T2 - Un monastero misterioso (U. Eco)

T2

Umberto Eco

Un monastero misterioso

  • Tratto da Il nome della rosa, 1980
  • romanzo
L’autore

Umberto Eco nasce nel 1932 ad Alessandria. Studia a Torino, dove si laurea in Filosofia nel 1954 con una tesi su uno dei più grandi pensatori medievali, Tommaso d’Aquino. Lavora alla Rai e presso la casa editrice Bompiani, poi intraprende la carriera accademica, dedicandosi specialmente alla semiotica, la scienza che studia il complesso dei segni che gli esseri umani usano per comunicare. Dopo aver pubblicato importanti saggi quali Opera aperta (1962) e Lector in fabula (1979), nel 1980 esordisce come narratore con il thriller “filosofico” di ambientazione medievale Il nome della rosa, un bestseller internazionale che ispira anche, sei anni dopo, un film diretto da Jean-Jacques Annaud e interpretato da Sean Connery. I romanzi storici di Eco, tra cui Il pendolo di Foucault (1988) e L’isola del giorno prima (1994), ottengono un vasto successo di pubblico, rendendolo uno degli scrittori italiani più apprezzati e conosciuti a livello internazionale. Muore a Milano nel 2016.

È il novembre del 1327: a distanza di molti anni, il novizio Adso da Melk racconta come Guglielmo da Baskerville, frate francescano inglese, sia giunto insieme a lui presso un monastero benedettino, situato sulle montagne dell’Italia settentrionale, per presenziare a una disputa sul tema della ricchezza materiale della Chiesa. Il mattino del loro arrivo i due vengono informati di un fatto increscioso: un monaco è da poco morto in circostanze misteriose, e tra i confratelli si diffondono timori incontrollati. Guglielmo – rinomato per le sue doti di sottile ragionatore – inizia subito le indagini, incontrando i principali personaggi che abitano il monastero. La giornata si conclude con la cena, seguita dalla liturgia della compieta, che i monaci recitano ogni sera, prima di coricarsi.

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Audiolettura

Primo giorno

COMPIETA1

Dove Guglielmo e Adso godono della lieta ospitalità dell’Abate e della corrucciata conversazione
di Jorge.


5      Il refettorio2 era illuminato da grandi torce. I monaci sedevano lungo una fila di tavole,
dominata dal tavolo dell’Abate, posto perpendicolarmente a essi su una vasta
pedana. Dalla parte opposta un pulpito,3 su cui aveva già preso posto il monaco che
avrebbe fatto la lettura durante la cena. L’Abate ci attendeva presso una fontanella
con un panno bianco per asciugarci le mani dopo il lavabo, giusta4 i consigli antichissimi 

10    di san Pacomio.5

L’Abate invitò Guglielmo alla sua tavola e disse che per quella sera, dato che ero
anch’io ospite fresco,6 avrei goduto dello stesso privilegio, anche se ero un novizio
benedettino.

I giorni seguenti, mi disse paternamente, avrei potuto sedermi a tavola coi monaci, 

15    o se il mio maestro mi avesse affidato qualche incarico, passare prima o dopo
i pasti in cucina, dove i cuochi si sarebbero presi cura di me.

I monaci stavano ora in piedi ai tavoli, immobili col cappuccio abbassato sul
viso e le mani sotto lo scapolare.7 L’Abate si appressò alla sua tavola e pronunciò il
Benedicite.8

20    Il cantore dal pulpito intonò Edent pauperes.9 L’Abate diede la sua benedizione e
ciascuno si sedette.

La regola del nostro fondatore10 prevede un desinare11 assai parco,12 ma lascia
all’Abate decidere di quanto cibo abbiano effettivamente bisogno i monaci. D’altra
parte ormai nelle nostre abbazie si indulge13 maggiormente ai piaceri della tavola. 

25    Non parlo di quelle che, purtroppo, si sono trasformate in covi di ghiottoni; ma
anche quelle ispirate a criteri di penitenza e di virtù forniscono ai monaci, intenti
quasi sempre a gravosi lavori dell’intelletto, un nutrimento non molle ma robusto.14
D’altro canto la mensa dell’Abate è sempre privilegiata, anche perché non di rado vi
seggono degli ospiti di riguardo, e le abbazie sono orgogliose dei prodotti della loro 

30    terra e delle loro stalle, e della perizia dei loro cucinieri.

Il pasto dei monaci si svolse in silenzio, come di costume, gli uni comunicando
agli altri con il nostro consueto alfabeto delle dita.15 I novizi e i monaci più giovani
venivano serviti per primi, subito dopo che i piatti destinati a tutti erano passati
dalla mensa dell’Abate.

35    Alla tavola dell’Abate sedevano con noi Malachia, il cellario16 e i due monaci
più anziani, Jorge da Burgos, il vegliardo cieco che avevo già conosciuto nello scriptorium
e il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata: quasi centenario, claudicante17 e
d’aspetto fragile, e – mi parve – assente di spirito.18 Ci disse di lui l’Abate che, novizio
già in quella abbazia, sempre vi aveva vissuto e ne ricordava almeno ottant’anni 

40    di vicende. L’Abate ci disse queste cose sottovoce all’inizio, perché in seguito ci si
attenne all’uso del nostro ordine e si seguì in silenzio la lettura. Ma, come dissi, alla
tavola dell’Abate ci si prendevano alcune licenze,19 e ci avvenne di lodare i piatti che
ci furono offerti, mentre l’Abate celebrava le qualità del suo olio, o del suo vino.
Anzi una volta, mescendoci da bere, ci ricordò quei brani della regola in cui il santo 

45    fondatore20 aveva osservato che certo il vino non conviene ai monaci, ma poiché
non si possono persuadere i monaci dei tempi nostri a non bere, che almeno non
bevano sino alla sazietà, perché il vino spinge all’apostasia21 anche i saggi, come
ricorda l’Ecclesiastico.22 Benedetto diceva “ai tempi nostri” e si riferiva ai suoi, ormai
lontanissimi: figuriamoci ai tempi in cui cenavamo all’abbazia, dopo tanto decadimento 

50    di costumi (e non parlo dei tempi miei, in cui ora scrivo, se non che qui a
Melk23 si indulge maggiormente alla birra!): insomma, si bevette senza esagerare ma
non senza gusto.

Mangiammo carni allo spiedo, dei maiali appena uccisi, e mi avvidi che per altri
cibi non si usava grasso di animali né olio di ravizzone,24 ma del buon olio d’oliva, 

55    che veniva da terreni che l’abbazia possedeva a piedi del monte verso il mare. L’Abate
ci fece gustare (riservato alla sua mensa) quel pollo che avevo visto preparare in
cucina. Notai che, cosa assai rara, egli disponeva anche di una forchetta di metallo,
che nella forma mi ricordava le lenti del mio maestro: uomo di nobile estrazione25
il nostro ospite non voleva lordarsi26 le mani col cibo, e ci offrì anzi il suo strumento 

60    almeno per prendere le carni dal piatto grande e porle nelle nostre ciotole. Io
rifiutai, ma vidi che Guglielmo accettò di buon grado e si servì con disinvoltura di
quell’arnese da signori, forse per non provare all’Abate che i francescani erano persone
di scarsa educazione e di estrazione umilissima.

[…]

Finita la cena i monaci si disposero ad avviarsi al coro27 per l’ufficio28 di compieta. 

65    Si calarono di nuovo il cappuccio sul viso e si allinearono davanti alla porta,
in stazione.29 Poi si mossero in lunga fila, attraversando il cimitero ed entrando nel
coro dal portale settentrionale.

Ci avviammo con l’Abate. «A quest’ora si chiudono le porte dell’Edificio?»,30 domandò
Guglielmo.

70    «Appena i servi avranno pulito il refettorio e le cucine, il bibliotecario stesso
chiuderà tutte le porte, sprangandole dall’interno».

«Dall’interno? E lui da dove esce?».

L’Abate fissò Guglielmo per un attimo, serio in volto: «Certo non dorme in cucina»,
disse bruscamente. E affrettò il passo.

75    «Bene bene», mi sussurrò Guglielmo, «dunque esiste un’altra entrata, ma noi 

non la dobbiamo conoscere». Io sorrisi tutto fiero della sua deduzione, ed egli mi
rimbrottò: «E non ridere. Hai visto che entro queste mura il riso non gode di buona
reputazione».31

Entrammo nel coro. Una sola lampada ardeva, su un robusto tripode32 di bronzo, 

80    alto come due uomini. I monaci si posero negli stalli33 in silenzio, mentre il
lettore leggeva un passaggio di una omelia di san Gregorio.34

Poi l’Abate fece un segno e il cantore intonò Tu autem Domine miserere nobis.35
L’Abate rispose Adjutorium nostrum in nomine Domini36 e tutti fecero coro con Qui
fecit coelum et terram
.37 Quindi iniziò il canto dei salmi: Quando invoco rispondimi o 

85    Dio della mia giustizia; Ti ringrazierò Signore con tutto il mio cuore; Su benedite il Signore,
servi tutti del Signore
.38 Noi non ci eravamo posti negli stalli, e ci eravamo ritratti nella
navata principale.39 Fu di lì che scorgemmo improvvisamente Malachia emergere
dal buio di una cappella laterale.

«Tieni d’occhio quel punto», mi disse Guglielmo. «Potrebbe esserci un passaggio 

90    che porta all’Edificio».

«Sotto il cimitero?».

«E perché no? Anzi, ripensandoci, ci dovrà essere da qualche parte un ossario,40
è impossibile che da secoli seppelliscano tutti i monaci in quel lembo41 di terra».


Umberto Eco, Il nome della rosa, Bompiani, Milano 2004

 >> pagina 476 

Come continua

Adso e Guglielmo si coricano e, verso le tre di notte, si svegliano per la preghiera del mattutino, e i monaci, dopo essersi impegnati in varie attività, tornano nel coro per la recita delle laudi. Mentre il novizio è impegnato nel canto e assorto in una specie di rapimento mistico, tre porcari irrompono nella basilica, portando un’orribile notizia: il cadavere di un altro monaco è stato trovato con la testa infilata nel grande vaso usato per conservare il sangue dei maiali. Il corpo viene estratto e identificato: è Venanzio, un traduttore dal greco, anch’egli legato, come la prima vittima, ai misteri della biblioteca. Guglielmo si mette subito al lavoro, muovendosi sulla scena del crimine come un vero professionista: raccoglie le prove, interroga i presenti, esamina il corpo per risalire alle cause del decesso. Ma la serie di misteriosi delitti non si ferma, e l’arrivo delle due delegazioni di religiosi per la discussione sulle ricchezze materiali della Chiesa complica ulteriormente il quadro. Adso e Guglielmo, tuttavia, non si danno per vinti, e giungono, indizio dopo indizio, a una sconcertante verità.

a TU per TU con il testo

La vita in monastero è come un ciclo, un cerchio perfetto, un santo andirivieni tra lavoro, contemplazione e preghiera. Il monastero è solo un piccolo frammento dell’universo, tuttavia ne riproduce fedelmente l’ordine: le sue alte mura lo circondano come un giardino, quasi fosse un Eden, un paradiso in terra che chiude fuori il caos e la miseria del mondo. Ciascun monaco contribuisce secondo la sua virtù al grande disegno divino, ma un’orribile serie di delitti sconvolge la quotidiana perfezione di quel luogo. È come se all’improvviso, in quel microcosmo che credevamo santo, si scoprisse il contagioso germe della corruzione. Che cos’è? È l’inizio di un castigo divino? Oppure semplicemente il male viene dall’interno, dal chiuso di quelle porte sacre?

 >> pagina 477 

Analisi

Il nome della rosa è un romanzo storico piuttosto atipico. Se infatti, da un lato, l’autore ricostruisce con puntiglioso rigore il contesto storico-politico del XIV secolo e la vita quotidiana di un’abbazia benedettina, dall’altro il libro contiene molteplici livelli di lettura, che stanno uno sull’altro come i piani di un palazzo. Infatti, oltre che come romanzo storico, può essere letto anche come un giallo o come un romanzo filosofico ed erudito, fittissimo di riferimenti alla storia e alla cultura. Per esempio, il nome del protagonista, Guglielmo da Baskerville, rimanda all’autore del Mastino dei Baskerville, Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930), l’inventore di Sherlock Holmes, l’intelligentissimo investigatore inglese. Il collegamento non è casuale: Guglielmo, infatti, possiede lo stesso fiuto e la stessa capacità di risolvere – con l’uso della logica – enigmi apparentemente inspiegabili.

Dalla lettura di questo brano si capisce immediatamente l’importanza che ha per Eco la ricostruzione storica, a partire dalla descrizione delle abitudini serali di un monaco. La vita del monastero è scandita da ritmi e regole molto precise: prima di sedersi, i confratelli aspettano pazientemente la benedizione dell’abate e il salmo cantato come una preghiera. In seguito, consumano il pasto comunicando tra loro solo a gesti: infatti il silenzio era caldamente raccomandato da san Benedetto, fondatore dell’ordine, che nella sua regola aveva scritto «nel molto parlare non sfuggirai al peccato». D’altra parte, tacere non era solo una condizione necessaria all’ascesi spirituale, ma aveva anche un’utilità pratica: ridurre all’essenziale la comunicazione interpersonale permetteva ai monaci di evitare conflitti e litigi che avrebbero minato l’equilibrio dell’intera comunità monastica.

A scandire la giornata attraverso una serie di appuntamenti fissi (la cosiddetta “liturgia delle ore”) era la preghiera: come un orologio, essa condizionava la vita dei monaci, determinando lo svolgimento di celebrazioni quali le lodi o i vespri, rispettivamente al mattino e alla sera.

Dalle battute e dalle abitudini dei monaci è possibile cogliere una caratteristica fondamentale della cultura medievale, cioè l’importanza della tradizione e dell’autorità dei testi antichi: per esempio, l’abate si sente in dovere di citare san Benedetto e la Bibbia per giustificare il suo uso moderato del vino (Anzi una volta, mescendoci da bere […] ricorda l’Ecclesiastico, rr. 44-48).

La stessa vita contemplativa dei monaci era basata sul confronto continuo con il testo sacro del cristianesimo, la Bibbia, e sui commenti scritti da teologi e Padri della Chiesa: testi riferiti ad altri testi, che alimentavano una sterminata cultura erudita ed enciclopedica, fatta di nozioni, norme e citazioni imparate a memoria.

Nel raccontare le vicende Eco finge di trascrivere un vecchio manoscritto vergato da Adso ormai anziano. Si avvale pertanto di un narratore-testimone interno, che svolge il ruolo di aiutante del protagonista: a fianco di Adso, novizio giovane e inesperto, la sagacia di Guglielmo da Baskerville risalta in modo ancora più evidente. Tra gli altri personaggi, spiccano il monaco Alinardo, decrepito e caricaturale (Alinardo da Grottaferrata: quasi centenario, claudicante e d’aspetto fragile, rr. 37-38), e l’abate, che pare più dedito ai piaceri della tavola di quanto consentito dalla regola benedettina.

Nella seconda parte del brano, prima e dopo la compieta, vediamo Guglielmo entrare in azione e raccogliere indizi come un vero detective. L’atmosfera inizia a farsi più tesa, con il progressivo emergere di elementi tipici del giallo e del romanzo gotico, come passaggi segreti e cimiteri. In un crescendo di eventi inspiegabili, solo l’acuto ingegno di Guglielmo potrà fare luce sui crimini efferati compiuti nel monastero, svelandone l’oscuro e complicato disegno.

 >> pagina 478 

Laboratorio sul testo

Comprendere

1. Nel passo che hai letto, i monaci si ritrovano nel refettorio per

  •     il pasto di mezzogiorno. 
  •     il pasto della sera. 
  •     la preghiera serale. 
  •     la lettura quotidiana. 


2. Quali sono i tre motivi per i quali i pasti nelle abbazie benedettine sono diventati più abbondanti di quanto prevedesse la regola?


3. Adso, il narratore, siede con Guglielmo alla tavola dell’abate (due risposte giuste)

  •     perché è un novizio. 
  •     nonostante sia un no­vizio. 
  •     perché è un ospite. 
  •     nonostante sia un ospite. 


4. Perché Guglielmo è tanto interessato a un possibile passaggio segreto?

Analizzare e interpretare

5. Individua, all’interno del brano, le “diverse anime” del romanzo di Eco. Dove prevale il romanzo storico? Dove il giallo? Dove la riflessione?


6. Nei passi in cui si riportano le riflessioni dei commensali relative al vino e al bere, quale idea del rapporto con il passato emerge?


7. Alla mensa dell’abate si fa uso anche di una rudimentale forchetta, che Adso rifiuta ma che Guglielmo maneggia con disinvoltura. Quale aspetto del personaggio di Guglielmo emerge da questo episodio?


8. Nella parte finale del brano, l’atmosfera si fa più cupa e tenebrosa: quali elementi concorrono a crearla?

competenze linguistiche

9. Lessico. I falsi femminili. Nel brano che hai letto vengono usati due termini che sono apparentemente l’uno il femminile dell’altro, ma che in realtà hanno significati molto diversi: stalli (sedili) e stalle (fabbricati nei quali sono tenute chiuse le bestie). In italiano, il falso femminile è tipico dei nomi di piante, che al femminile non indicano “l’albero femmina”, bensì il frutto (melo mela). Quali coppie di falsi femminili ti vengono in mente? Elencane almeno tre e poi scrivi una frase per ciascun termine (6 frasi in tutto).

PRODURRE

10. Scrivere per raccontare. Come faranno Guglielmo e Adso a entrare nell’edificio di notte? Riusciranno a trovare il passaggio sotto il cimitero? Prosegui il racconto inserendo i seguenti elementi (massimo 20 righe):


• una porta che cigola • un rumore improvviso • una luce fioca • dei gradini scivolosi • delle ossa di morto • una serratura chiusa da un pesante lucchetto.

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

STORIA

Chi erano i monaci benedettini e secondo quali regole vivevano? Fai una ricerca su questo argomento ed esponila alla classe.


STORIA

Quando e da chi sono stati inventati oggetti di uso comune come le posate e gli occhiali, che al tempo di Adso e Guglielmo erano strani ed esotici? Fai una breve ricerca in rete.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

Dal brano che hai letto emerge l’importanza che l’abbondanza del cibo rivestiva come status symbol, ossia come elemento per indicare l’appartenenza a un ceto sociale privilegiato. Oggi la quantità di cibo consumata in ristoranti e banchetti è ancora segno di ricchezza e potere?

 >> pagina 479 

Se ti è piaciuto…

Medioevo misterioso

Se c’è un periodo lontano, oscuro e misterioso che invariabilmente riesce ad attirare la curiosità dei lettori, questo è il Medioevo. Il nome della rosa di Umberto Eco ha aperto la via a una serie di romanzi incentrati su torbide vicende di monaci, cavalieri e principi. Tra i più fortunati interpreti italiani di questo filone è Marcello Simoni (n. 1975), che a partire dal 2011 ha prodotto vari thriller storici, molti dei quali situati nella splendida abbazia di Pomposa, a poca distanza da Ferrara.

L’attrazione per il Medioevo italiano è stata sfruttata anche in numerose storie ambientate ai nostri giorni: basti pensare al caso di Inferno, romanzo di Dan Brown (n. 1964) in cui il professor Robert Langdon – già protagonista del Codice da Vinci – si ritrova in mezzo a delitti e disgrazie che ricordano da vicino quelle immaginate da Dante Alighieri nella Divina Commedia.

Lo stesso Dante negli ultimi anni è stato il protagonista di numerosi romanzi, nei quali i pochi elementi certi della sua biografia si mescolano all’invenzione, tingendosi di giallo. Nelle Indagini di Dante di Giulio Leoni (n. 1951) il sommo poeta indossa i panni dell’investigatore alle prese con trame sinistre e brutali omicidi sullo sfondo di una Firenze inquietante; La profezia perduta di Dante, romanzo di Francesco Fioretti (n. 1960), conduce i lettori nel mistero della morte di Paolo e Francesca, i due amanti immortalati nel canto V dell’Inferno. Anche una studiosa dell’opera dantesca, Bian­ca Garavelli (n. 1958), ha trasformato il poe­ta nel protagonista di un romanzo (Le terzine perdute di Dante), raccontandone le traversie durante l’esilio.

Il miglior specialista nostrano nel manipolare presente e passato medievale in chiave fantasy è Valerio Evangelisti (n. 1952), autore di un ciclo di romanzi incentrati sulla figura dell’inquisitore domenicano Nicolas Eymerich, che nell’Europa del XIV secolo indaga con spietato accanimento su inspiegabili fenomeni paranormali, che proiettano la vicenda nel nostro presente o addirittura nel futuro.

L’emozione della lettura - volume A
L’emozione della lettura - volume A
Narrativa