9.3 La crisi degli insediamenti urbani e rurali

9.3 La crisi degli insediamenti urbani e rurali

Il calo demografico nelle città

Approfittando della crescita economica dei secoli precedenti, la popolazione delle aree più produttive, pianure e città, era cresciuta in modo evidente, alimentata anche da consistenti flussi migratori dalle campagne. Erano zone ad altissima densità di popolamento la penisola italiana, dove si calcola che molte città avessero superato la soglia dei 10 000 abitanti e, in diversi casi, le decine di migliaia (Milano, Venezia, Firenze oltre i 100 000, Genova 60 000, Verona, Brescia, Bologna, Pisa, Siena, Napoli, Palermo 40 000), la Piccardia, la Provenza e la regione di Parigi (Île-de-France).

Queste stesse aree (con l’eccezione di Milano) furono quelle più duramente colpite dalla pandemia, giungendo a perdere dalla metà ai due terzi della popolazione: solo per fare alcuni esempi, Firenze, una delle città più popolose d’Europa agli inizi del Trecento, con circa 110 000 abitanti, nel 1427 ne contava appena 37 000, mentre Barcellona passò da 45 000 a 20 000 abitanti tra il 1340 e il 1477. In questi e altri casi le ampie cinte murarie precedenti alla crisi risultarono per lungo tempo sproporzionate rispetto alla popolazione e all’interno delle città si diffusero orti e campi.

Il calo demografico nelle campagne

Alla crisi demografica urbana si sommò anche quella degli insediamenti rurali medi e piccoli, fortificati o aperti, già in atto nel tardo Duecento: è il cosiddetto fenomeno dei villaggi abbandonati, che interessò gran parte delle aree rurali europee [▶ luoghi, p. 286]. Nel continente, le aree più duramente colpite da questo fenomeno furono la Turingia, la Sassonia e il Brandeburgo, l’Inghilterra e l’Italia, specialmente in Sardegna e Sicilia, nel Mezzogiorno continentale e nelle maremme costiere di Lazio e Toscana, mentre nei territori dell’Italia comunale fu più contenuto.

Nei casi in cui gli abbandoni furono definitivi (molti castelli e casali del Mezzogiorno, o i villaggi del fertile open field inglese), il fatto che essi non fossero più rioccupati è legato a quanto detto in precedenza riguardo alle strategie dei proprietari terrieri e degli investitori in ambito agricolo: la riconversione delle terre a usi pastorali consentiva di sostenere i livelli di rendita, attraverso la produzione e il commercio di carne, lana, pelli, formaggi, e di far fronte al crollo del mercato dei grani in seguito alla crisi demografica. La maglia insediativa rurale che più risentì di queste strategie fu infatti quella delle regioni che avevano concentrato la produzione nel settore cerealicolo, dove si assisté a una profonda ricomposizione territoriale: da un lato, larghe masse contadine persero gran parte del potere contrattuale su cui avevano potuto contare durante la fase di crescita economica, per cui si trasferirono nelle città, riducendo di conseguenza la piccola proprietà; dall’altro, si costituirono ampie riserve signorili e statali destinate all’allevamento.

In gran parte si trattò di allevamento transumante, con imponenti spostamenti stagionali di greggi e mandrie di ovini, caprini, bovini e cavalli dalle montagne alle pianure, organizzato da associazioni di allevatori e pastori (le meste iberiche) o da istituzioni pubbliche (le dogane) che operavano un sistematico prelievo fiscale per garantire l’accesso ai pascoli. Tra queste ultime, si ricordino la Dogana delle pecore di Foggia, che estendeva la propria autorità tra Abruzzo e Puglia e che costituiva una delle principali entrate fiscali del Regno di Napoli [ 4], i Paschi senesi o la dogana del Patrimonio di San Pietro, nel Lazio.

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  luoghi

I villaggi abbandonati

Il tema dei villaggi medievali abbandonati è stato a lungo oggetto di dibattito di storici e archeologi. A partire dalla prima metà del Novecento si sono confrontate due grandi tesi per spiegare le cause e la cronologia del fenomeno: una lo collegava al tracollo demografico verificabile alla metà del Trecento; l’altra lo considerava invece come effetto della generale crisi economica, iniziata già nel­l’ultimo quarto del Duecento. In seguito, tuttavia, entrambe queste ipotesi sono state ridiscusse: oltre alla peste e alla crisi anche le guerre, l’accresciuta pressione fiscale e alcune deliberate scelte politiche influirono infatti direttamente su questo processo.

Ci si è inoltre resi conto che le fonti registrano fenomeni di abbandono anche in periodi di crescita economica: la causa, in tali casi, fu l’accesa concorrenza tra i vecchi insediamenti e quelli più recenti, sorti per effetto delle politiche di colonizzazione di terre nuove. Si è tentato dunque di riordinare gli elementi fondamentali del dibattito, distinguendo l’oggetto dell’abbandono (campi o insediamenti, questi ultimi a loro volta divisi tra insediamenti maggiori e minori) e le modalità con cui questo processo si è verificato: parziale o completo, rispetto ai tassi di spopolamento; temporaneo o definitivo rispetto alla durata.

Differenze geografiche e funzionali

Va inoltre sottolineata la varia incidenza geografica degli abbandoni: essa fu molto alta in Germania, dove si calcolano circa 40 000 insediamenti rurali scomparsi tra Trecento e Cinquecento, e nel Mezzogiorno continentale d’Italia, che registra percentuali di abbandono superiori al 50%; molto più contenuta fu invece, per esempio, nell’Italia comunale, dove tale percentuale si attesta intorno al 10%. Infine, alcuni di questi villaggi abbandonati cambiarono funzione, sia per iniziativa privata che pubblica: diventarono aziende agrarie e dimore rurali (cascine, poderi, masserie) al servizio delle nuove logiche economiche e sociali che attraversavano le campagne tardomedievali, dove pure si andavano diffondendo castelli residenziali o fortilizi (torri, casetorri, bicocche), efficienti nel controllo del territorio e nel rafforzamento del prestigio sociale aristocratico.

Storie. Il passato nel presente - volume 1
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Dal 1000 al 1715