9.6 Nuovi equilibri: produzioni, mercati e istituzioni

9.6 Nuovi equilibri: produzioni, mercati e istituzioni

L’avvio di una nuova congiuntura

Molti furono i fattori che consentirono all’Europa occidentale, e in particolare ad alcune aree (Paesi Bassi e Inghilterra su tutte), di riprendersi dalla negativa congiuntura trecentesca. Si è già detto delle strategie di contrasto ai fenomeni di caduta della rendita e dei profitti. Inoltre, le società europee furono in grado di conservare un patrimonio di pratiche redistributive, dall’assistenza ai poveri e ai malati alla gestione comunitaria della decima nelle campagne, che erano state messe in atto durante la fase di crescita [▶ cap. 1.4], e mantennero comunque in vita le più importanti innovazioni nel settore creditizio e nella contrattualistica. Queste strategie economiche risultarono efficaci perché realizzate in un quadro di mutamenti istituzionali molto rilevanti, il maggiore dei quali riguardò la costituzione di organismi politici almeno tendenzialmente centralizzati. La crisi demografica ed economica fu cioè uno dei fattori per i quali i poteri pubblici furono indotti a riorganizzarsi in modo unitario sia sul piano giuridico che fiscale, orientando così positivamente lo sviluppo e l’integrazione reciproca dei mercati locali e internazionali.

Gli interventi pubblici

Dinanzi alle contraddizioni sorte nel sistema produttivo, le istituzioni pubbliche – città, regni, principati – cercarono di adottare strategie di contrasto. Le più diffuse riguardarono il controllo dei prezzi dei cereali e degli altri beni agricoli. In un primo momento si cercò di imporre per legge i prezzi massimi delle derrate, ma questa legislazione ebbe poco effetto per il sorgere di mercati clandestini; successivamente, e in maniera molto più efficace, le istituzioni ricorsero, attraverso il denaro pubblico, all’importazione dei beni necessari, che venivano poi rivenduti sui mercati interni a prezzi stabiliti. L’obiettivo principale era quello di frenare una caduta eccessiva del potere d’acquisto dei salari, ma così facendo si favorivano soprattutto i profitti dei mercanti-imprenditori urbani a scapito della rendita fondiaria, svantaggiata dai bassi prezzi delle derrate.

I cambiamenti nella proprietà agraria e nella produzione

Le manovre sui prezzi potevano tuttavia ben poco nel caso di crisi generalizzata: sarebbe stata invece necessaria una profonda riorganizzazione delle strutture produttive nei vari settori. Nel settore agricolo, come si è detto, divenne preponderante l’allevamento e iniziarono a venir meno gli usi comunitari dei suoli a favore della riorganizzazione della proprietà privata. Tipico in questo senso fu il fenomeno delle recinzioni (enclosures in Inghilterra, dove il fenomeno fu particolarmente rilevante) delle terre comuni e dei fondi indivisi sui quali tutti i membri di una comunità di villaggio, secondo una precisa gerarchia, esercitavano diritti: aumentarono così le proprietà accentrate a beneficio di un ceto ridotto di possidenti terrieri.

Un’ulteriore testimonianza del profondo mutamento dei rapporti nelle campagne è fornita dalle nuove tipologie di contratti agrari. Già nel corso del XIII secolo, infatti, furono introdotti nuovi contratti riguardanti sia l’allevamento sia la coltivazione dei campi: rispettivamente i patti di ▶ sòccida, che prevedevano l’affidamento di animali da un proprietario a un allevatore, e la mezzadria, che – come dice il termine – prevedeva di dividere a metà, tra affittuario e proprietario, i raccolti e gli investimenti necessari. La proprietà ne usciva molto rafforzata, poiché di rado contribuiva effettivamente al

la metà degli investimenti di capitale e non si era mai dato, in tempi precedenti, un prelievo del 50% della produzione; inoltre, consentiva l’accesso alla terra soltanto a famiglie numerose [▶ cap. 1.5] e per brevi periodi (la durata dei contratti non era superiore ai cinque anni), di fatto rendendo precario il lavoro contadino e quindi contrattualmente più deboli i lavoratori.

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Nuove modalità di produzione si affermarono anche nel settore artigianale. Nel settore tessile e metallurgico, per esempio, il modello produttivo della bottega cedette progressivamente il passo a prime forme di manifattura. Mentre il capobottega era ancora una figura profondamente legata al processo di produzione dell’oggetto, il mercante-imprenditore che gli subentrò era sostanzialmente un detentore di capitali, con i quali acquistava materie prime, macchinari, energia e forza lavoro, delegando il processo produttivo vero e proprio ad artigiani salariati retribuiti sulla base della quantità di beni prodotti (cottimo). Dalla vendita del prodotto, di cui era unico proprietario, egli traeva infine tutto il profitto. Si assistette così alle prime rudimentali forme di separazione tra proprietari dei mezzi di produzione (capitali, macchinari) e detentori della forza lavoro (operai/lavoranti), che prefigurarono un modello moderno di impresa e di produzione [ 8].

Nuove strategie commerciali

Alla caduta dei profitti, causata dalla crescente concorrenza, le imprese mercantili reagirono adottando alcune efficaci strategie. In primo luogo, diversificarono sia i luoghi di approvvigionamento delle materie prime, cercando prezzi più bassi, sia i luoghi di mercato, dove poter rivendere a prezzi più alti. Gli empori stabiliti lungo le coste, dai mari del Nord al Mediterraneo orientale al Mar Nero, divennero da scali commerciali vere e proprie colonie, ossia insediamenti di controllo territoriale. Con il sostegno militare delle città o delle monarchie di provenienza si costituirono dunque vaste aree – l’Adriatico e l’Egeo veneziani, il Mediterraneo occidentale egemonizzato dai mercanti catalani – che consentivano alle imprese mercantili di godere condizioni di privilegio o di monopolio commerciale.

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Inoltre le imprese furono costrette a riorganizzarsi. Memori dei terribili fallimenti di inizio secolo, causati dall’incapacità di una struttura rigida a fronteggiare l’insolvenza dei debitori, le aziende vennero organizzate in un nuovo sistema. Tutte le aziende/filiali appartenenti a un gruppo imprenditoriale avrebbero d’ora in poi agito in modo giuridicamente separato l’una dall’altra. Si trattava dunque di una unità economica, caratterizzata da capitali e presenza di soci autorevoli, da appoggio reciproco e da strategie di divisione dei compiti, ma non più di una unità giuridica: in caso di fallimento dunque la perdita sarebbe rimasta circoscritta, senza estendersi all’intero gruppo.

Nuovi strumenti finanziari

Proprio in risposta alle difficoltà trecentesche, al fine di garantire maggiore sicurezza nelle operazioni commerciali, si perfezionò l’istituto del­l’▶ assicurazione: il mercante imprenditore si associava temporaneamente ad altri mercanti per suddividere il rischio durante un singolo viaggio d’affari e il premio pagato dall’assicurato veniva suddiviso tra i soci assicuratori a seconda della quota di capitale investito. L’elemento innovativo di questo istituto era il calcolo del rischio, sulla cui base si determinava l’ammontare del premio: per esempio un viaggio effettuato su una nave in non ottime condizioni di manutenzione, lungo coste infestate da pirati e magari durante i mesi invernali, avrebbe avuto un premio molto elevato.

Anche il settore della contabilità fu riorganizzato e reso più efficiente. La possibilità di calcolare con precisione i patrimoni e gli effetti delle operazioni commerciali permetteva infatti agli imprenditori di avere una maggiore quantità di informazioni sulla cui base decidere le proprie strategie. La contabilità duecentesca, caratterizzata dall’uso dei libri di crediti e debiti, si arricchì di una serie di registri analitici e sintetici – tra cui il libro mastro, il libro di bilancio, il conto avanzi e disavanzi – che consentivano di avere sempre presente, per un dato arco di tempo, la situazione reale del patrimonio e delle sue variazioni. Queste innovazioni nelle scritture contabili prepararono il rivoluzionario metodo della partita doppia, descritto in maniera compiuta da Luca Pacioli nella Summa de arithmetica (1494) ma già attestato tra metà Trecento e primi del Quattrocento: le scritture contabili venivano organizzate in due sezioni, “dare” e “avere”, che dovevano equivalersi: nella prima rientravano le variazioni finanziarie attive (aumento dei crediti, diminuzione dei debiti) e variazioni economiche negative (costi); nella seconda variazioni finanziarie passive (aumento di debiti, diminuzione di crediti) e variazioni economiche positive (ricavi).

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La riorganizzazione del sistema bancario

La creazione del sistema delle aziende e il ricorso a più efficienti forme di contabilità fecero sentire i loro effetti anche nelle attività bancarie, che in questo momento erano ancora elementi costitutivi dell’impresa commerciale. Dal punto di vista creditizio i mercanti, la cui figura racchiudeva appunto anche quella del banchiere e dell’imprenditore, adottarono nuove strategie per migliorare l’efficienza delle aziende, con l’obiettivo di semplificare le operazioni di concessione di prestiti e riscossione e pagamento di debiti, riducendone i costi. Le numerose innovazioni in questo senso erano orientate all’impiego su vasta scala di sistemi di pagamento in forma scritta (cambiali, assegni, lettere di cambio) [▶ cap. 1.4], che integravano la moneta circolante senza i costi e i rischi che quest’ultima comportava (difficoltà di trasporto, rischi di furto e perdita del denaro). A questi interventi di natura economica, il ceto mercantile aggiunse anche strategie di tipo istituzionale: cercarono cioè di inserirsi con sempre maggiore forza nei processi di decisione politica, influenzandola o partecipandovi in prima persona.

Queste misure, già operanti nel Duecento e indotte a perfezionarsi dalla congiuntura trecentesca, si fondavano sul concetto di bene comune, in base al quale per i mercanti l’arricchimento si giustificava come benefico per l’intera comunità [ 9], e sulla fiducia [ 10]. Questo principio non era tanto un atteggiamento mentale, quanto un vero e proprio indice di affidabilità, efficace nel ristretto mondo di imprenditori e banchieri – in cui il venir meno ai patti avrebbe significato porsi fuori dalla sfera degli affari e della politica – e garantito da figure professionali specializzate e preparate presso le università: notai, giudici, giureconsulti.

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  fenomeni

La nascita degli ospedali

Nel Medioevo gli “ospedali” erano sì luoghi di cura dei malati (come i lebbrosari o i lazzaretti), ma non solo: come dimostrano i vari modi con cui erano denominati, si occupavano di ospitalità per pellegrini e viaggiatori (hospitales, hospitium, xenodochium, “luogo di accoglienza per stranieri”, mansio, come le stazioni di posta romane poi divenute punti di ristoro), e fungevano anche come ricovero per orfani (brephotrophium), vecchi, vedove e soprattutto per i poveri, bisognosi di aiuto e di protezione.

La loro nascita riguardò tanto le élite aristocratiche quanto i ceti popolari e, accanto a singoli individui, promossero fondazioni ospe­daliere anche le associazioni, come confraternite e corporazioni, e le istituzioni, laiche e soprattutto ecclesiastiche. Moltissimi di coloro che vi prestavano servizio erano laici, ma fortemente intrisi di spirito caritativo cristiano: alcuni di questi “laici religiosi” formarono poi veri e propri ordini dotati di una regola, come gli Ordini del Tempio (Templari), di S. Giovanni Gerosolimitano e dei Cavalieri teutonici, per citare i più noti perché connessi con l’esperienza delle crociate.

Il ruolo delle istituzioni

Dal canto loro, coscienti del contesto di crisi, anche le istituzioni pubbliche intervennero direttamente per sostenere il credito al consumo, istituendo banchi pubblici, ossia banche di diretta proprietà pubblica che prestavano denaro a tassi di interesse controllati, favorendo dunque gli investimenti e la spesa. In maniera analoga, ad opera spesso di enti religiosi, si diffusero dalla seconda metà del XV secolo gli ospedali [▶ fenomeni] e i monti di pietà [ 11], con lo scopo di consentire ai meno abbienti di ottenere piccoli prestiti (una sorta di primitiva forma di “microcredito”) a tassi di interesse migliori di quelli imposti dai grandi prestatori (generalmente al 5%, anziché al 20-30%) [▶ fenomeni, p. 298].

Le istituzioni pubbliche europee, nel corso degli ultimi secoli del Medioevo, condividevano sostanzialmente un modello basato su alcuni punti, che ne garantivano efficacia e che fornì loro la capacità di reagire alla crisi:

  • stretta alleanza tra élite imprenditoriali e ceti signorili;
  • intervento diretto nell’organizzazione dei mercati interni, i cui confini coincidevano cioè con quelli amministrativi dei territori sottoposti all’autorità pubblica;
  • intervento diretto nella soluzione o nella repressione dei conflitti sociali.

Questo modello era dunque in grado di garantire una direzione politica ai processi economici e sempre più ampio divenne l’ambito di intervento dell’amministrazione di comuni, regni e principati: dalla moneta all’edilizia, dalla produzione di navi e armi al credito, sino al settore agricolo, dove, pur senza intaccare la proprietà, si intervenne con regolamenti volti a garantire gli approvvigionamenti di derrate sui mercati interni. Quanto al terzo punto, le istituzioni intervenivano cercando di prevenire le manifestazioni più acute delle congiunture economiche negative – stabilendo per esempio tetti ai prezzi o acquistando con soldi pubblici le derrate di cui si aveva bisogno in periodi di carestia – o, come s’è visto, reprimendo le rivolte sociali nelle campagne e nelle città: in pratica, cercavano un punto di equilibrio tra la volontà di garantire ai ceti abbienti l’accumulazione di rendite e profitti e quella di dover prevenire situazioni critiche di disperazione sociale, che avrebbero potuto sfociare in rivolte.

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Questo interventismo politico nell’economia generava tuttavia una spesa pubblica molto alta: basti pensare alle spese militari che servivano alla sicurezza degli insediamenti coloniali, ai costi delle infrastrutture (porti, arsenali, strade) e degli stessi apparati burocratici e giuridici. Così le istituzioni dovettero agire anche sul miglioramento dell’efficienza del prelievo fiscale, che integrava i redditi provenienti dai beni pubblici o da quelli privati del sovrano. Il prelievo fiscale poteva suddividersi in:

  • entrate straordinarie, come quelle prelevate sui beni mobili, ossia sul commercio;
  • entrate ordinarie, che potevano essere su base regolare, come quelle provenienti dall’esercizio di diritti consuetudinari, come la coniazione delle monete e la tassazione della produzione agricola, o su base occasionale, come l’esercizio di diritti regi (per esempio la fornitura obbligatoria di derrate per l’approvvigionamento dell’esercito in tempo di guerra e della corte nei suoi spostamenti, la manutenzione dei castelli, il pagamento di ammende giudiziarie).

Progressivamente un ruolo dominante nella tassazione fu assunto da alcune imposte ordinarie che da occasionali divennero regolari, come la ▶ colletta, e da imposte indirette che ricadevano in modo uguale su tutti i contribuenti, favorendo così i ceti più ricchi.

Infine, gli Stati bassomedievali sperimentarono le prime forme di una straordinaria innovazione finanziaria, il debito pubblico, alimentato da prestiti di soggetti privati. Grazie alle somme ricevute, le istituzioni potevano disporre di denaro prontamente utilizzabile per le varie necessità, mentre i prestatori godevano in cambio di importanti vantaggi: in primo luogo ricavavano dal prestito interessi tanto più alti quanto maggiore era il rischio dell’investimento; inoltre, quando il prestito veniva effettuato, le istituzioni rilasciavano al prestatore un titolo di credito utilizzabile come moneta perché garantito dalle casse pubbliche. Il sistema del debito pubblico contribuì enormemente al trasferimento di ricchezza dai contribuenti più poveri ai ceti più ricchi della popolazione, dal momento che le istituzioni pagavano gli interessi sui prestiti forniti da ricchi mercanti e banchieri con il denaro fornito alle casse statali dalle imposte indirette, pagate da tutti indistintamente.

Il debito pubblico divenne così uno dei motori dell’accumulazione di capitali necessaria all’avvio della nuova fase espansiva dell’economia europea tardomedievale e moderna. Le radici della rivoluzione industriale del XVIII secolo sono infatti da ricercare principalmente negli effetti della riorganizzazione del sistema commerciale e creditizio grazie alla quale produttività, aspirazioni, livelli di ricchezza e capacità di spesa ripresero ad aumentare.

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  fenomeni

Cristianesimo e dottrina economica

Le relazioni tra fede cristiana e pratiche di mercato sono ambigue già all’interno dei Vangeli, in cui sono presenti sia l’episodio della cacciata dei mercanti dal tempio, in quanto profanatori della casa di Dio, sia la parabola dei talenti, in cui - anche se in maniera certamente allegorica - risulta virtuoso chi impegna e fa fruttare i denari ricevuti dal padrone, dividendo con lui il guadagno, e non chi si limita a conservarli. Su questa base si discusse a lungo sul ruolo della moneta e del commercio nella vita del buon cristiano.

Nel corso dell’alto Medioevo la diffusione delle istituzioni monastiche e l’integrazione tra poteri religiosi e poteri regi e imperiali consentì l’affermazione di un modello di buone pratiche di amministrazione: non si negava affatto l’uso dei meccanismi economici o di mercato, ma se ne individuava il fine nella corretta gestione dei grandi patrimoni che le stesse istituzioni ecclesiastiche e pubbliche si trovavano a gestire. Produrre, commerciare, gestire ricchezze e investire denaro, in particolare durante la positiva congiuntura economica del pieno Medioevo, divennero progressivamente attività ricomprese concettualmente nella sfera del sacro, purché i frutti di queste fossero a beneficio dell’intera comunità cristiana.

L’usura come danno al bene comune

Tra il XIII e il XV secolo questo concetto collettivo, specialmente per opera della riflessione degli Ordini mendicanti, fu definito come “bene comune” della res publica e la buona amministrazione dei beni fu considerata un esempio di carità, di amore per il prossimo. L’avarizia o l’usura (ciò che il prestatore riceve in più dal debitore, rispetto al capitale prestato) venivano così condannate non in base a un’astratta condanna del denaro, ma alla luce del danno che esse potenzialmente apportavano al bene della collettività, ossia come cattiva pratica del denaro, qualora esso non fosse rimesso a disposizione della comunità.

L’attività di prestito praticata dagli ebrei era condannata appunto perché i frutti dell’interesse maturato non sarebbero stati rimessi a disposizione dell’intera società cristiana, ma avrebbero arricchito solo una comunità “altra” e marginale rispetto alla maggioranza. In questo modo, da un teorico divieto assoluto di percepire interessi da un prestito, si passò a riconoscere invece la liceità dell’interesse quando il prestatore correva un rischio o quando il prestito non veniva restituito nei tempi previsti, recandogli dunque un danno. La dottrina economica cristiana poté così legittimare e sostenere sul piano teorico ed etico lo sviluppo dell’economia europea.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715