T5 - Un dialogo impossibile: Enea e Didone

T5

Un dialogo impossibile: Enea e Didone

  • Tratto da Eneide, libro IV, vv. 296-361 (in traduzione: vv. 349-430)

Giunone approfitta della passione di Didone per Enea per fare in modo che questi non raggiunga l’Italia e si trattenga a Cartagine. Con l’appoggio di Venere, crea così le condizioni per favorire un avvicinamento tra la regina e l’eroe troiano: scatena quindi un temporale mentre Enea e Didone sono usciti per una battuta di caccia. Costretti a riparare in una caverna, i due, rimasti soli, consumano la loro unione. Il re dei Getuli, Iarba, pretendente della regina respinto in precedenza, non sopportando di essere stato scavalcato da uno straniero, chiede vendetta a Giove. Il padre degli dèi manda così Mercurio da Enea perché gli ingiunga di abbandonare subito l’Africa e navigare verso l’Italia. Ma Didone si accorge dei preparativi per la partenza prima ancora che le giunga notizia.

Ma la regina (chi può ingannare chi ama?)

350 presentì tutto e s’accorse per prima di ciò che accadeva:

timorosa com’era di tutto, persino di quello

che più pareva sicuro. L’empia Fama in persona

disse che si allestiva la flotta per la partenza.

Folle d’amore, l’anima smarrita, dà in ismanie,

355 erra per la città fuori di sé, baccante

eccitata come una Tiade quando infuria la festa,

quando al grido di Bacco la stimolano le orge

che vengono soltanto ogni tre anni, quando

il Citerone a notte la chiama con molto clamore.

360 Infine parla ad Enea per prima, così:

«Perfido, e tu speravi persino di nascondere

tanto male e partire dalla mia terra in silenzio?

Non ti trattiene il nostro amore, la mano

che un giorno ti fu concessa, Didone che sta

365 per morire di morte crudele? E invece tu

sotto le stelle invernali prepari la flotta

e ti affretti a solcare l’alto mare, tra venti

terribili, o malvagio. E perché? Se corressi

non verso terre straniere, verso paesi che ignori,

370 ma fosse ancora in piedi l’antica Troia, andresti

a Troia con la flotta per l’ondoso mare?

Dimmi, ci andresti? Fuggendo da me? Per questo mio pianto

e per la tua mano, per gli Imenei incominciati

e per la nostra unione, se ho meritato di te

375 in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me,

abbi pietà della casa che crolla, lo vedi, e abbandona

questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti.

Le genti di Libia mi odiano a causa di te,

i tiranni numidi mi odiano a causa di te,

380 persino i Tiri mi odiano a causa di te;

a causa di te il pudore è morto, è morta la fama

per la quale soltanto arrivavo alle stelle.

A chi moribonda mi lasci? O Enea, ospite! Ospite!

Soltanto questo nome posso dare a colui

385 che un tempo chiamavo marito. Ma allora?

Forse attendo il fratello Pigmalione che bruci

le mie mura, o il re Jarba che mi porti in Getulia

schiava? Oh, se prima della tua fuga avessi

avuto almeno un figlio da te, un piccolo Enea

390 che per le sale giocasse e ti ricordasse

all’aspetto! Oh, che allora non mi parrebbe del tutto

d’essere abbandonata e d’essere stata ingannata!»

Diceva così. Ma lui per gli ammonimenti di Giove

teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva

395 dentro al cuore l’affanno. Alla fine risponde

con poche frasi: «Regina non sarò io a negare

che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole,

e non mi scorderò di te finché lo spirito

reggerà queste membra, finché mi ricorderò

400 di me stesso. Ma ascolta. Io non sperai di nasconderti

questa fuga, credilo pure, e del resto mai

ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti.

Se i Fati permettessero che conducessi la vita

come vorrei, secondo i veri miei desideri,

405 sarei rimasto a Troia vicino alle dolci

reliquie dei miei, gli alti tetti di Priamo starebbero ancora

in piedi e con le mie mani avrei costruito ai vinti

una rinata Pergamo. Ma adesso Apollo grineo

mi comanda di andare in Italia. In Italia

410 mi ordinano di andare gli oracoli di Licia.

Questo è il mio amore, questa la mia patria. Se tu

che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine,

questa tua bella città della Libia, perché

impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo

415 nella terra d’Italia? È lecito anche a noi

cercare lidi stranieri. Tutte le volte

che la notte circonda le terre di umide ombre,

tutte le volte che sorgono gli astri infuocati, in sogno

l’ombra del padre Anchise, turbata, mi rimprovera

420 e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio,

povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro,

poiché lo defraudo del regno d’Esperia e dei campi fatali.

E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi,

mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite)

425 m’ha portato per l’aria rapida questo comando:

– Naviga! –. Ho visto io stesso il dio in una luce chiarissima

entrare per le mura e con queste mie orecchie

ne ho sentito la voce: – Naviga! –. Dunque cessa

di infuocare me e te con questi lamenti,

430 io non vado in Italia di mia volontà».


Publio Virgilio Marone, Eneide, libro IV, vv. 349-430, trad. di C. Vivaldi, Garzanti, Milano 1990

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a TU per TU con il testo

La domanda è inevitabile: si può giustificare Enea? La risposta è facile e imporrebbe oggi un coro di meritate disapprovazioni. Non possiamo che condannarlo: secondo lo schema del più convenzionale degli amori traditi, l’eroe troiano è colpevole di aver sedotto e abbandonato una donna che troppo ingenuamente aveva riposto fiducia in lui. E, d’altro canto, non possiamo che ammirare Didone e la sua strenua coerenza di donna sincera, che non sa porre limiti all’amore, neanche quando il sentimento le spalanca gli abissi della morte.

Tuttavia Virgilio ci chiede di compiere uno sforzo maggiore: lasciamo da parte accuse e improperi. Guardiamo anche l’altra faccia della medaglia: Enea ha una missione da compiere, deve adempiere a obblighi superiori decisi dalla storia e dal destino. Guai ad attualizzare troppo le necessità dell’eroe: non lascia la donna per la propria carriera, né calpesta l’amore per coltivare le proprie ambizioni personali. Forse è meglio – per una volta, almeno – astenersi dal giudizio e non affollare anche con la nostra presenza le tribune delle opposte tifoserie. Alla fine, forse l’unico sentimento che possiamo ascoltare è l’umana indulgenza. Coscienti, come ci rende Virgilio, che due anime non potranno mai capirsi se tra esse si staglia il muro dell’incomunicabilità costituita da desideri, sogni e volontà diverse.

Analisi

Ormai conscia dell’imminente partenza di Enea, Didone non sa più controllarsi e vaga smaniando per la città, come una baccante invasata dal dio Dioniso (vv. 354-359). Prima di riportare le parole disperate che la donna rivolge a Enea, Virgilio arricchisce la narrazione con alcune notazioni universali che hanno reso questa sezione tra le più famose dell’Eneide. Per esempio, l’inciso del v. 349 (chi può ingannare chi ama?) serve a spiegare il presentimento della regina che, da donna innamorata, intuisce la decisione di Enea di lasciare Cartagine molto prima che le giunga la notizia, portata dalla Fama, empia perché foriera di cattive novità. Una donna innamorata, inoltre, nell’istante in cui avverte che sta per essere abbandonata, non ha più certezze: Didone è detta timorosa com’era di tutto, persino di quello / che più pareva sicuro (vv. 351-352).

Il dialogo che segue è un esempio perfetto di comunicazione impossibile tra due punti di vista ormai inconciliabili. La regina si rivolge a Enea chiamandolo perfido (v. 361), perché questi ha rinnegato i taciti patti che la loro unione prevedeva, nonostante non fosse stata celebrata con un matrimonio. Quella di Didone è la supplica di una donna innamorata: Per questo mio pianto / e per la tua mano, per gli Imenei incominciati / e per la nostra unione, se ho meritato di te / in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me, / abbi pietà della casa che crolla, lo vedi, e abbandona / questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti (vv. 372-377). A causa di Enea la regina è ormai odiata da tutti i vicini, dai Numidi, da Iarba; e ha perso il pudore che prima serbava nel ricordo del defunto marito (vv. 378-382). A fronte dei suoi molti sacrifici, non ha ottenuto nulla da Enea, neanche la gioia di un figlio che riproducesse le sembianze del padre (vv. 388-392).

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La risposta fredda e laconica alla donna che ha amato e continua ad amare, ma che è costretto a lasciare, mostra Enea in un atteggiamento diverso da quello mostrato nel corso del poema. Per un momento l’eroe della pietas perde il suo splendore per recitare una parte poco esaltante, quasi opaca, come dimostra il basso profilo tenuto nel colloquio, proprio di chi ha vergogna di quello che sta per dire: per gli ammonimenti di Giove / teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva / dentro al cuore l’affanno (vv. 393-395).

D’altra parte, egli non nega il suo amore per la donna, che anzi ricorderà sempre caramente, ma rivendica la propria franchezza nel non averle mai parlato di nozze. Se il destino non l’avesse costretto, non avrebbe mai abbandonato Troia, ma ora suo compito è fondare una nuova patria e seguire le indicazioni che gli vengono dagli oracoli, concordi nel condurlo in Italia: Questo è il mio amore, questa la mia patria (v. 411). Si confrontano due visioni antitetiche del mondo e della vita: all’amore-passione di Didone, votato alla famiglia e all’intimità domestica, si oppone l’amore-dovere verso la patria e il Fato, che Enea, eroe della pietas, fa proprio e sintetizza in un verso lapidario. Io non vado in Italia di mia volontà (v. 430), egli dice, esprimendo un aspetto fondamentale della civiltà romana, che sottomette la dimensione individuale a quella pubblica.

Piegato dall’obbedienza a una logica politica, Enea non sa replicare agitando le stesse corde sentimentali, ma arriva persino a rimproverare a Didone l'egoismo per non consentirgli di fondare una nuova patria, lei che è già ben avviata nell’edificazione della sua (È lecito anche a noi / cercare lidi stranieri, vv. 415-416). È un paradosso, dal punto di vista sentimentale di Didone, che sta per essere abbandonata, ma una verità, nella prospettiva storica di Enea, che ha bisogno di rinforzare la sua posizione evocando gli imperativi che riceve dall’ombra del padre (vv. 416-422) e persino dagli dèi (E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi, / mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite) / m’ha portato per l’aria rapida questo comando: / Naviga!, vv. 423-426).

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Che cosa intuisce Didone prima dell’arrivo della fama?


2. Che cosa rimprovera Didone a Enea?


3. Qual è il solo nome che ora può dare all’uomo che prima chiamava marito?


4. Da chi Enea riceve l’ordine di andare in Italia?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

5. A chi è paragonata Didone che vaga per la città in preda a una passione ormai incontrollabile?

  •     A un animale feroce. 
  •     A una baccante. 
  •     Alla dea Afrodite. 
  •     A una sibilla. 


6. Perché la donna chiama Enea perfido (v. 361)?


7. Secondo la voce del narrante, in che modo Enea risponde a Didone? Perché, secondo te?

  •     Con un lungo discorso. 
  •     Con poche frasi. 
  •     Con un’appassionata difesa. 
  •     Non ci sono indicazioni. 


8. Nel discorso si scontrano due diverse concezioni dell’amore, tra loro inconciliabili. Quali?


9. Individua e trascrivi tutti gli aggettivi riferiti a Didone ed Enea, sia nelle parti dialogate, sia nelle parti della voce narrante. Quale punto di vista sembra prevalere?


Didone

 


Enea

 


10. Secondo te, gli argomenti di Enea sono convincenti?

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COMPETENZE LINGUISTICHE

11. Il linguaggio figurato. Al v. 406 si legge gli alti tetti di Priamo. Di quale figura retorica si tratta?

  •     Sineddoche. 
  •     Metafora. 
  •     Similitudine. 
  •     Climax


12. Lessico. Sinonimi. Associa a ciascun termine il suo sinonimo.

  • a) errare (v. 355)
  • b) defraudare (v. 422)
  • c) reliquie (v. 406)
  • d) membra (v. 399)
  • e) smania (v. 354)


1) privare

2) resti

3) agitazione

4) vagare

5) corpo

PRODURRE

13. Scrivere per descrivere. Immagina di assistere alla scena del dialogo tra Didone ed Enea. Scrivi un breve testo (massimo 10 righe) in cui cerchi di mettere in evidenza le reazioni fisiche, il linguaggio del corpo, gli sguardi, i tremiti e i gesti che accompagnano la loro discussione.

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Il dialogo difficile tra Enea e Didone apre un interessante argomento di ricerca, relativo alla concezione del matrimonio in società ed epoche diverse dalla nostra. Il primo aspetto del problema riguarda proprio la celebrazione del rito. Con l’aiuto dell’insegnante di Storia ed Educazione alla cittadinanza fai una ricerca sulla trasformazione di questo istituto negli ultimi anni in Italia o nel tuo paese d’origine, se diverso dall’Italia. Fai attenzione soprattutto alla distinzione giuridica tra rito civile e rito religioso.

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Mito E Civiltà

Il matrimonio nel mondo romano

Il serrato confronto verbale tra Enea e Didone nel libro IV dell’Eneide presuppone l’avvenuta consumazione dell’unione, appena accennata da Virgilio quando i due si rifugiano in una caverna durante il temporale inviato da Giunone. Per Enea, tuttavia, l’evento in sé non è sufficiente perché si possa parlare di nozze.

Il matrimonio nell’antica Roma, infatti, prevedeva un cerimoniale decisamente diverso. Il rito più antico, seguito dai patrizi, era quello della confarreatio, in base al quale gli sposi spartivano una focaccia a base di farro alla presenza dei testimoni e di due sacerdoti. Le altre due forme di rito nuziale erano meno solenni: la coemptio consisteva nella vendita simbolica della sposa, che veniva ceduta dal padre al futuro marito dietro un compenso in denaro. La forma più comune era l’istituto dell’usus: la donna che avesse abitato un anno intero con un uomo senza interruzione di tre notti consecutive ne diventava la moglie a tutti gli effetti. Le iustae nuptiae (nozze giuste), cioè il matrimonio celebrato secondo queste modalità, comportavano la cosiddetta manus, cioè il diritto di protezione e tutela del marito sulla moglie, tipico di una società patriarcale.

Il matrimonio era preceduto anche allora dalla cerimonia del fidanzamento, occasione nella quale il fidanzato regalava alla futura sposa un anello d’oro oppure di ferro rivestito d’oro, che veniva infilato all’anulare, proprio come oggi. La preferenza per questo dito risale a una diffusa convinzione dei Romani, secondo la quale da esso partirebbe un nervo che arriva diretto al cuore, sede dei sentimenti. In realtà, la società romana riconosceva nel matrimonio soprattutto l’istituto giuridico necessario alla procreazione di figli legittimi, come dimostra la radice mater (madre) presente nel termine. A tal proposito, dovette avere una certa rinomanza a Roma l’orazione pronunciata dal censore Quinto Cecilio Metello Macedonico nel 131 a.C.: «Se si potesse, o Quiriti, fare a meno della moglie, saremmo tutti esenti da questa seccatura; ma come la natura ha disposto che non sia possibile vivere né con loro tranquillamente né senza di loro in alcun modo, così bisogna provvedere piuttosto alla perpetua salute che a un effimero piacere» (Aulo Gellio, Notti attiche, I, 6, 1, trad. di G. Bernardi Perini). Il discorso, cinico e utilitaristico, con cui il censore di età repubblicana esortava i Romani a sposarsi soprattutto per fare figli piacque all’imperatore Augusto, che lo citò a sostegno della sua politica a favore delle nascite. Eppure dal mondo romano vengono alcuni casi di unioni matrimoniali tra le più felici, per esempio quella del filosofo Seneca con la giovane Pompea Paolina, come dimostrano queste parole: «Ho detto questo alla mia Paolina, che mi raccomanda la mia salute. Infatti, poiché mi rendo conto che la sua anima si è trasfusa nella mia, comincio ad aver cura di me stesso per aver cura di lei.

L’emozione della lettura - volume C
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