regionali, vide invece l’ascesa della dinastia robertingia-capetingia, dominante sull’Île-de-France (la zona di Parigi) e il territorio di Orléans. Un suo esponente, Ugo Capeto, figlio di una sorella di Ottone I, ascese infatti al trono regio nel 987: sebbene di fatto controllasse direttamente solo i suoi domini famigliari, tuttavia il titolo regio acquisì prestigio grazie al coordinamento delle dinastie signorili e all’appoggio delle gerarchie episcopali, che gli garantirono carisma morale e religioso.

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Le “seconde invasioni”

Per spiegare la crisi del mondo carolingio, oltre al frazionamento politico su base ereditaria, è necessario guardare sia alla nuova stagione di incursioni («seconde invasioni», secondo la definizione di Marc Bloch) provenienti dal Mare del Nord, dal Mediterraneo e dall’Europa orientale, sia all’evoluzione dei poteri di comando propria della società occidentale [ 10]. Nel corso del IX secolo, autonomi nuclei di saraceni (nome attribuito dalle fonti occidentali ai musulmani nordafricani) e alcuni emirati musulmani, in particolare quello di Qayrawan (nell’attuale Tunisia), condussero nel Mediterraneo occidentale e centrale un’azione militare su larga scala con ambizioni di conquista. Attaccarono e depredarono grandi monasteri e città (nell’846 il saccheggio di Roma suscitò grande scandalo), costituirono varie roccaforti nel Mediterraneo occidentale, fondando anche un effimero emirato a Bari, ma soprattutto assoggettarono, nel corso del IX secolo, la Sicilia romano-orientale.

Notevoli successi ebbe poi l’espansione scandinava, sviluppatasi lungo tre assi principali:

  • verso l’Islanda e la Groenlandia;
  • verso l’Europa dell’Est, dove nuclei svedesi (rus’) erano impiegati come truppe d’élite (vareghi variaghi) a Costantinopoli e nelle nascenti formazioni politiche degli slavi orientali a Kiev e Novgorod;
  • verso Occidente, guidata in particolare da uomini provenienti da Norvegia e Danimarca (normanni, “uomini del nord”, nelle fonti latine; vichinghi, probabilmente da vik, “baia” o wike, “emporio commerciale”, in quelle frisone e anglosassoni).

Volte al saccheggio dei principali insediamenti urbani e monastici, le incursioni scandinave avvenivano a bordo delle lunghe navi con la prua a forma di testa di drago (drakkar) e interessarono sia le isole britanniche, dove nel tardo IX secolo arrivarono a costituire un dominio nell’Inghilterra nordorientale con base a York (Danelaw), sia le coste continentali della Manica, lungo la Senna, la Garonna e la Loira. Qui si formarono dapprima insediamenti autonomi, i cui guerrieri talvolta partecipavano come mercenari alle contese tra regni franchi. In seguito si giunse a una organizzazione unitaria, ai primi del X secolo, con Rollone, un capo militare cui il re franco occidentale Carlo “il Semplice” concesse nel 911 il titolo di conte (e poi di duca) di Normandia, ricevendone in cambio il giuramento di vassallaggio.

Diverso fu l’impatto degli ungari, o magiari, popolazione seminomade proveniente dalle steppe della Russia centrale. Nell’ultimo decennio del IX secolo si stanziarono in Pannonia (attuale Ungheria), disgregando in questo modo il Regno slavo della Grande Moravia, che comprendeva anche la Boemia e la Polonia meridionale, e dividendo gli slavi settentrionali da quelli meridionali. Dalla pianura pannonica gli ungari procedevano annualmente a rapide spedizioni di cavalleria leggera volte al saccheggio lungo la penisola italica e verso le regioni meridionali e centrali delle attuali Germania e Francia.

Le progressive conversioni al cristianesimo e la forte capacità militare della dinastia sassone nel Regno di Germania, capace di ottenere con Ottone I una definitiva vittoria a Lechfeld (955), spinsero questa popolazione a diventare stanziale e a integrarsi nell’Occidente: nel 1001 fu creato un regno legato alla Chiesa romana nella persona di re Vajk, ribattezzato Stefano, ancor oggi patrono dell’Ungheria. Poco prima aveva ugualmente cercato legittimazione e protezione presso Roma il re polacco Mieszko I, fondatore della dinastia dei Piasti.

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L’Impero degli Ottoni

Grazie alla vittoria sugli ungari e forte dell’appoggio papale, Ottone, che per ideologia e prassi faceva costante riferimento a Carlo Magno, si fregiò del titolo di imperatore e contribuì in modo determinante alla nascita di un concetto di impero inteso non più come coordinamento personale di più regni, quanto come specifico ambito territoriale e storico-politico di governo.

I successori di Ottone I – Ottone II [ 11] e Ottone II – perseguirono un rinnovamento anche spirituale del titolo imperiale (Renovatio imperii), che prevedeva un rapporto ancora più stretto fra Chiesa romana e i regni di Italia e Germania. Il principio, compendiato nel Privilegium Othonis del 962, stabiliva che da quel momento nessun papa, cui era riconosciuta la supremazia su Roma e altri domini laziali, sarebbe stato consacrato ed eletto dal clero e dall’aristocrazia romana senza giuramento di fedeltà all’imperatore.

L’aristocrazia romana fece sostanzialmente fallire i programmi ottoniani e quelli del pontefice, Silvestro II (Gerberto di Aurillac), in passato precettore dello stesso Ottone III. Così il successore dell’ultimo Ottone, Enrico II di Baviera, dovette rinunciare al sogno imperiale romano. Tuttavia, il nesso stabilito tra Roma e l’impero tornerà a giocare un ruolo determinante quando fermenti di riforma ecclesiastica attraverseranno l’Europa nel corso dell’XI secolo.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715