Michelangelo

4.3 Michelangelo

Michelangelo Buonarroti (Caprese, Arezzo 1475-Roma 1564) si forma a Firenze nella bottega di Domenico Ghirlandaio: entra così in contatto con l’ambiente di Lorenzo il Magnifico, dove si distingue precocemente. I cambiamenti politici e il suo spirito inquieto lo portano a lasciare Firenze per recarsi a Venezia e a Bologna (1494-1495). Dopo un breve rientro a Firenze, è a Roma (1496-1498); il vivace clima culturale dell’Urbe è il contesto ideale per sviluppare nuove attitudini: Michelangelo, che già eccelle nel disegno, accresce la propria sensibilità per l’Antico nell’ambiente del cardinale Raffaele Riario, personaggio di raffinata cultura. Giunge così la prima importante commissione di un gruppo scultoreo: la Pietà Vaticana (1497-1499). L’inizio del nuovo secolo lo vede nuovamente a Firenze, dove riceve l’incarico della grande statua del David. Nell’anno in cui il gigante di marmo è collocato in piazza della Signoria (1504), Michelangelo inizia gli studi per l’affresco della Battaglia di Cascina, episodio della storia militare fiorentina che doveva fare pendant con la Battaglia di Anghiari di Leonardo: Buonarroti non va oltre il cartone, ma la sua fama è ormai consolidata. Papa Giulio II della Rovere lo chiama nuovamente a Roma per un’opera di assoluto rilievo: la propria sepoltura nella nuova Basilica di San Pietro (1505), un’opera fra scultura e architettura, a delineare una compenetrazione delle arti che caratterizza l’altro capolavoro della committenza di Giulio II, gli affreschi della volta della Cappella Sistina (1508-1512). Con il figlio di Lorenzo il Magnifico, papa Leone X, Michelangelo esordisce come architetto: nel 1516 lavora ai progetti per la facciata della Basilica di San Lorenzo a Firenze, e poi, nello stesso complesso, alla Sagrestia Nuova (dal 1519) e alla Biblioteca Laurenziana (1523-1534). Durante il pontificato di Clemente VII Medici (1523-1534), Firenze torna a essere brevemente una Repubblica (1527-1530) e subisce l’assedio delle truppe imperiali di Carlo V, alleate del papa: Michelangelo partecipa alla difesa della città progettando mirabolanti fortificazioni e sfidando così il pontefice. Hanno la meglio le forze filo-medicee e Michelangelo è costretto a riappacificarsi con Clemente VII, ma nel 1534 lascia Firenze per recarsi definitivamente a Roma.
Con Paolo III Farnese (1534-1549) instaura un rapporto molto stretto da cui nascono opere di grande rilievo in pittura (fra cui Il Giudizio universale, nella Cappella Sistina) e in architettura, che culminano con la nomina a primo architetto della Basilica di San Pietro; è Paolo III, inoltre, a liberarlo da ogni responsabilità nei confronti degli eredi di Giulio II per i quali non aveva ancora concluso la tomba del papa: una vicenda dolorosa per l’artista che lo aveva tormentato a lungo. Con i successori di papa Farnese, Giulio III, Paolo IV e Pio IV, Michelangelo continua a dedicarsi a San Pietro, progettandone il tamburo e la cupola. Durante il pontificato di Pio IV, a pochi anni dalla morte, Buonarroti si impegna in lavori architettonici sempre più complessi: è il caso della piazza del Campidoglio, dove affronta il problema della progettazione a scala urbana. Nell’ultima fase della sua lunghissima vita continua a praticare la scultura e a esplorare forme espressive segnate dal senso del dramma, della sofferenza e della precarietà della vita: è il caso della Pietà Rondanini, sorta di testamento spirituale a cui l’artista stava lavorando poco prima della morte, sopraggiunta alla vigilia del suo ottantanovesimo compleanno, nel 1564.

Gli esordi di Michelangelo scultore

L’esordio di Michelangelo è contrassegnato da una profonda riflessione sui maestri del primo Quattrocento e sull’arte antica. Questo esaltante "tirocinio" si svolge a partire dal 1489 nel "giardino di San Marco" (► p. 192), una sorta di accademia artistica promossa da Lorenzo il Magnifico, dove gli artisti e i letterati si confrontano in un percorso di scambio reciproco. Nel giardino, non distante dal palazzo dei Medici in via Larga, crea le sue prime opere in marmo: la Madonna della Scala e la Battaglia dei Centauri e dei Lapiti.

Madonna della Scala 

Il primo marmo è una rappresentazione della Madonna con il Bambino (25) che dialoga con la scultura donatelliana, anche nell’uso dello "stiacciato" (► pp. 62-63), ossia un rilievo sottilissimo che con un leggero sfalsamento dei piani restituisce l’effetto della profondità spaziale in una lastra dallo spessore minimo. La composizione ideata da Michelangelo è tuttavia del tutto innovativa nell’impostazione della scena, nell’atteggiamento dei personaggi e nei loro rapporti dimensionali. Maria, che domina la scena, non volge lo sguardo verso Gesù che, con una scelta insolita, è rappresentato di spalle; tale posa permette all’artista di concentrarsi sulla resa della muscolatura e dell’anatomia del corpo, due temi che caratterizzeranno a lungo la sua produzione. Sulla sinistra, l’invenzione della scala su cui giocano in lontananza alcuni putti rafforza il senso della terza dimensione oltre ad alludere, forse, alla metafora neoplatonica di Maria come "scala" che unisce l’uomo al divino.
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Battaglia dei Centauri e dei Lapiti 

Un soggetto mitologico, lo scontro tra uomini e centauri, è sviluppato da Michelangelo su suggerimento di Poliziano, grande letterato al servizio di Lorenzo il Magnifico (26). Il tema diviene l’occasione per esplorare l’espressività dei corpi in tensione e la drammaticità dell’intreccio di muscoli, due motivi che rimarranno costanti nella produzione scultorea dell’artista. Questa indagine sul nudo maschile in movimento si svolge nel quadro di una riflessione sulle soluzioni formali degli esempi antichi: un probabile modello è stato individuato in uno dei sarcofagi romani conservati nel Camposanto Monumentale di Pisa. Si evidenzia così precocemente come Buonarroti legge l’Antico: il suo interesse si rivolge verso le opere ellenistiche, caratterizzate da maggior pathos e senso del movimento.

CONFRONTI E INFLUENZE

Bertoldo di Giovanni fu maestro di Michelangelo e questo suo rilievo bronzeo raffigurante una scena di battaglia costituisce un precedente importante per l’opera del giovane allievo. La concitata concatenazione compositiva di gesti veementi e pose articolate è ripresa da Michelangelo che la rielabora in modo originale: nella sua opera ogni personaggio è sì collegato agli altri, ma è anche individuato singolarmente, è, in un certo senso, un autonomo studio di nudo utilizzato dall’artista per esercitarsi nella resa delle torsioni, delle pose, dell’anatomia.

Le prime commissioni romane

Nel 1492 muore Lorenzo il Magnifico e il clima artistico fiorentino cambia rapidamente: Michelangelo viaggia tra Venezia e Bologna, per poi raggiungere Roma nel 1496 su invito del cardinale Raffaele Riario.

Bacco 

È proprio per il cardinale Riario che Michelangelo realizza il suo primo grande marmo a tutto tondo: il Bacco (27), poi rifiutato dal committente e approdato nelle collezioni del suo agente, Iacopo Galli, che lo esponeva nel giardino della sua residenza romana insieme a pezzi antichi. L’originalità con cui Michelangelo affronta la rappresentazione della divinità antica e compete con l’arte classica si riconosce soprattutto nel rapporto con il piccolo satiro alle sue spalle: un sottile dinamismo, che invita lo spettatore a girare attorno all’opera, percorre le due figure che sfidano la staticità della materia e i vincoli del marmo, per mostrarsi in una posizione sinuosa (il satiro) e in un equilibrio fatto di contrasti (Bacco). La posa delle gambe e delle braccia del dio rivela la capacità di Michelangelo di sperimentare soluzioni ardite e dare la massima espressività ai gesti e alle posizioni del corpo per restituire pensieri e stati d’animo: il dio barcolla instabile per l’ebbrezza e fissa senza quasi vederla la coppa sollevata, con un naturalismo che dialoga con i più alti esempi della statuaria antica.

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Pietà Vaticana 

L'opera (28) è commissionata dal cardinale francese Jean Bilhères Lagraulas nel 1497 per la propria sepoltura: nella scelta di raffigurare la Vergine che regge il corpo morto di Cristo deposto dalla croce, l'alto prelato seguiva una tradizione consueta nel Paese d'origine, diffusasi a partire dal XIV secolo proprio in connessione ai monumenti funerari. Il gruppo non si trova più nella posizione originale, una rotonda tardo antica posta a fianco del transetto sud della Basilica di San Pietro profondamente alterata nel Cinquecento, e questo ha creato discussioni fra gli studiosi sull'originaria disposizione e l'altezza rispetto all'osservatore concepita da Michelangelo: il volto di Cristo nell'attuale sistemazione è meno visibile rispetto a quello della Madonna, che si offre invece a una predominante vista frontale divenendo il focus della composizione. La Vergine, seduta su una roccia, metafora del Calvario, è raffigurata (con un anacronismo), non come la madre di un uomo di trentatré anni ma come un'adolescente, insieme madre di Cristo e figlia di Dio, perfetta nella sua bellezza incorrotta. Le posizioni reciproche del figlio e della madre, la combinazione della posa del volto di Maria e del corpo esanime di Gesù sono cifre distintive dell'opera, insieme alla straordinaria lucentezza e al candore del marmo – che dona ai volti una ideale perfezione – e all'accuratezza nella lavorazione dei dettagli, soprattutto nell'amplissimo manto che ricade sulle gambe della Vergine e che si confonde con il lenzuolo funebre su cui appoggia il corpo di Cristo. L'opera ebbe immediatamente un grande successo e segnò la consacrazione del giovanissimo artista, appena ventiduenne.

Il ritorno a Firenze

David 

II marmo da cui nasce il capolavoro michelangiolesco (29) è un blocco di proprietà dell'Opera di Santa Maria del Fiore, l'istituzione (espressione dell'oligarchia cittadina), che governa la costruzione e la decorazione della cattedrale fiorentina, ed era stato già in parte scolpito nel 1463 con lo scopo di realizzare una statua di un profeta, atteggiato come un Ercole antico, da porre su uno degli sproni del duomo fiorentino. L'impresa rimase incompiuta, probabilmente perché il blocco di oltre 4,5 metri di altezza fu giudicato di cattiva qualità e abbandonato. Gli operai di Santa Maria del Fiore (cioè l'organo laico a capo dell'Opera) conferiscono l'incarico nel 1501 al giovane Michelangelo ventiseienne, ritornato appositamente da Roma: il David nasce dunque come opera di arte sacra, e solo a pochi mesi dalla sua conclusione e in seguito a un dibattito promosso dalla stessa istituzione fiorentina è collocato all'ombra della torre di Palazzo della Signoria. Con la nuova collocazione, il gigante si trasforma nel simbolo delle virtù civiche, dell'orgoglio e della forza di una piccola ma fiera Repubblica di fronte alle potenze europee e alle altre realtà della Penisola. Secondo interpretazioni recenti, dunque, sia nella fase ideativa, sia per quasi tutto il corso della realizzazione dell'opera, il David è per Michelangelo un personaggio religioso, è il re pastore di Israele di cui parla la Bibbia, padre di Salomone e antenato di Gesù, discendente della stirpe di Davide secondo i Vangeli.
Con profonda innovazione rispetto alle raffigurazioni quattrocentesche – come i David di marmo e di bronzo di Donatello ( pp. 64-65) – l'eroe biblico è ritratto da Michelangelo non vittorioso, con il piede a schiacciare la testa del gigante Golia, ma nell'attimo in cui sta per scagliare il colpo decisivo con la sua fionda, stirata lungo la schiena e stretta nella mano sinistra. La concentrazione che caratterizza l'audace atto è espressa dallo sguardo e dalla posizione della testa, mentre una leggera tensione attraversa le membra del corpo, soprattutto nella gamba sinistra, appena sollevata da terra. La posizione del braccio destro steso sul fianco, perpendicolare alla base della scultura, evidenzia il lieve piegamento del busto che mette così in risalto la muscolatura del diaframma e della parte superiore del torso, delineata in modo da rivaleggiare con quella di un atleta del mondo greco-romano. L'Antico è dunque un preciso riferimento per l'artista, soprattutto nell'anelito al raggiungimento della perfezione dell'esattezza anatomica, ma la serena pacatezza delle statue classiche è superata dal senso del movimento che Michelangelo riesce a infondere alla scultura. La composizione ideata da Buonarroti ha una vividezza tale da creare fra il gigante marmoreo e l'osservatore un dialogo ideale che rende percepibile la tensione psicologica del personaggio e il suo mondo interiore.
Impegnato in gravosi incarichi pubblici, Michelangelo riesce comunque a realizzare alcune opere di committenza privata. Si tratta di due tondi marmorei e di un dipinto. Queste opere sono accomunate dall'impegno dell'artista nell'inserire gruppi complessi di figure in una cornice circolare, tema caratteristico dell'arte toscana. In ciascuna di esse l'artista risolve la questione in modo diverso ma secondo un principio simile: l'equilibrio compositivo è raggiunto mediante un calibrato bilanciamento dei contrasti, con l'assetto delle figure animato da un sottile dinamismo di forze opposte, colte nell'attimo della loro ricomposizione. Tale aspetto emerge con particolare chiarezza quando si rifletta sulle differenze che separano queste opere dalla pittura di Leonardo, con particolare riguardo ai suoi dipinti con gruppi di figure organizzate in schemi piramidali, come per esempio le due versioni della Vergine delle Rocce ( pp. 196-197): pur mostrando di aver meditato sull'opera leonardesca, Michelangelo se ne distacca proprio per l'elaborazione di una soluzione segnata dalla ricerca della resa in movimento, opposta dunque alla ricerca dell'integrazione armonica delle figure, perseguita da Leonardo.

CONFRONTI E INFLUENZE

Il confronto tra il David di Michelangelo e il Doriforo di Policleto rende evidente quanto per gli artisti del Rinascimento il recupero dell’Antico fosse tutt’altro che una semplice e acritica ripetizione di modelli. È infatti interessante notare come Michelangelo “non rispetti” i rapporti proporzionali tra le varie parti anatomiche per i quali proprio il Doriforo (non a caso definito anche “canone” perché basato sui princìpi di armonia, equilibrio e simmetria Vol. I, pp. 126- 127) ha sempre funzionato da modello di riferimento: la testa e le mani, in particolare, risultano più grandi del normale, forse per enfatizzare simbolicamente il pensiero e le azioni che confermano la centralità dell’Uomo nel suo Universo.

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Tondo Pitti 

L’opera (30), realizzata nel 1504-1505, è commissionata da Bartolomeo Pitti, membro di una delle famiglie più in vista di Firenze. La figura di Maria, resa in modo originale, soprattutto nel volto, dall’acconciatura singolare, domina con monumentalità la scena: la definizione delle sue membra e la posizione del suo corpo organizzano lo spazio prospettico del rilievo. La Madonna si proietta verso l’osservatore creando una sorta di piano di riferimento, rispetto al quale sono poi scalati i successivi piani che restituiscono la profondità della scena: a differenza dello stiacciato donatelliano, i passaggi da un piano all’altro avvengono con scarti più netti, dando risalto ai giochi di ombre che si creano sulla superficie dell’opera, a loro volta valorizzati dalla lavorazione diversificata del marmo. Convivono qui, infatti, parti lucidate, parti lavorate a  subbia e parti sommariamente scalpellate, che anticipano il tema del "non-finito" michelangiolesco, centrale nella successiva produzione dell’artista.

Tondo Taddei 

Per Taddeo Taddei, nobile mercante e letterato fiorentino, Michelangelo realizza tra il 1504 e il 1506 un altro tondo (31) che declina lo stesso soggetto, in un assetto compositivo che si distacca dalla tradizione e che costituisce un modello per le contemporanee elaborazioni raffaellesche, come per esempio la Madonna del cardellino ( p. 233). Cristo bambino, colto in una posa fortemente dinamica, è protagonista al centro della scena, mentre le figure di Maria e san Giovannino accompagnano la forma circolare del marmo mediante le rispettive silhouette, informate da un assetto più statico, creando una sorta di bilanciamento della composizione. I personaggi sono resi con un’evidenza plastica progressivamente scalata nel rilievo, accompagnata da diversi gradi di finitura superficiale, con un espediente visivo che crea la profondità della composizione. San Giovannino porge a Gesù un animale (forse un cardellino, simbolo della Passione), da cui il Bambino si allontana come impaurito.
La resa indefinita dello sfondo, trattato con una sommaria scalpellatura, è finalizzata a dare risalto alle figure dei protagonisti ed è stata interpretata da alcuni studiosi come l’equivalente dello sfumato pittorico leonardesco.

Tondo Doni 

Agnolo Doni, già committente di Raffaello ( p. 233), incarica Michelangelo di dipingere una Sacra Famiglia (32), forse in occasione del matrimonio con Maddalena Strozzi (1504) o, come è stato proposto recentemente, per celebrare la nascita della loro figlia Maria (1507). Il tema iconografico è ancora fortemente dibattuto: Maria, il Bambino e san Giuseppe sono in primo piano, mentre lo sfondo è popolato da un gruppo di figure nude. In termini generali, vi si può leggere l’esplicitazione del dialogo fra il mondo pagano della classicità (evocato dai personaggi sullo sfondo) e il mondo cristiano della Sacra Famiglia: a metà fra i due gruppi è san Giovanni Battista, il mediatore fra le due epoche. Al di là delle stratificate interpretazioni sul significato del dipinto, l’opera si offre come una straordinaria prova di Michelangelo nella definizione di forme e soluzioni che esplorano, grazie all’uso di colori freddi e quasi cangianti, l’espressività del corpo umano, sia nella resa anatomica di ascendenza classica sia nella ricerca di pose dinamiche ed emotivamente intense: è il caso della figura di Maria, che ha il busto ruotato dalla parte opposta rispetto alle gambe, a materializzare un movimento ascendente che culmina nelle braccia sollevate per sostenere saldamente il Bambino. Quest’ultimo è colto nel momento in cui Giuseppe lo porge a Maria, a visualizzare un altro movimento circolare contrapposto a quello della Madonna.
Nel gruppo della Sacra Famiglia, infatti, è stata evidenziata la presenza della formula espressiva della " figura serpentinata" (33).
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CONFRONTI E INFLUENZE

Nel Tondo Doni Michelangelo inaugura la sua ricerca sul contrapposto, ovvero su una posa articolata, una sorta di avvitamento che permette di apprezzare il corpo umano in tutta la sua complessità. Si tratta di una formula espressiva detta anche “figura serpentinata” che ritroveremo in altre opere di Michelangelo, per esempio nelle tante figure che inquadrano le scene del soffitto della Cappella Sistina e nella produzione scultorea. La figura serpentinata verrà particolarmente apprezzata e ripresa dai maestri della generazione successiva, tra i quali il Giambologna (► pp. 298-299).

Battaglia di Cascina 

Fra il 1495 e il 1498 viene realizzato nel Palazzo della Signoria il Salone dei Cinquecento, una grandiosa sala per le adunanze pubbliche, che nel 1503 il gonfaloniere Pier Soderini decide di arricchire con nuovi dipinti che devono illustrare alcune fra le più celebri vittorie militari fiorentine. Il momento è drammatico, in quanto Firenze non è in grado di sconfiggere la rivale Pisa e le due città si confrontano ormai da anni in una guerra di cui i fiorentini non riescono a intravedere un esito positivo. Per la decorazione della sala è chiamato prima Leonardo e poi, l’anno seguente, Michelangelo. Come già per Leonardo, l’impresa è destinata a naufragare, ma si sono conservati alcuni documenti iconografici (copie coeve o successive dei cartoni preparatori) che danno conto delle straordinarie invenzioni che furono concepite dai due maestri. A Buonarroti è affidato l’episodio della vittoria dei fiorentini sui pisani a Cascina, nel 1364. Michelangelo non sceglie di rappresentare la battaglia, ma l’attimo che la precede, ovvero il momento in cui– presi dalla paura di essere colti alla sprovvista – i soldati fiorentini si alzano con veemenza e si preparano allo scontro: si tratta ancora una volta di uno dei temi prediletti dell’artista, il corpo nudo maschile in movimento. La copia parziale del cartone (34), eseguita a metà del Cinquecento da Aristotele da Sangallo, documenta una scena organizzata su linee diagonali divergenti. Al centro si nota un vuoto, che allude quasi a un vortice creato dal turbinoso movimento dei corpi. L’assetto compositivo ideato da Buonarroti enfatizza il senso di drammaticità che segna l’evento, rafforzato dall’intreccio delle membra, mostrate nelle loro qualità di sculture tradotte in disegno. L’anatomia e lo studio delle posizioni delle figure assumono in quest’opera, infatti, una particolare valenza, indicando i futuri sviluppi delle ricerche espressive michelangiolesche.

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A Roma

Tomba di Giulio II 

Chiamato a Roma da papa Giulio II, Michelangelo abbandona il progetto del grande affresco con la Battaglia di Cascina per assumere un prestigioso incarico: la sepoltura del pontefice. Quest’opera (35), che unisce scultura e architettura, rappresenta una delle commissioni più tormentate nella vita di
Michelangelo e si prolunga per quasi quarant’anni, secondo due fasi principali: 1505-1506 e 1513-1542. In particolare la seconda stagione, che inizia con la morte del pontefice, si articola in ulteriori e diversificate elaborazioni segnate da nuovi contratti, liti con gli eredi, ripensamenti. Della complessità della vicenda ideativa e realizzativa della monumentale tomba – concepita per la nuova Basilica di San Pietro di Donato Bramante e poi realizzata nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli – danno conto numerose fonti scritte e una serie significativa di disegni e progetti del maestro. Un rilevante corpus documentario e grafico ha permesso così di elaborare ipotesi ricostruttive piuttosto dettagliate (36-37). In termini generali, si passa da un primo progetto che prevedeva un grande sepolcro isolato, dunque un oggetto dalle spiccate qualità tridimensionali, a una più semplice tomba a parete dove l’architettura è solo una cornice per le statue marmoree. Ciò che cambia nelle successive elaborazioni è soprattutto la quantità delle sculture, ridotte progressivamente nel numero, insieme alla complessità dei soggetti raffigurati e all’articolazione del telaio architettonico. La fase iniziale è di fondamentale importanza nella formazione dell’artista, in quanto il progetto viene concepito in stretta relazione con la grandiosa spazialità della nuova basilica bramantesca e in rapporto a questa Michelangelo delinea un artefatto dove scultura e architettura sono strettamente connesse. L’artista, inoltre, si impegna in prima persona nella ricerca dei blocchi di marmo più adatti all’impresa, con lunghi soggiorni nelle cave di Carrara, approfondendo una conoscenza dell’universo delle pietre che diviene un carattere distintivo della sua opera, sia come scultore sia come architetto.

Mosè 

Figura centrale nella configurazione definitiva è il Mosè (38), realizzato tra il 1513 e il 1515, ma ritoccato nel 1542 per la collocazione finale nel monumento funebre: Michelangelo non lo rappresenta come profeta ma come un condottiero e legislatore che tiene in mano il massiccio blocco delle Tavole della legge. Il lieve fremito che anima il volto e che percorre nervosamente le membra esprime tutta la forza interiore del personaggio: nonostante sia ritratto in posa seduta, infatti, Mosè assume nella definizione complessiva e nei movimenti degli arti un assetto che esplora i temi stilistici della figura serpentinata.

GUIDA ALLO STUDIO
Michelangelo: il primo periodo
  • Pittore e scultore di formazione fiorentina
  • Reinterpretazione delle tradizioni classica e quattrocentesca
  • Uso dello stiacciato
  • Resa della muscolatura e dell’anatomia del corpo umano
  • Rappresentazione del corpo nudo maschile in movimento
 › pagina 212 

Prigioni 

Nell’accidentata vicenda della Tomba di Giulio II, alcune sculture eseguite nel corso degli anni sono entrate nella realizzazione definitiva di San Pietro in Vincoli, altre invece sono state scartate e hanno trovato una diversa destinazione. Appartiene a quest’ultimo gruppo la serie dei Prigioni, ovvero sei sculture di grandi dimensioni, due delle quali (1513 circa) conservate al Museo del Louvre e quattro (1519-1534) alla Galleria dell’Accademia di Firenze. Pur con diverse gradazioni, queste figure sono informate da princìpi comuni: pose complesse e artificiose mettono in luce i pregevolissimi dettagli anatomici di una bellezza idealizzata; i corpi, inoltre, sono colti nell’atto estremo di liberarsi dalla materia bruta che li imprigiona, metafora della prigione terrena dello spirito. Lasciate in gran parte incompiute, le statue ben esemplificano uno dei temi fondamentali della poetica michelangiolesca, il "non-finito" (► Materiali e tecniche): i Prigioni, amati da ricchi collezionisti proprio a causa della loro incompletezza, paiono lottare contro la materia inerte del marmo per venire alla luce.

MATERIALI E TECNICHE

Il "non finito"

Nelle opere scultoree Michelangelo amava differenziare la resa della superficie, oscillando tra diversi gradi di finitezza. In particolare verso la maturità, le sue statue iniziano a presentare parti a “grezzo”, appena abbozzate, che conferiscono una notevole forza espressiva. Analizzando le opere qui illustrate, possiamo addirittura distinguere i diversi strumenti impiegati. Nel blocco che sta dietro la figura del cosiddetto “schiavo barbuto” si riconosce la lavorazione della subbia, mentre nel blocco su cui poggia il piede dello schiavo giovane si distinguono i solchi paralleli lasciati dalla gradina (o scalpello a denti).

Le ultime opere scultoree

Nell’ultima parte della vita di Michelangelo, la pratica della scultura attiene a una sfera totalmente privata e afferisce al mondo interiore e personale dell’artista. La meditazione religiosa che caratterizza la maturità e la vecchiaia di Buonarroti si coglie nelle due Pietà, che costituiscono le sue ultime opere scultoree: alla fine della sua vita l’artista ritorna sul tema giovanile di una delle sue prime creazioni, il gruppo drammatico costituito dalla Vergine che regge il corpo morto di Cristo, con esiti stilistici totalmente differenti, a testimonianza del suo complesso percorso artistico. La spiritualità di Michelangelo si nutre dei fermenti che attraversano la temperie culturale degli anni Quaranta del Cinquecento, caratterizzati da un profondo sentimento per il rinnovamento della Chiesa cattolica. L’amicizia con la poetessa Vittoria Colonna, vicina agli ambienti "riformati", e i componimenti poetici di Michelangelo di quegli anni definiscono una cornice ben precisa per comprendere l’approccio alla fede dell’anziano Buonarroti, segnato dalla ricerca di un più intimo dialogo con Dio e dalla centralità della figura di Cristo. Come già i Prigioni, entrambe le opere danno conto del "non-finito" michelangiolesco, sul cui significato il dibattito è ancora aperto: questa soluzione formale troverebbe, infatti, da un lato motivazioni di natura stilistica e tecnica (espediente per evidenziare alcune parti rispetto ad altre) o, dall'altro risponderebbe a esigenze ideali e spirituali (rendere visibile il corpo a corpo dell'idea dell'artista con la materia, ovvero il ruolo dello scultore per liberare il concetto chiuso dentro la pietra).

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Pietà Bandini 

L’opera è concepita dall’artista per ornare la propria tomba e la sua lavorazione è intrapresa quando Michelangelo ha ormai superato i settant'anni (39). Prende il nome dal nobile romano che l’acquistò, Francesco Bandini. Già Vasari ricorda il tormentato percorso della scultura che, giunta quasi a metà dello stato di esecuzione, rimane interrotta. A metà della lavorazione, si manifesta infatti un’imperfezione nel marmo che porta Michelangelo a scaricare tutta la sua rabbiosa frustrazione direttamente sul gruppo scultoreo, danneggiandolo gravemente: la frattura che caratterizza il braccio destro del Cristo ne è dolorosa memoria.
Parzialmente ricomposta e sommariamente conclusa da uno dei suoi collaboratori, Tiberio Calcagni (Firenze 1532-Roma 1565), l’opera si presenta come un palinsesto di soluzioni formali e concetti compositivi di grande rilievo. Sono uniti due temi iconografici diversi, quali il compianto e la deposizione di Cristo. Michelangelo crea un gruppo di quattro figure scolpite in un unico blocco marmoreo: Nicodemo (nel cui volto si riconoscono le sembianze di Buonarroti) sostiene, quasi a fatica, il corpo di Cristo, di proporzioni superiori rispetto agli altri, e fulcro della composizione, che appare come fuso con quello della Madonna, in una potente metafora dell’ultimo sofferente abbraccio fra la madre e il figlio; completa il gruppo la Maddalena, quasi del tutto opera di Calcagni.

Pietà Rondanini 

La scultura prende il nome dal palazzo romano dove era conservata prima di essere acquistata dal Comune di Milano nel 1951 (40). Michelangelo lavora al gruppo dal 1552 fino agli ultimi giorni della propria vita: l’opera costituisce così una sorta di testamento spirituale. La scultura non è conclusa e ha conservato anche le variazioni del progetto che l’artista non ha avuto modo di eliminare per il sopraggiungere della morte: è il caso della prima versione del braccio destro di Cristo che avrebbe dovuto essere eliminato e che invece è rimasto come lo vediamo oggi. Rispetto alla Pietà Bandini, si ha una semplificazione dell’assetto del gruppo: la figura di Cristo, allungata e cadente, è sorretta dalla Madonna. I due personaggi sono ricavati da un unico blocco a rafforzare l’effetto di intimo legame fra la madre e il figlio.

Contesti d’arte - volume 2
Contesti d’arte - volume 2
Dal Gotico internazionale al Rococò