T6 - La partenza di Enea e una morte teatrale

T6

La partenza di Enea e una morte teatrale

  • Tratto da Eneide, libro IV, vv. 642-705 (in traduzione: vv. 779-856)

Pur rassegnata all’impossibilità delle nozze con Enea, Didone chiede alla sorella Anna di convincere l’ospite a rimandare il momento della partenza, ma senza successo. Affranta per il dolore, ormai convinta in cuor suo di non avere alcuna alternativa al suicidio per lavare la vergogna della fedeltà violata al marito defunto, fa preparare un rogo per bruciare i doni ricevuti da Enea, che nel frattempo si è messo in mare, sollecitato da Mercurio. All’alba, nel vedere le navi ormai al largo, Didone lancia una maledizione contro l’amato e, ormai sola, si prepara alla tragica fine.

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Audiolettura

Allora Didone, tremante, esasperata

780 per il suo scellerato disegno, volgendo

attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse

di livide macchie e pallida della prossima morte,

irrompe nelle stanze interne della casa

e sale furibonda l’alto rogo, sguaina

785 la spada dardania, regalo non chiesto per simile scopo.

Dopo aver guardato le vesti lasciate da Enea

e il noto letto, dopo aver indugiato un poco

in lagrime e pensieri, si gettò su quel letto

lunga distesa e disse poche, estreme, parole:

790 «O reliquie, che foste così dolci finché

lo permettevano i Fati e un Dio: ora accogliete

quest’anima, scioglietemi da tutti i miei tormenti.

Vissi, ho compiuto il cammino concessomi dalla Fortuna,

e adesso un’immagine grande di me andrà sottoterra.

795 Fondai una grande città, vidi sorgerne alte le mura,

vendicai mio marito, inflissi al fratello nemico

giuste pene: felice, ahi troppo felice se solo

non fossero mai arrivate ai nostri lidi sabbiosi

navi dardanie!». Disse e premé la bocca sul letto.

800 «Moriamo senza vendetta – riprese. – Ma moriamo.

Così, anche così giova scendere alle Ombre.

Il crudele Troiano vedrà dall’alto mare

il fuoco e trarrà funesti presagi dalla mia morte».

Tra queste parole le ancelle la vedono abbandonarsi

805 sul ferro e vedon la lama spumante di sangue,

vedono sporche di sangue le mani. Un grido si leva

per tutta la reggia, la Fama s’avventa

in furia per la città, le case fremono d’urla,

di lamenti e di gemiti di donne, l’aria suona

810 di grandi pianti, come se Cartagine o Tiro

invase dai nemici crollassero, e rabbiose

le fiamme s’attorcessero tra le case ed i templi.

La sorella sentì la notizia e atterrita

con una corsa affannosa, graffiandosi la faccia

815 con le unghie, picchiandosi i pugni contro il petto,

attraversa la folla chiamando la morente

per nome: «Sorella, per questo mi volevi? Che inganno

doloroso! Per questo volevi il rogo, i fuochi

e gli altari? Che cosa dovrò pianger di più:

820 la tua morte o questo disperato esser sola

nella morte? Sorella, perché non m’hai voluta

tua compagna morendo? M’avessi tu chiamata

ad una stessa morte: un eguale dolore

ed una stessa ora ci avrebbe colte entrambe.

825 Ed io con queste mani eressi il rogo, invocai

gli Dei patrii, per essere da te lontana nell’ora

della morte! Sorella, hai ucciso te e me

e il popolo e i padri sidonii e tutta la tua città!

Ma adesso lasciatemi lavare la ferita,

830 lasciatemi raccogliere con le labbra l’estremo

suo alito, se ancora le aleggia intorno un soffio

di vita!» Precipitosa era salita sugli alti

gradini del rogo e abbracciata la sorella morente

la stringeva gemendo al seno e con la veste

835 tentava di asciugare il nero sangue. Didone

mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano

a stare aperti sviene; la ferita profonda

nel petto stride. Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,

tre volte ricadde sul letto: nell’alto cielo cercò

840 con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette.

Allora Giunone, pietosa del suo lungo dolore

e della straziante agonia, mandò giù dall’Olimpo

Iride, che liberasse l’anima che lottava

invano per svincolarsi dai legami del corpo.

845 Poiché lei non moriva di giusta morte, decisa

dal fato, ma anzitempo, in un accesso d’ira,

Proserpina non le aveva strappato ancora di testa

il biondo fatale capello e non aveva ancora

consacrato il suo capo all’Inferno e allo Stige.

850 La rugiadosa Iride con le sue penne di croco

brillanti contro il sole di mille vari colori

volò attraverso il cielo e si fermò su di lei.

«Questo capello – disse – porto e consacro a Dite

per ordine divino, e ti sciolgo da queste

855 tue membra». Con la destra strappò il capello: insieme

si spense il calore nel corpo, la vita svanì nel vento.


Publio Virgilio Marone, Eneide, libro IV, vv. 779-856, trad. di C. Vivaldi, Garzanti, Milano 1990

 >> pagina 328 

a TU per TU con il testo

La vita impone talora dolori che l’animo umano sembra non essere in grado di sopportare: quello di Didone per la partenza di Enea sicuramente è uno di questi. La scelta della morte precoce, teatralmente rappresentata, con inganno della sorella stessa, è l’approdo naturale di una vicenda irrazionale, quale è spesso l’amore più forte e autentico. Immagina lo struggimento del cuore alla vista delle navi che si allontanano, dissipando ogni dubbio sulla possibilità di un ripensamento e di una felicità futura…

Il connubio tra amore e morte è antico quanto l’uomo, perché non c’è vero amore se non fino alla fine e la passione più bruciante richiede la capacità di sacrificio in favore dell’altro. Virgilio non è poeta delle mezze misure e nel rappresentare questo dramma rivela la sua adesione a una concezione tragica dell’amore come sentimento incompatibile con la durezza della vita terrena. La realtà, fortunatamente, ci dice altro, consolandoci con la freschezza degli amori adolescenziali, con la felicità di quelli coniugali, con l’affetto di quelli che si prolungano fino ai più sereni autunni dell’esistenza, ma anche – come negarlo? – abituandoci a relazioni che conoscono, oltre alla passione, la necessità di un’intesa silenziosa, di una lunga complicità grazie alla quale superare ostacoli e difficoltà. Forse, la verità è che in letteratura è molto più facile rappresentare un amore irrealizzabile rispetto alla concretezza di una storia realmente vissuta. Il primo si presta alla migliore poesia, mentre il secondo deve scontrarsi anche con l’asprezza della prosa e della quotidianità.

 >> pagina 329 

Analisi

È una teatralità ricercata quella con cui Virgilio mette in scena il suicidio di Didone; prima ancora di pronunciare un discorso di commiato e salire sul rogo, la donna è descritta nell’atto di irrompere nella sua stanza, con gli occhi iniettati di sangue, le guance segnate da lividi, il volto pallido per la morte imminente. Accresce la pateticità lo sguardo che indirizza ancora una volta al letto, sul quale si getta per l’ultima volta, e alle vesti lasciate da Enea, evocatrici di ricordi ormai insopportabili (vv. 779-789). Rivolge allora a se stessa l’ultimo discorso, in cui ripercorre le tappe principali della sua vita (vv. 795-799), dalla quale ormai non aspetta nulla di nuovo. Il verso più emblematico della consunzione di Didone è probabilmente quel Vissi, ho compiuto il cammino concessomi dalla Fortuna (v. 793), proprio di chi ormai è rassegnato a lasciare la vita.

Il sentimento per Enea, tuttavia, è ben lungi dall’essere spento e lo dimostra la speranza, l’ultima esternata prima del tragico epilogo, che il suo amato possa vedere da lontano il rogo in cui si consuma la donna che lo ha ospitato e di cui è stato innamorato. Si tratta di una morte invendicata, Didone lo sa bene, ma confida che presto o nel futuro possa trovare riscatto. L’amore cede così il passo all’odio: Moriamo senza vendetta – riprese. – Ma moriamo. / Così, anche così giova scendere alle Ombre. / Il crudele Troiano vedrà dall’alto mare / il fuoco e trarrà funesti presagi dalla mia morte (vv. 800-803).

Espresso l’ultimo desiderio, la donna si abbandona sulla spada che la trafigge mortalmente: quel che segue sono la reazione sconvolta delle ancelle, le grida che si levano per tutta la casa, le urla, i lamenti e i gemiti che percorrono la città come se essa stessa fosse in mezzo alle fiamme (vv. 806-812). Appena raggiunta dalla notizia, Anna corre dalla sorella morente, cui confessa, in preda alla disperazione, tutta la sua sorpresa e il dolore incontenibile. L’affetto della sorella è tale da giustificare il desiderio di una morte comune, che Didone però ha vanificato: Sorella, perché non m’hai voluta / tua compagna morendo? M’avessi tu chiamata / ad una stessa morte: un eguale dolore / ed una stessa ora ci avrebbe colte entrambe (vv. 821-824).

Il tentativo di sollevarla dal rogo e trovarla in vita riesce solo per pochi istanti: Didone ancora viva cerca con gli occhi la luce del sole (vv. 838-840). Come in ogni dramma che si rispetti, l’arrivo della fine è differito per aumentare il pathos della scena, che infatti conosce un crescendo, finché Giunone, impietosita, non decide di inviare Proserpina a recidere il capello che, secondo i Romani, teneva Didone ancora legata alla vita (vv. 841-856).

 >> pagina 330 

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Fai un riassunto del brano (massimo 10 righe).


2. Perché Anna rimprovera Didone?


3. Prima dell’intervento di Giunone, qual è l’ultimo gesto della regina ancora viva?

  •     Rivolge uno sdegnato sguardo al mare. 
  •     Invoca il primo marito. 
  •     Maledice Enea. 
  •     Cerca con gli occhi la luce del sole. 


4. Chi sancisce definitivamente la morte di Didone? In che modo?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

5. Come viene descritta la diffusione della notizia della morte di Didone?


6. Nel brano è presente una similitudine. Quale?


7. Ai vv. 838-839 si legge che Didone, sollevata dalla sorella Anna: Tre volte riuscì a levarsi sul gomito, / tre volte ricadde sul letto. In quale altra occasione a te nota del poema l’iterazione per tre volte dello stesso gesto acquista un particolare valore e conferisce drammaticità alla narrazione?


8. Individua tutti gli aggettivi riferiti a Didone presenti in questo brano. Che impressione producono?

COMPETENZE LINGUISTICHE

9. I complementi. Al v. 782 si legge: pallida della prossima morte. Che complemento è della prossima morte?

  •     Causa. 
  •     Materia. 
  •     Agente. 
  •     Specificazione. 


10. Il lessico. Gli aggettivi derivati. Al v. 850 Iride è definita rugiadosa. Gli aggettivi formati con il suffisso di origine latina -oso indicano pienezza di qualcosa: per esempio, dal nome lacrima deriva lacrimoso, da dolore invece doloroso. Individua altri aggettivi derivati in -oso e i sostantivi da cui si sono formati.

PRODURRE

11. Scrivere per raccontare. L’ultimo desiderio di Didone è che Enea possa vedere da lontano il rogo su cui la donna è salita per darsi la morte. Immagina di descrivere la situazione dal punto di vista di Enea, nell’istante in cui, ormai al largo, osserva il fumo provenire dal palazzo. Quali pensieri può aver avuto? Scrivi un breve testo (massimo 20 righe) che metta in rilievo il conflitto interiore dell’eroe, privato della libertà a causa dell’obbedienza ai disegni del Fato.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Una lunga tradizione afferma che l’amore è una malattia e un vero amore non può che concludersi tragicamente, perché incompatibile con la vita terrena. È possibile un equilibrio? Una fine tragica alla Romeo e Giulietta appartiene solo alle pagine della migliore letteratura o contiene aspetti reali? Discutine in classe con l’insegnante e con i compagni.

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LA VOCE DEI MODERNI

Didone all’opera e il melodramma di Metastasio

Nel Carnevale del 1724 al teatro San Bartolomeo di Napoli veniva rappresentata l’opera Didone abbandonata, lavoro che avrebbe determinato il successo di Pietro Metastasio, uno dei più grandi autori di testi per opera lirica, i cosiddetti libretti. Nato a Roma nel 1698 da famiglia umile, Pietro Trapassi – tale era il suo cognome prima che venisse grecizzato da un accademico – si era fatto notare sin da bambino per la capacità di improvvisare versi su svariati temi, al punto da conquistare il favore dei letterati dell’epoca che decisero di patrocinarne gli studi. Dopo aver tentato la via dell’avvocatura, i contatti con il mondo teatrale napoletano e il suo straordinario talento poetico lo condussero alla fama proprio con la rivisitazione teatrale del mito di Didone.

La storia è decisamente diversa e più articolata di quella virgiliana: una grande novità è nel ruolo di Iarba, presentato come re dei Mori e assurto a personaggio e rivale d’amore di Enea. Mentre quest’ultimo sin dall’inizio è divorato dal tormento interiore proprio di chi sa che deve abbandonare la donna amata, il gioco degli amori incrociati vede anche Selene, sorella di Didone, innamorata segretamente di Enea, che però non la ricambia, mentre di lei è innamorato Araspe, confidente di Iarba.

Nel secondo atto un Enea freddo e calcolatore suggerisce a Didone, seppure a malincuore, di sposare Iarba, pur di non avere contro di sé tutta l’Africa una volta che egli sarà partito. In una scena paradossale Iarba viene fatto chiamare da Didone, che gli porge la mano destra in presenza dello stesso Enea, ora invece incapace di domare il sentimento d’amore. L’eroe troiano se ne va furibondo, mentre Didone confida a Iarba di preferirgli proprio Enea. Il contrasto tra i due uomini è risolto da un duello, che vede Iarba sconfitto. Deciso a vendicarsi, il re dei Mori appicca un incendio per distruggere Cartagine, mentre Enea è ormai partito alla volta dell’Italia. Didone, ancora innamorata del troiano, rifiuta l’ennesima proposta di matrimonio di Iarba, ridotto a miti consigli, e preferisce darsi la morte gettandosi tra le fiamme che avvolgono il palazzo reale.

Rispetto alla tragicità epica dell’Eneide, la Didone abbandonata settecentesca sconta una maggiore freddezza, come dimostrano le parole conclusive di Didone che si avvia alla morte nell’ultima scena del terzo atto.

La drammaticità della scelta del suicidio nel poema virgiliano ha lasciato il posto a un dissidio alquanto vago e superficiale tra il fuggire, il rimanere e il darsi la morte. A decretare il successo dell’opera è piuttosto la straordinaria cantabilità dei versi, unita alla scenografia esotica e sfarzosa, secondo il gusto settecentesco.


  Ah che dissi, infelice! A qual eccesso

1355 mi trasse il mio furore.

  Oh dio cresce l’orrore! Ovunque io miro

  mi vien la morte e lo spavento in faccia:

  trema la reggia e di cader minaccia.

  Selene, Osmida, ah tutti,

1360 tutti cedeste alla mia sorte infida,

  non v’è chi mi soccorra o chi m’uccida.

  Vado… Ma dove?… Oh dio!

  Resto… Ma poi, che fo!

  Dunque morir dovrò

1365 senza trovar pietà?

  E v’è tanta viltà nel petto mio?

  No no. Si mora. E l’infedele Enea

  abbia nel mio destino

  un augurio funesto al suo cammino.

1370 Precipiti Cartago,

  arda la reggia e sia

  il cenere di lei la tomba mia.


P. Metastasio, Didone abbandonata, a cura di A. Frattali, ETS, Pisa 2014

L’emozione della lettura - volume C
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