Alla scoperta dei testi

T1

L’isola

  • Tratto da L’isola di Arturo, 1957
  • romanzo

Arturo, il narratore e protagonista, è nato a Procida, piccola isola nel golfo di Napoli dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Ora è cresciuto e rie­voca, da adulto, lo scenario che ha fatto da sfondo alla sua fanciullezza.

Le isole del nostro arcipelago,1 laggiù, sul mare napoletano, sono tutte belle.

Le loro terre sono per grande parte di origine vulcanica; e, specialmente in vicinanza
degli antichi crateri, vi nascono migliaia di fiori spontanei, di cui non rividi
mai più i simili sul continente.2 In primavera, le colline si coprono di ginestre:3 

5      riconosci il loro odore selvatico e carezzevole, appena ti avvicini ai nostri porti,
viaggiando sul mare nel mese di giugno.

Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce4 solitarie chiuse
fra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini
imperiali. Ha varie spiagge dalla sabbia chiara e delicata, e altre rive più piccole, 

10    coperte di ciottoli e conchiglie, e nascoste fra grandi scogliere. Fra quelle rocce torreggianti,5
che sovrastano l’acqua, fanno il nido i gabbiani e le tortore selvatiche, di
cui, specialmente al mattino presto, s’odono le voci, ora lamentose, ora allegre. Là,
nei giorni quieti, il mare è sereno e fresco, e si posa sulla riva come una rugiada. Ah,
io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino; mi accontenterei d’essere uno 

15    scòrfano,6 ch’è il pesce più brutto del mare, pur di ritrovarmi laggiù, a scherzare in
quell’acqua.

Intorno al porto, le vie sono tutte vicoli senza sole, fra le case rustiche,7 e antiche
di secoli, che appaiono severe e tristi, sebbene tinte di bei colori di conchiglia,
rosa o cinereo.8 Sui davanzali delle finestruole,9 strette quasi come feritoie,10 si vede 

20    qualche volta una pianta di garofano, coltivata in un barattolo di latta; oppure una
gabbietta che si direbbe adatta per un grillo, e rinchiude una tortora catturata. Le
botteghe sono fonde e oscure come tane di briganti. Nella caffetteria del porto, c’è
un fornello di carboni su cui la padrona fa bollire il caffè alla turca,11 dentro una
cùccuma12 smaltata di turchino. La padrona è vedova da parecchi anni, e porta sempre 

25    l’abito nero di lutto, lo scialle nero, gli orecchini neri. La fotografia del defunto
è sulla parete, a lato della cassa, cinta13 di festoni di foglie polverose.

L’oste, nella sua bottega, ch’è di faccia al monumento di Cristo Pescatore, alleva
un gufo, legato, per una catenella, a un’asse che sporge in alto dal muro. Il gufo
ha piume nere e grigie, delicate, un elegante ciuffetto in testa, palpebre azzurre, e 

30    grandi occhi d’un color d’oro-rosso, cerchiati di nero; ha un’ala sempre sanguinante,
perché lui stesso continua a straziarsela14 col becco. Se tendi la mano a fargli un lieve
solletico sul petto, curva verso di te la testolina, con una espressione meravigliata.

Al calar della sera, incomincia a dibattersi, prova a staccarsi a volo,15 e ricade,
ritrovandosi qualche volta starnazzante16 a testa in giù, appeso alla sua catenella.

35    Nella chiesa del porto, la più antica dell’isola, vi sono delle sante di cera,17 alte
meno di tre palmi,18 chiuse in teche19 di vetro. Hanno sottane di vero merletto,20
ingiallite, mantiglie21 stinte di broccatello,22 capelli veri, e dai loro polsi pendono
minuscoli rosari23 di vere perle. Sulle loro piccole dita, di un pallore mortuario, le
unghie sono accennate da un segno filiforme,24 rosso.

40    Nel nostro porto non attraccano quasi mai quelle imbarcazioni eleganti, da sport
o da crociera, che popolano sempre in gran numero gli altri porti dell’arcipelago; vi
vedrai delle chiatte25 o dei barconi mercantili, oltre alle barche da pesca degli isolani.
Il piazzale del porto, in molte ore del giorno, appare quasi deserto; sulla sinistra,
presso la statua di Cristo Pescatore, una sola carrozzella da nolo26 aspetta l’arrivo del 

45    piroscafo27 di linea, che si ferma da noi pochi minuti, e sbarca in tutto tre o quattro
passeggeri, per lo più gente dell’isola. Mai, neppure nella buona stagione, le nostre
spiagge solitarie conoscono il chiasso dei bagnanti che, da Napoli e da tutte le città,
e da tutte le parti del mondo, vanno ad affollare le altre spiagge dei dintorni. E se
per caso uno straniero scende a Procida, si meraviglia di non trovarvi quella vita 

50    promiscua28 e allegra, feste e conversazioni per le strade, e canti, e suoni di chitarra
e mandolini, per cui la regione di Napoli è conosciuta su tutta la terra. I Procidani
sono scontrosi, taciturni. Le porte sono tutte chiuse, pochi si affacciano alle finestre,
ogni famiglia vive fra le sue quattro mura, senza mescolarsi alle altre famiglie. L’amicizia,
da noi, non piace. E l’arrivo di un forestiero non desta curiosità, ma piuttosto 

55    diffidenza. Se esso fa delle domande, gli rispondono di malavoglia; perché la gente,
nella mia isola, non ama d’essere spiata nella propria segretezza.

Sono di razza piccola, bruni, con occhi neri allungati, come gli orientali. E si
direbbero tutti parenti fra di loro, tanto si rassomigliano. Le donne, secondo l’usanza
antica, vivono in clausura29 come le monache. Molte di loro portano ancora 

60    i capelli lunghi attorcigliati, lo scialle sulla testa, le vesti lunghe, e, d’inverno, gli
zoccoli, sulle grosse calze di cotone nero; mentre che d’estate certune vanno a piedi
nudi. Quando passano a piedi nudi, rapide, senza rumore, e schivando gli incontri,
si direbbero delle gatte selvatiche o delle faine.30

Esse non scendono mai alle spiagge; per le donne, è peccato bagnarsi nel mare, e 

65    perfino vedere altri che si bagnano, è peccato.

Spesso, nei libri, le case delle antiche città feudali, raggruppate e sparse per la
valle e sui fianchi della collina, tutte in vista del castello che le domina dalla vetta
più alta, sono paragonate a un gregge intorno al pastore. Così, anche a Procida, le
case, da quelle numerose e fitte giù al porto, a quelle più rade su per le colline, fino 

70    ai casali31 isolati della campagna, appaiono, da lontano, proprio simili a un gregge
sparso ai piedi del castello. Questo si leva sulla collina più alta, (la quale fra le altre
collinette, sembra una montagna); e, allargato da costruzioni sovrapposte e aggiunte
attraverso i secoli, ha acquistato la mole d’una cittadella32 gigantesca. Alle navi
che passano al largo, soprattutto la notte, non appare, di Procida, che questa mole 

75    oscura, per cui la nostra isola sembra una fortezza in mezzo al mare.

Da circa duecento anni, il castello è adibito a penitenziario: uno dei più vasti,
credo, di tutta la nazione. Per molta gente, che vive lontano, il nome della mia isola
significa il nome d’un carcere.

Sul lato di ponente che guarda il mare, la mia casa è in vista del castello; ma a 

80    una distanza di parecchie centinaia di metri in linea d’aria, al di là di numerosi piccoli
golfi da cui, la notte, si staccano le barche dei pescatori con le lampàre33 accese.
La lontananza non lascia distinguere le inferriate delle finestruole, né il via-vai dei
secondini34 intorno alle mura; così che, soprattutto l’inverno, quando l’aria è brumosa35
e le nubi in cammino gli passano davanti, il penitenziario potrebbe sembrare 

85    un maniero abbandonato, come se ne trovano in tante città antiche. Una rovina
fantastica,36 abitata solo dai serpi, dai gufi e dalle rondini.


Elsa Morante, L’isola di Arturo, Einaudi, Torino 1957

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a TU per TU con il testo

Una piccola isola, di bellezza selvaggia e aspra, sorge nel Mediterraneo… Qualcuno, che l’ha conosciuta molto bene, ce la sta descrivendo con trasporto: ci parla, infatti, dei fiori, delle spiagge, dei villaggi, come se anche noi li potessimo vedere e potessimo essere catturati dai profumi, dai suoni e dai colori, dalla presenza degli isolani, affaccendati nelle loro semplici occupazioni quotidiane. Anche se non ci siamo mai andati veramente, l’isola è come reale davanti ai nostri occhi, richiamata dall’entusiasmo e dalla nostalgia di chi, in quel luogo memorabile, ha trascorso i suoi verdi anni: non sappiamo molto di questa persona, ma avvertiamo che, nelle sue frasi, vibrano insieme la dolcezza del ricordo e il rimpianto della perdita. Capiamo, mentre le immagini si susseguono e il quadro si compone, che l’isola è insieme vera e immaginata, è un luogo concreto che l’evocazione di chi l’ha vissuta trasforma in un simbolo, nell’emblema personale e amato di qualcosa che gli era caro, e che ora non ha più.

Analisi

Come se si trovasse sulla cima di un’altura e osservasse il paesaggio che si spalanca sotto i suoi occhi, seguendo una prospettiva estremamente mobile, il lettore è accompagnato dalla voce narrante a esplorare l’isola. Da un primo sguardo, in lontananza, a tutte le isole del nostro arcipelago (r. 1) e alla loro flora, lussureggiante e profumata, la prospettiva si restringe alla sola Procida, di cui sorvoliamo le stradine di campagna, i frutteti e vigneti (r. 8), le spiagge dalla sabbia chiara e delicata (r. 9), le scogliere torreggianti (rr. 10-11) abitate da uccelli e creature marine; esploriamo l’interno delle botteghe e della chiesa, e osserviamo le abitazioni a volo d’uccello, da Su per le colline (r. 7) a Intorno al porto (r. 17).

Come in un film, si alternano dettagli ravvicinati e visioni panoramiche: il garofano nel barattolo di latta (r. 20) da un lato e la mole oscura vista dalle navi che passano al largo (rr. 73-75) dall’altro; la cùccuma smaltata di turchino (r. 24) della caffetteria e l’insieme delle case, da lontano, proprio simili a un gregge (r. 70). Ne risulta così una rappresentazione insieme minuziosa e complessiva: Arturo ripercorre a memoria i luoghi della sua infanzia con la vivacità del bambino che è stato.

Ripensando alla sua isola, Arturo mescola, nell’immaginazione, percezioni reali e trasfigurazione fantastica. I frutteti, le botteghe, le casette dell’isola diventano, nella sua accesa fantasia, ora giardini imperiali (rr. 8-9), ora tane di briganti (r. 22), ora le case delle antiche città feudali (r. 66). Gli stessi abitanti, gli scontrosi procidani ben noti a chi parla, si trasformano nel ricordo in una stirpe esotica, dagli occhi neri allungati, come gli orientali (r. 57).

Sembra dunque che l’Arturo adulto abbia conservato, pressoché intatta, la sbrigliata fantasia della sua fanciullezza: la realtà, infatti, gli appare come una fiaba, o un mito, o un’antica leggenda. Il culmine della trasformazione riguarda il castello: l’edificio, immenso e senza tempo, domina il villaggio. Arturo lo rivede, attraverso il mare notturno fiabescamente punteggiato di lampàre (r. 81), da una lontananza che non permette di distinguerne i particolari, che pure conosce. Per questa lontananza, soprattutto nelle nebbie dell’inverno, la rocca si tramuta in una sorta di gotico maniero abbandonato, una rovina fantastica (rr. 85-86) che, popolata da animali, esercita su Arturo una potente e misteriosa suggestione.

Arturo ricorre con insistenza a un aggettivo: i crateri spenti dei vulcani, dai quali è sorto l’arcipelago, sono antichi (r. 3), come antichi (r. 8) sono i muri delle strade e le case del villaggio, antiche addirittura di secoli (rr. 17-18). E poi la chiesa, la più antica dell’isola (r. 35), e il castello, dalla mole cresciuta attraverso i secoli (r. 73). E come l’abitato ricorda le antiche città feudali (r. 66), così le donne di Procida, dedite alla casa, seguono l’usanza antica (rr. 58-59) nelle superstizioni, negli abiti e nelle acconciature.

In che epoca siamo? È difficile capirlo: nell’isola, infatti, è come se il tempo si fosse fermato. La tecnologia è arretrata (c’è la carrozzella, r. 44; c’è il fornello di carboni, r. 23), la società è ancora costituita da contadini e pescatori. E c’è l’oste, c’è la vedova della caffetteria: figure senza tempo di un mondo arcaico, diffidente e chiuso, lontano dalle rotte del turismo, che portano i bagnanti (r. 47) e la vita promiscua e allegra (rr. 49-50) della modernità su altre spiagge. Estranea ai traffici e al progresso, l’isola diventa, per Arturo, qualcosa di assoluto, il simbolo fatato dell’origine.

 >> pagina 722 

Arturo vuole coinvolgere tutti i sensi del lettore. I bei colori di conchiglia, rosa o cinereo (rr. 18-19) delle casette stimolano la vista; le voci, ora lamentose, ora allegre (r. 12) delle tortore sollecitano l’udito; l’olfatto è colpito dall’odore selvatico e carezzevole (r. 5) delle ginestre; il tatto percepisce la sabbia delicata (r. 9) delle spiagge.

Ma la lingua di chi racconta si accende, soprattutto, di forti emozioni. Vediamo, con i diminutivi e i vezzeggiativi, la tenerezza del ricordo: le straducce (r. 7), le finestruole (r. 19). Abbondanti paragoni vogliono spiegare l’eccezionale paesaggio dell’isola, dove il mare si posa come una rugiada (r. 13), dove le finestre sono strette come feritoie (r. 19), dove le donne stanno rinchiuse come le monache (r. 59). La pungente nostalgia dell’isola perduta, infine, stringe il cuore di Arturo fino all’esclamazione: Ah, io non chiederei d’essere un gabbiano, né un delfino (rr. 13-14), dice il narratore, che sarebbe felice di essere il pesce più brutto del mare, pur di nuotare ancora, spensieratamente, nelle acque chiare dell’isola natia.

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Scegli l’alternativa corretta.


a) L’isola di Procida è isolata in mezzo al mare / fa parte di un arcipelago.

b) L’isola è di origine vulcanica / corallina.

c) L’isola è pianeggiante / collinosa.

d) Il porto è ampio e trafficato / piccolo e tranquillo.

e) L’isola è / non è meta di numerosi turisti.

f) Sull’isola c’è un castello fortificato / una grande villa nobiliare.

g) Il penitenziario dell’isola si trova sul porto / nella fortezza.


2. Chi abita sull’isola? (sono possibili più risposte)

  •     Bottegai.
  •     Briganti.
  •     Pescatori.
  •     Mercanti.
  •     Stranieri.
  •     Contadini.


3. Che cosa vedono, dell’isola, le navi che passano di notte?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

4. La descrizione dell’isola e dei suoi abitanti coinvolge tutti i sensi: riporta nella tabella le parole e le espressioni inerenti.


Vista  
Udito  
Olfatto  
Tatto  

5. Quali oggetti vengono menzionati nella descrizione del luogo e dei suoi abitanti? Che idea trasmettono della vita sull’isola?


6. Che cosa distingue i procidani dagli altri abitanti della zona di Napoli? Questa loro caratteristica è presentata come positiva o negativa?


7. Individua nel testo i numerosi paragoni: che tono contribuiscono a dare alla descrizione?

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COMPETENZE LINGUISTICHE

8. Lessico. Sinonimi e contrari. Non tutti i sinonimi e i contrari possibili per un termine sono adatti a qualunque contesto d’uso. Eccoti un elenco di aggettivi usati nel testo, per i quali dovrai trovare almeno un sinonimo e un contrario che siano adeguati considerando il sostantivo a cui sono affiancati.


  Sinonimo Contrario
Spontaneo (detto di fiori)    
Spontaneo (detto di persone)    
Sereno (detto del cielo)    
Sereno (detto di persone)    
Brutto (detto di persone)    
Brutto (detto di tempo atmosferico)    
Brutto (detto di voto scolastico)    
Fondo (detto del mare)    
Fondo (detto di voce)    
Grosso (detto di vestiario)    
Grosso (detto di persona)    
Rapido (detto di persona)    
Rapido (detto di corso d’acqua)    

PRODURRE

9. Scrivere per descrivere. Riscrivi la descrizione dell’isola di Procida, ribaltandola completamente e quindi offrendone una rappresentazione opposta. Fai attenzione all’uso dei contrari (massimo 20 righe).

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

ARTI VISIVE E DISEGNO

Sulla base della descrizione riportata nel testo, disegna, a tua scelta, una mappa o uno scorcio dell’“isola di Arturo”.

 >> pagina 723 

Se ti è piaciuto…

Isole di carta

Procida vanta una lunga storia nella letteratura: prima di diventare lo sfondo del romanzo di Elsa Morante, aveva ispirato per esempio una satira del poeta latino Giovenale, come pure una novella di Boccaccio. Non si tratta di un caso isolato. A partire da Itaca, patria di Ulisse nell’Odissea omerica, le isole più suggestive e cariche di storia hanno fortemente sollecitato l’immaginario degli scrittori. Il territorio italiano ne è ricchissimo. Le ha passate in rassegna Ambrogio Borsani (n. 1943) in Avventure di piccole terre (2016): dalla Maddalena, in Sardegna, a Torcello, nella laguna di Venezia, da Lampedusa, a sud della Sicilia, a San Giulio, sul lago d’Orta, in Piemonte, Borsani descrive cinquantuno isolette in cui varrebbe la pena di mettere piede, portando con sé i libri che hanno ispirato.

Non sempre tuttavia ciò è possibile. L’isola vulcanica Ferdinandea, della quale hanno scritto Alexandre Dumas e Andrea Camilleri, emerse nel canale di Sicilia nel 1831, dopo una violenta eruzione. Po­co più di uno scoglio, fu contesa da francesi, inglesi e Borbone, ma nel giro di pochi mesi sprofondò nuovamente negli abissi, quasi a voler ritrovare la tranquillità perduta.

Questa nostra piccola Atlantide è ben segnata sulle mappe. Ignota resta invece l’ubicazione di tante altre isole partorite dalla fantasia degli scrittori. Dove sarà sepolto il tesoro cercato dai pirati nel romanzo di Robert Louis Stevenson? E come trovare Mompracem, che Emilio Salgari inventò per dare un covo a Sandokan, la tigre della Malesia?

L’emozione della lettura - volume A
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Narrativa