9.4 Le rivolte nelle campagne

9.4 Le rivolte nelle campagne

Un rapido cambiamento economico e sociale

Uno degli effetti del calo della popolazione fu, in misura e in momenti diversi nel continente europeo, l’aumento dei salari in tutti i settori, a partire da quello agricolo, sia in termini assoluti (salario nominale), sia in termini relativi alla capacità di acquisto (salario reale) considerando il contemporaneo ribasso dei prezzi agricoli. In una prima fase, a ridosso della metà del XIV secolo, contadini dipendenti e salariati agricoli poterono godere di migliori condizioni di vita ed ebbero un maggiore potere contrattuale, mentre nelle città la maggiore disponibilità di denaro e l’impatto psicologico della vicinanza con la morte stimolavano maggiori consumi di generi alimentari e di capi di abbigliamento costosi.

Tuttavia, questo miglioramento ebbe vita breve. In primo luogo, i ceti signorili reagirono con forza alle crescenti richieste dei lavoratori, dal momento che alti salari erodevano le rendite, emanando norme e statuti volti ad ancorare prezzi e salari ai livelli precedenti alla peste (è il caso, per esempio, dello Statute of labourers inglese del 1351, o di molte legislazioni cittadine in Italia). In secondo luogo, gli stessi salari erano minacciati dall’accresciuto peso della fiscalità, imposta da organismi statali sempre più perfezionati e minacciati dai debiti contratti a causa delle continue guerre.

La diffusione delle rivolte

Malcontento, tensioni e tumulti, dovuti alla tensione tra tendenza all’aumento dei salari e politiche contenitive, attraversarono le campagne europee. Era sempre accaduto, ma questa volta ci fu una maggiore consapevolezza e una più efficace organizzazione. In Francia, in Inghilterra e nella penisola italiana si ebbero i sommovimenti di più ampia portata e meglio documentati [ 5].

In Francia la ribellione, che prese il nome di jacquerie – dal nome Jacques Bonhomme, con cui i signori indicavano genericamente i contadini – scoppiò nel 1358 nell’Île-de-France, estendendosi anche nelle regioni a nord di Parigi e in Normandia. Alle ragioni strettamente economiche del malcontento, aggravate dall’inasprimento fiscale dovuto alle spese di guerra, si aggiungevano anche motivazioni legate alledisfatte militari subite dagli eserciti nobiliari francesi durante le prime fasi della Guerra dei Cent’anni [▶ cap. 8.1], sconfitte che delegittimavano, agli occhi dei ceti subalterni, il ruolo eminente svolto dall’aristocrazia. In un primo momento la rivolta, capeggiata da alcuni esponenti delle élite di villaggio tra cui un certo Guillaume Carle, che ne prese il comando militare, ebbe successo grazie anche all’appoggio di artigiani, preti, e soprattutto dalla borghesia commerciale parigina, guidata da Étienne Marcel (1316 ca.-58). Influente ▶ prevosto dei mercanti cittadini, Marcel era riuscito a ottenere il controllo degli Stati generali [▶ cap. 8.3] e vedeva ora l’occasione per ridurre il peso politico dei nobili e dello stesso sovrano, allora seriamente in difficoltà per i continui rovesci nella Guerra dei Cent’anni. Giunto al punto di schierarsi con il partito filoinglese, Marcel venne ucciso; altrettanto rapidamente come era divampata, la più grande rivolta contadina della storia francese fu schiacciata dall’aristocrazia e da quelle componenti borghesi più sensibili alla difesa della monarchia. Si calcola che circa 20 000 persone, compresi donne e bambini innocenti, siano state massacrate durante la repressione [ 6].

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In Inghilterra una violenta rivolta contadina esplose nel 1381 nelle contee a est di Londra, per poi propagarsi a gran parte dell’isola. L’occasione fu l’introduzione di un’imposta personale (poll-tax) che triplicava quella istituita pochi anni prima, ma le ragioni della ribellione, oltre che nelle difficoltà indotte dalla guerra con la Francia, affondavano nell’inasprimento della reazione signorile che aveva prodotto lo Statute of labourers del 1351. Improntata a un vago richiamo a principi di povertà ed egualitarismo affermati in quegli anni da un importante teologo di Oxford, John Wyclif (1331-84), la rivolta, guidata da un certo Wat Tyler e da alcuni esponenti del basso clero (di cui il più noto era John Ball [ 7]), la rivolta giunse anche ad avanzare precise richieste, incontrando gli interessi dei ceti salariati di Londra e delle élite municipali di alcune città come Cambridge e York: tra le altre cose, si chiedeva l’abolizione del servaggio, l’aumento dei salari e una ripartizione dei beni ecclesiastici, di cui si contestava la legittimità giuridica. Dopo i primi accordi, cui il re Riccardo II aveva ceduto, in pochi mesi la rivolta ebbe termine nel sangue: Tyler fu ucciso durante le trattative condotte presso le mura della città di Londra e il sovrano, con l’appoggio del ceto aristocratico, scatenò una durissima repressione, eliminando gli altri capi della rivolta, tra cui Ball. Gli ▶ oneri servili contro i quali i rivoltosi si erano battuti furono ripristinati e scomparvero solo molto gradatamente, trascinandosi in qualche caso sino al Cinquecento.

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Negli anni Ottanta del XIV secolo un ampio movimento contadino interessò inoltre Piemonte, Linguadoca e Svizzera. I ▶ tuchini, così erano definiti gli aderenti a questo movimento, insorsero contro l’opprimente politica fiscale dei conti di Savoia e dei marchesi del Monferrato, giungendo a minacciare in armi Torino. Dopo aver ricevuto alcune concessioni, tuttavia, gli insorti, privi di un’efficace strategia politico-militare, furono sconfitti dagli eserciti di Amedeo VII d’Aosta e da alcune milizie comunali.

Rivolte contadine si ebbero a più riprese lungo tutto il Quattrocento, tanto in Italia, per esempio nel pistoiese e in Calabria, quanto in Catalogna. Qui la rivolta antisignorile dei contadini, che erano tenuti a pagare un riscatto (remensa) per poter abbandonare la terra cui erano legati da stretti vincoli giuridici, si saldò con la contesa per il controllo politico delle istituzioni catalane. Lo scontro oppose il re Giovanni II, appoggiato da esponenti della piccola borghesia commerciale, e gli esponenti dell’aristocrazia e i grandi commercianti e banchieri che controllavano la Generalitat [▶ cap. 8.4]. La guerra che ne seguì (1462-72), e che coinvolse anche Francia, Castiglia e Portogallo, vide il sovrano sfruttare la rivolta contadina al fine di limitare il potere oligarchico dell’aristocrazia. Il successo della monarchia decretò anche, più tardi, l’accoglimento delle rivendicazioni alle origini della rivolta: Ferdinando il Cattolico, erede di Giovanni II, garantì le libertà personali dei contadini dietro pagamento di una somma di denaro e la possibilità per loro di contrattare affitti a lungo termine.

9.5 Le rivolte nelle città

Temi economici e diritti politici

Le strategie di controllo signorile della breve stagione di miglioramento economico e sociale dei ceti subalterni fecero sentire i loro effetti anche nelle città. Molti lavoratori dei vari settori artigianali, primi tra tutti quello tessile e quello edile, temevano da un lato di vedersi assottigliare le possibilità di azione politica che si erano prospettate in precedenza, dall’altro di ripiombare nelle difficili condizioni economiche della prima metà del secolo, dalle quali credevano di essere usciti grazie all’aumento dei salari e del loro potere d’acquisto. Per queste categorie il rischio concreto era quello di recipitare nella povertà, andando ad alimentare le numerose schiere di vagabondi, disoccupati e sottoccupati che caratterizzavano in particolare le grandi città. Inoltre, alcuni grandi mercanti e investitori, capaci di controllare l’intera filiera produttiva massimizzando i profitti, iniziavano a scardinare l’organizzazione tradizionale della bottega artigiana e delle arti, che ne erano l’espressione socio-politica, insieme con la legislazione di tutela del lavoro artigiano. Combinati con gli effetti della concorrenza tra vari centri di produzione a livello europeo (per esempio quella tra città fiamminghe e italiane per l’egemonia nel settore tessile) e con gli squilibri causati dalla crisi demografica, questi fattori determinarono numerose ribellioni.

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Nelle più importanti città fiamminghe (Bruges, Ypres, Gand) le organizzazioni dei lavoratori della lana presero temporaneamente il sopravvento, rovesciando l’egemonia delle oligarchie urbane e riportando vittorie anche in campo militare. Tuttavia, conflitti interni allo stesso fronte dei lavoratori impedirono di raccogliere frutti duraturi dai successi ottenuti, determinando la definitiva crisi, intorno agli anni Ottanta del XIV secolo, di questa stagione di rivendicazioni. Analogo insuccesso ebbero movimenti simili nelle città della Lega anseatica, dove il ceto mercantile rimase saldamente al potere, mentre le organizzazioni di mestiere nel Centro e nel Sud della Germania ottennero migliori risultati.

Nella penisola italiana un nutrito numero di sommosse si registra già alla metà del secolo, intensificandosi negli anni Settanta: motivazioni economiche, disagio sociale e rivendicazioni politiche si intersecavano strettamente. Nel 1371, in una Perugia divisa tra nobili, appoggiati dal papato, e regime popolare al governo egemonizzato dalla famiglia Raspanti, scoppiò una rivolta animata da lavoratori delle manifatture tessili e da giovani sobillati da membri di importanti famiglie nobiliari, che ebbe come obiettivo le proprietà dei ricchi popolari. La rivolta, operata dalle forze congiunte di nobiltà, papato e ▶ popolo minuto, ebbe come esito la fine del regime popolare, la repressione e la sostanziale perdita di autonoma espressione politica da parte del comune perugino, sottoposto al controllo pontificio. Nello stesso anno a Siena, in una situazione politica resa instabile dalla debolezza del governo dei Dodici (espressione dell’alleanza tra Arti ed esponenti dei ceti magnatizi), scoppiò la cosiddetta rivolta “del Bruco”: i lavoratori del settore tessile rivendicavano aumenti salariali e margini di azione politica di contro alla chiusura oligarchica dei grandi mercanti e artigiani e del ceto aristocratico. Il regime che alla fine si instaurò, una signoria composta da una maggioranza di Riformatori – popolani minuti – e alcuni esponenti del governo dei Nove – portatori degli interessi degli strati più alti del ceto mercantile – durò sino al 1385, consentendo ad alcune istanze dei rivoltosi di essere accolte nella revisione degli statuti dell’Arte della Lana.

A Firenze, nell’estate 1378, si ebbe la più nota rivolta urbana del Trecento, il cosiddetto tumulto dei ciompi, come venivano chiamati i lavoratori salariati che svolgevano la parte meno qualificata della lavorazione dei panni. La rivolta, guidata da Michele di Lando (1343 ca.-1401), operaio dell’Arte della Lana, e preceduta da altre sommosse – tra cui un importante sciopero nel 1345 –, fu originata da due fattori: uno politico, dovuto alla divisione tra esponenti delle antiche famiglie magnatizie filoguelfe e uno schieramento alto borghese che faceva capo alle ▶ Arti maggiori, e uno economico, legato all’imposizione di tetti ai salari dei lavoratori e alla svalutazione della moneta di rame con la quale venivano corrisposti. I ciompi, schierandosi a favore di una ripresa della legislazione antimagnatizia [▶ cap. 5.2], elaborarono un programma in cinque punti, con queste richieste:

  • rifiuto di essere subordinati ai padroni di bottega;
  • possibilità di costituirsi in un’Arte autonoma rispetto a quella della Lana;
  • abolizione della carica dell’ufficiale forestiero, che vigilava sulla condotta dei lavoratori dipendenti impedendo loro di fondare associazioni;
  • aumento dei salari pari a circa il 50%
  • impunità per i partecipanti al movimento.

Diritti politici, diritti civili e rivendicazioni economiche dunque si saldavano, riscuotendo successo anche tra altri gruppi di salariati. L’iniziale successo della rivolta condusse alla formazione di un priorato provvisorio, capeggiato dallo stesso di Lando, e alla formazione di tre nuove Arti minori (Tintori, Farsettai e Ciompi).

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Il boicottaggio istituzionale opposto al governo dei ciompi dalla borghesia artigiana e il blocco della produzione laniera attuato dai padroni delle botteghe, che lasciava senza paga migliaia di lavoratori, mise tuttavia in evidenza la debolezza politica del nuovo governo: una frazione radicale dell’Arte dei Ciompi cercò di costituire un potere alternativo, ma fu represso da di Lando e dalla comunità delle Arti. Nonostante l’Arte dei Ciompi venisse sciolta, il nuovo governo non riuscì comunque a mediare efficacemente i contrasti tra gruppi oligarchici esclusi dal governo, esponenti delle nuove Arti, masse di salariati, ancora senza riconoscimento politico e giuridico, e proprietari di botteghe laniere che rifiutavano i poteri contrattuali acquisiti dai tintori. L’epilogo della rivolta, nel 1382, vide la soppressione delle nuove Arti, il ridimensionamento delle Arti minori nel governo cittadino, la vanificazione dei decreti del governo dei Ciompi e il risarcimento per chi avesse subito confische e distruzioni di proprietà: era l’avvio di un processo di sempre maggiore concentrazione del potere nelle mani di poche famiglie.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
Storie. Il passato nel presente - volume 1
Dal 1000 al 1715