Veronese

5.16 Veronese

Paolo Caliari (Verona 1528-Venezia 1588) è un artista di spicco del secondo Cinquecento italiano, portatore di un approccio originale alla lezione di Tiziano, che egli sviluppa nella direzione di un avvicinamento alla natura concepita come visione fantastica e come idilliaco contesto per la vita degli uomini. L’artista, figlio di uno scalpellino, è detto il Veronese da quando, dalla sua città natale, si sposta in Laguna sul principio degli anni Cinquanta del Cinquecento. Verona è per il giovane Paolo un luogo ideale per la sua formazione artistica: la città conosce le esperienze più avanzate che si sviluppano fra Venezia, Mantova e Parma, ma è anche influenzata dagli esiti più innovativi dell’arte centro-italiana.
L’Antico, inoltre, è una presenza molto forte a Verona, realtà urbana punteggiata da significative testimonianze archeologiche: dall’Arco dei Gavi all’anfiteatro romano, alla Porta dei Borsari. Fin dagli esordi, Veronese ottiene committenze prestigiose in area veneta e in particolare a Venezia, dove vivrà fino alla morte, avvenuta nel 1588.
Un carattere distintivo della sua opera è la tavolozza dalle tinte chiare e luminose messe in stretto rapporto con l’ambiente. Un’ulteriore peculiarità si riconosce nella particolare vena narrativa che lo porta a restituire con chiarezza ed eleganza espressiva scene complesse e articolate, concepite per rispondere alle esigenze di sfarzo, lusso e spensieratezza dei suoi committenti. Il virtuosismo prospettico è strumento essenziale nelle sue opere: gli consente di creare effetti visivi di notevole suggestione, di forte stupore e pieno coinvolgimento dello spettatore.

Giove che fulmina i vizi 

I legami con le ardite sperimentazioni prospettiche di Giulio Romano nelle decorazioni mantovane di Palazzo Te, o con gli artifici illusionistici di Correggio sono elementi essenziali della grande tela con Giove che fulmina i vizi (61), concepita da Veronese per la decorazione del soffitto di un ambiente di Palazzo Ducale a Venezia. La rappresentazione mitologica è realizzata con intenti simbolici e allegorici e allude alle funzioni giudiziarie del Consiglio che si svolgevano nella sala.
In quest’opera, l’espressività di Tintoretto si combina inoltre con la precisa e fluente resa anatomica delle figure di matrice tizianesca, che appare modificata sulla scorta dell’influenza del Giudizio universale di Michelangelo ( pp. 216-217). La vena narrativa di Veronese acquisisce qui una particolare intensità grazie allo studio accurato delle posizioni dei corpi nella scena, con una messa a punto di combinazioni fra le membra dei protagonisti che sembrano voler sfidare le leggi della gravità. Con questo dipinto, il timbrico colorismo di Veronese, realizzato accostando i colori secondo tinte nitide e contrastanti, introduce un deciso rinnovamento del tonalismo di Giorgione. Veronese giunge così a realizzare un'opera che, sintetizzando e integrando componenti diverse, prefigura una linea di sviluppo del tutto originale che trova nella luminosità e nella chiarezza "espositiva" i suoi elementi fondativi. 

CONFRONTI E INFLUENZE

Durante gli anni di formazione, Veronese ha modo di studiare le opere di Giulio Romano e Correggio. A quest’ultimo in particolare sembra rimandare l’ardito impianto prospettico della tela con Giove che fulmina i vizi. Ritroviamo qui la visione dal basso e la descrizione di figure fortemente scorciate. Il gesto di Giove, inoltre, ricorda da vicino quello del Cristo descritto dal Correggio nella Chiesa di San Giovanni Evangelista.

 › pagina 319 

Nozze di Cana 

La capacità di Veronese di dar luogo a composizioni complesse con spirito narrativo e chiarezza espressiva emerge pienamente nella grande tela delle Nozze di Cana (62). L’opera è commissionata all’artista nel giugno del 1562 dai padri del monastero benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia, appena rinnovato da Palladio, per la parete di fondo del refettorio. Il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino da parte di Gesù, episodio descritto nel Vangelo di Giovanni come primo miracolo
pubblico di Cristo, è raccontato attraverso un originale dialogo tra il passato e il presente, tra sacro e profano. L’affermazione del prestigio dei committenti è affidata alla complessa articolazione
della scena architettonica "all’antica" e agli elementi di arredo, descritti con particolare minuzia. La cena, in primo piano, si svolge in uno spazio aperto, definito da monumentali colonne doriche trabeate. Sullo sfondo, dietro una balaustra posta a un piano rialzato, si intravedono brani di città in un’ariosa prospettiva creata dai colonnati corinzi. Tra le ben centotrentadue figure che affollano il dipinto in abbigliamento sfarzoso, sembra sia possibile identificare vari personaggi illustri della Venezia del tempo, ma anche artisti contemporanei al pittore, tra i quali Tiziano e Tintoretto, oltre allo stesso Veronese. L’episodio narrato diviene qui il pretesto per restituire tutta la ricchezza dello spazio raffigurato, espanso in una dimensione luministica; il virtuosismo del pittore nella resa della realtà si concretizza offrendo all’osservatore uno specchio raffinatissimo della vita dell’aristocrazia veneziana alla metà del Cinquecento.

 › pagina 320 

Bella Nani 

Veronese si dedica anche al genere del ritratto, affrontato con rasserenante oggettività, spirito di osservazione, amore per la resa del dettaglio. In tal senso appare esemplificativo il dipinto conosciuto come Bella Nani (63), dal nome della famiglia veneziana presso la quale, alla metà del XVII secolo, la tela era conservata. Vi è raffigurata una nobildonna dai capelli chiari e dalle vesti sontuose. Il suo etereo incarnato è illuminato da una luce calda, capace di far risaltare l’abito di velluto blu notte e il leggerissimo velo fissato alle spalle da due monili dorati. I capelli raccolti dietro la nuca esprimono eleganza e il girocollo di perle rafforza l’idea di ricchezza della protagonista, suggerita dagli altri particolari che ne contraddistinguono l’aspetto. L’immagine concepita da Veronese restituisce una bellezza che sembra incarnare il canone ideale della femminilità cinquecentesca, oltre a restituire in modo inequivocabile – attraverso gli abiti, i gioielli ma anche grazie alla grande dignità affidata all’espressione del volto e alla posizione del corpo – lo status sociale della dama. Come Tiziano, Veronese utilizza un fondo scuro per far risaltare la raffigurazione della protagonista.

La cena in casa di Levi 

Nel 1573 Veronese è chiamato dall’Ordine domenicano a realizzare una tela di dimensioni grandiose per il refettorio del convento veneziano dei Santi Giovanni e Paolo, raffigurante l’Ultima cena, poi ribattezzato La cena in casa di Levi (64-65). All’interno di una monumentale ambientazione scenografica d' ispirazione palladiana, con una loggia tripartita dietro a cui s’intravedono le quinte architettoniche di un’immaginaria città, Cristo siede al centro, individuato dai colori della veste e da un leggero bagliore intorno alla testa, simile a un’aureola, ma gli apostoli si confondono tra una folla di personaggi totalmente disinteressati alla presenza del Salvatore, nessuno dei quali è citato nel racconto del Nuovo Testamento. I servitori e i soldati armati si muovono tra ricchi patrizi veneziani, i bambini giocano sulle scale, un cane siede davanti alla tavola e alcuni giullari allietano la cena. Il tema religioso diventa per il pittore solo un pretesto e a dominare l’immensa tela sono gli infiniti dettagli mondani: gli abiti sfarzosi e le apparecchiature della tavola trasformano la rappresentazione in un’elegantissima e lussuosa cena veneziana del Cinquecento. La rappresentazione rompe con i canoni di semplicità e chiarezza dei Cenacoli e non passò inosservata: Veronese fu chiamato a giustificare le sue scelte iconografiche e stilistiche di fronte al Tribunale della Santa Inquisizione, l’organo ecclesiastico che giudicava le persone sospettate di eresia e di dottrine non conformi alla fede cattolica.
Nel corso del processo, al pittore fu chiesto perché avesse scelto di raffigurare «buffoni imbriachi thodeschi nani et simili scurrilità», ossia i numerosissimi personaggi secondari, dai giullari, da chi è troppo dedito al vino, ai soldati tedeschi armati: Veronese rispose che «se nel quadro li avanza spacio, io l’adorno di figure secondo le invenzioni», rivendicando la «licenza che si pigliano i poeti e i matti», ossia una fantasiosa libertà di espressione. Al termine del processo, il pittore non fu condannato, ma fu costretto dal Tribunale a cambiare alcuni dettagli, come il servo che perde il sangue dal naso citato nei documenti, ma assente nella versione finale. Fu soprattutto imposto un nuovo titolo: da Ultima cena, l’istituzione del sacramento dell’Eucarestia, la tela fu ribattezzata Cena in casa di Levi, con riferimento all’episodio in cui il ricco Levi, il futuro apostolo Matteo, offrì a Cristo un lussuoso banchetto, un soggetto che si adattava meglio alle scelte e alle licenze dell’artista.
GUIDA ALLO STUDIO
Veronese
  • Uso di colori chiari e luminosi
  • Spiccata vena narrativa
  • Virtuosismo prospettico
  • Resa anatomica delle figure
  • Scene complesse

Contesti d’arte - volume 2
Contesti d’arte - volume 2
Dal Gotico internazionale al Rococò