T4 - Rosso Malpelo (G. Verga)

Il tema: Il lavoro

T4

Giovanni Verga

Rosso Malpelo

  • Tratto da Vita dei campi, 1897
  • Prima uscita “Il Fanfulla”, 1878
  • novella
L’autore

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, in una ricca famiglia nobile. Sin da giovane si appassiona alla letteratura e scrive il suo primo romanzo all’età di soli sedici anni. Dopo aver frequentato la facoltà di Legge dell’Università di Catania, si schiera a favore dell’annessione della Sicilia all’Italia. Dal 1865 in poi soggiorna stabilmente a Firenze, allora capitale italiana. Nel 1871, pubblicato il suo primo romanzo di successo, Storia di una capinera, Verga decide di trasferirsi a Milano, dove vive per più di un ventennio, entrando in contatto con importanti intellettuali. L’esperienza milanese ispira i romanzi “mondani”, così detti per l’ambientazione borghese, come Eva (1873), Eros e Tigre reale (1875), accolti dai contemporanei con entusiasmo. Tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta compone le opere che segnano la conversione al Verismo, una corrente che mira a offrire una rappresentazione asciutta e obiettiva della società, specialmente quella siciliana: le raccolte di novelle Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883), i romanzi I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889). Dopo un periodo di difficoltà economiche e delusioni professionali, Verga ritorna nella città natale nel 1893, dove, spentasi la sua ispirazione narrativa, conduce una vita solitaria e appartata. Nominato senatore del Regno nel 1920, muore a Catania nel 1922.

Siamo nella Sicilia di fine Ottocento, in una cava di sabbia lavica, nei pressi di Catania. Malpelo è figlio di Misciu Bestia, un povero disgraziato morto per un incidente sul lavoro. È solo un ragazzo selvatico, dai capelli rossi, ma fa già il mestiere del padre, circondato da diffidenza e disprezzo. Nessuno gli bada, neppure la madre, e finisce per incattivirsi, rassegnato alla terribile vita dei minatori. Accetta qualunque compito, qualunque punizione, con imperturbabile insensibilità. Altro non vede, al mondo, che non sia una feroce lotta per la sopravvivenza.

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché
era un ragazzo malizioso e cattivo,1 che prometteva di riescire un fior di birbone.2 Sicché
tutti alla cava della rena rossa3 lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col
sentirgli dir sempre a quel modo,4 aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

5      Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei
pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse
un paio, di quei soldi: nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli
faceva la ricevuta a scapaccioni.5

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e 

10    in coscienza6 erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe
voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano
coi piedi,7 allorché se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno,
mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio8 la loro minestra,

15    e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello9 fra
le gambe, per rosicchiarsi quel po’ di pane bigio,10 come fanno le bestie sue pari,11
e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo,12 e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante13
lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava,14 fra i calci, e si
lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso 

20    e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa,15 e aveva altro pel capo che
pensare a ripulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica16 per
tutto Monserrato e la Caverna,17 tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la
cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura
per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.

25    Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo,18
di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato,19 e dacché non serviva
più, s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra20 di rena. Invece
mastro Misciu sterrava21 da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del
lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione22 come mastro Misciu aveva 

30    potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano
mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava.23 Ei, povero diavolaccio,
lasciava dire, e si contentava di buscarsi24 il pane colle sue braccia, invece di menarle
addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie25
cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate 

35    che facevano dire agli altri: «Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre».

Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttoché26 fosse una buona bestia.
Zio27 Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per
venti onze,28 tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta
a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato.

40    Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria
era suonata da un pezzo,29 e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e
se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o
raccomandandogli di non fare la morte del sorcio.30 Ei, che c’era avvezzo31 alle beffe,
non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in 

45    pieno, e intanto borbottava:

«Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata!»,
e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto, il
cottimante!32

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava 

50    al pari di un arcolaio.33 Il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi
e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! anch’esso.
Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto
ed il fiasco del vino.

Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati in là!» oppure: 

55    «Sta’ attento! Bada se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa!».
Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri34 nel corbello, udì
un tonfo sordo, come fa la rena traditora35 allorché fa pancia e si sventra tutta in una
volta,36 ed il lume si spense.

L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera, e non 

60    avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il
babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato,
strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era
toccata a comare Santa,37 la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti
invece, quasi avesse la terzana.38 L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il 

65    quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già
essere bell’e arrivato in Paradiso, andò proprio per scarico di coscienza,39 con scale
e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a
sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta
una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle 

70    mani, e dovea prendere il doppio di calce.40 Ce n’era da riempire delle carra per delle
settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!

Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia
davvero.

«To’!», disse infine uno. «È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso?».

75    «Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia…».

Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie
colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono
col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati,41 e la schiuma
alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani 

80    tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio;42 non potendo
più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli,
per tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando
ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può 

85    andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e
sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo
padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso
torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo
diavolo gli susurrasse nelle orecchie, dall’altra parte della montagna di rena caduta. 

90    In quei giorni era più tristo43 e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi,
e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene,
perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e le botte, magari.
Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento,44 sopportava tutto lo sfogo della cattiveria
di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava:

95    «Così creperai più presto!».

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava
al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo
che era malpelo, ei si acconciava45 ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva
una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, 

100 o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si
pigliava le busse46 senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano
la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura
crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava
gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano 

105 diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano
fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era
solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché
egli non faceva così!». E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con
un’occhiata torva: «È stato lui! per trentacinque tarì!».47 E un’altra volta, dietro allo 

110 sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!».

Per un raffinamento di malignità48 sembrava aver preso a proteggere un povero
ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta
da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto,
quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano 

115 messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio com’era, il suo pane
se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo,
dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza
misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore 

120 accanimento, dicendogli: «To’, bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti
da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e
da quello!».

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici:
«Così, come ti cuocerà49 il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!». Quando 

125 cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare
gli zoccoli, rifinito,50 curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva
senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi
e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma
stremo di forze,51 non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno 

130 il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva
dire a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse
picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».

Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura52 di darle più forte che puoi; così
gli altri ti terranno da conto,53 e ne avrai tanti di meno addosso».

135 Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’
di uno che l’avesse54 con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli
ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce;
«somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte,
o siete in molti, come fa lo sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva 

140 sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena
se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava
a guisa di55 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava:
«Taci, pulcino!», e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo 

145 con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la
sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto,56 e si stringeva nelle
spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile,
o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato57 e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle 

150 braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo,
allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione
di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla.
Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro
di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo:58 perciò ei si pigliava sempre 

155 i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui
sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile.
E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire
la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!», e nessuno avrebbe
potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o 

160 di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o
timidità.59 Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui,
e quindi non gliene faceva mai.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini
e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso60 da ogni parte, la sorella 

165 afferrava il manico della scopa, scoprendolo sull’uscio in quell’arnese,61 ché avrebbe
fatto scappare il suo damo62 se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la
madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi
sul suo saccone63 come un cane malato. Per questo, la domenica, in cui tutti gli altri
ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare64 

170 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli
orti, a dar la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano fatto
nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia.65 Per altro le beffe e le sassate
degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese,66 come 

175 dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi
dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le
gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati
e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e
lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere 

180 persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano67 se
vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni
senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco,68
ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati
dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja,69 a strangolarli; ma pel 

185 lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva
di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per
aiutarsi colla fune,70 e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare
cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, 

190 – o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava,
dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe,71 colla pipa in bocca, e andava tutto il
giorno per le belle strade di campagna; – o meglio ancora, avrebbe voluto fare il
contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi,72 e
il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il 

195 mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava
a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena
fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi
sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato
il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio 

200 aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e
aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva
condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come
l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e
di là, sin dove potevano vedere la sciara73 nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e 

205 come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che
camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio74 del
pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali
li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne75 una delle scarpe di mastro 

210 Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio
come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare
né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici76 affermarono
che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato
addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente77 come fosse 

215 capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una
parte e i piedi dall’altra.

Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire
fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo
di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro 

220 punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo
scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi
che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto
a finire,78 perché il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo:
si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di 

225 liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte.

«Proprio come suo figlio Malpelo!», ripeteva lo sciancato, «ei scavava di qua,
mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che
lo sapevano maligno e vendicativo.

Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava 

230 la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame,79 trattavasi di
un compagno, e di carne battezzata.80 La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li
adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe
furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe
non si potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.

235 Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva
che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i
capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a
un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le
pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto 

240 all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle
ore intere, rimuginando81 chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone
e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque82 fossero troppo pesanti per l’età
sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come 

245 nuovi, egli aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico
colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli,
se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e
di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.

«Così si fa», brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più, si buttano 

250 lontano».

Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva
a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva
che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta;
e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano 

255 da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano
guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto,83
ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella
cagna nera», gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché
ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più». 

260 L’asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani
si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a spolpargli le ossa bianche; i denti
che gli laceravano le viscere non lo avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando
gli accarezzavano la schiena a badilate, per mettergli in corpo un po’ di vigore nel
salire la ripida viuzza. «Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi 

265 di zappa e delle guidalesche;84 anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli
mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: “Non più! non più!”. Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se
ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se
non fosse mai nato sarebbe stato meglio».

270 La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva
e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un
uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di
coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era
tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una 

275 volta un minatore c’era entrato da giovane, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un
altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano gridato aiuto per anni ed anni.

«Egli solo ode le sue stesse grida!», diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore
più duro della sciara, trasaliva.

«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma 

280 io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà».

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara,
e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco
della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi
quella quiete e quella luminaria dell’alto;85 perciò odiava le notti di luna, in cui il 

285 mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – perché
allora la sciara sembra più bella e desolata.

«Per noi che siamo fatti per vivere sotterra», pensava Malpelo, «dovrebbe essere
buio sempre e da per tutto».

La civetta strideva sulla sciara, e ramingava86 di qua e di là; ei pensava:

290 «Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può
andare a trovarli».

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché
chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio
aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il 

295 dolore di esser mangiate.

«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti», gli diceva, «e allora era tutt’altra
cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura
dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri
in compagnia dei morti».

300 Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero
a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a
stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi
te l’ha detto?», domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto
la mamma.

305 Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio
malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni,
tu dovresti portar la gonnella».

E dopo averci pensato un po’:

«Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano 

310 Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni
qui che ho indosso io».

Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo
che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe,87 tremante
di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non 

315 ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere,88 e che per lavorare in una miniera, senza
lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci
nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli
stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo
e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto 

320 da uno sbocco di sangue;89 allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso
e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran
male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto
e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio
sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si 

325 mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse:

«Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!».

Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre
tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli
del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo 

330 coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse;
la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo90 della febbre, né con sacchi, né
coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.91 Malpelo se ne stava
zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi
occhiacci spalancati, quasi volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, 

335 e gli vedeva il viso trafelato92 e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino
grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava:

«È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi!».

E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo,
e bisognava sorvegliarlo.

340 Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò
le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro.
Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio
era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo
fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

345 Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché
sua madre strillasse a quel modo, mentre che93 da due mesi ei non guadagnava nemmeno
quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava
che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto.94 Allora il Rosso si diede
ad almanaccare95 che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo 

350 era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi
che non si slattano96 mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua
madre non aveva mai pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta
adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, 

355 nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano
più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così.
Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi,97 poiché anche la madre di Malpelo s’era
asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra
volta, ed era andata a stare a Cifali98 colla figliuola maritata, e avevano chiusa la 

360 porta di casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui
nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non
avrebbe sentito più nulla.

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si
teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato 

365 dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per anni ed anni.
Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i
ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata
la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò 

370 chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di
stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva
tornarci coi suoi piedi.

«Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?»,
domandò Malpelo.

375 «Perché non sono malpelo come te!», rispose lo sciancato. «Ma non temere, che
tu ci andrai! e ci lascerai le ossa!».

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso.
Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col pozzo
grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una 

380 buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era
il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia
voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo,99 per
tutto l’oro del mondo.

Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo 

385 per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel
partire, si risovvenne100 del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina
e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo.
Ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il
piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né 

390 più si seppe nulla di lui.

Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce
quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi,
coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.


Giovanni Verga, Rosso Malpelo, in I grandi romanzi e tutte le novelle, a cura di C. Greco Lanza, Newton, Roma 1996

 >> pagina 438 

a TU per TU con il testo

Perché Malpelo ha i capelli rossi? Che domande: perché è un ragazzo malizioso e cattivo (r. 2). Il ragionamento dal quale prende avvio il racconto non fa una piega: almeno nel mondo popolare siciliano descritto da Verga, in cui sono ancora vivi i pregiudizi contro chi ha i capelli di colore acceso, rintracciabili nel bacino del Mediterraneo sin dai tempi antichi. Dappertutto la presenza di tratti fisici rari o sorprendenti risveglia l’aggressività, come testimoniano le persecuzioni alle quali vengono ancora oggi sottoposti gli albini nell’Africa nera. E d’altronde, guardando più vicino a noi, quante volte capita che una persona sovrappeso, calva o strabica venga derisa e isolata dal gruppo? Così Malpelo a mezzogiorno, mentre gli operai della cava si radunano per mangiare in compagnia, chiacchierando, solo soletto in un angolo rosicchia il suo pane raffermo, incurante dei lazzi e delle sassate che gli piovono addosso.

Nel suo caso, a determinare il ruolo di zimbello c’è però ben altro che il colore dei capelli. La sua sola presenza è un fastidio. Lui deve sparire: e sparisce. Ma nel volto sporco e stravolto del Rosso si specchia la cattiva coscienza degli uomini, e per questo torna a visitare in forma di incubo i giovani che si affacciano sull’inferno della cava.

Analisi

Rosso Malpelo, pubblicato a puntate sulla rivista “Il Fanfulla” nell’estate del 1878, è il primo racconto verista di Verga. Per la prima volta lo scrittore siciliano decide di costruire un narratore lontanissimo dalla sua cultura, dalle sue idee, dalla lingua colta acquisita grazie agli studi. Sin dalle prime righe, grazie all’equazione “capelli rossi = cattiveria”, il lettore deve confrontarsi con una voce anonima, che condivide l’ostilità manifestata dai minatori verso il giovane protagonista. Verga cioè cerca di “regredire”, di sparire dietro il narratore, allo scopo di fare emergere la mentalità ottusa e spietata circolante in quel mondo. Il lettore non può credere che il disprezzo verso uno sventurato come Malpelo, e il favore per chi lo maltratta e lo umilia, appartengano all’autore reale: in tal modo è indotto a un’amara riflessione sull’infanzia negata ai “carusi”, i ragazzini costretti nella Sicilia di allora a fatiche indicibili per guadagnarsi un tozzo di pane. La pietà non trabocca mai sulla pagina, ma è implicita nella stessa decisione di affrontare un argomento simile: una decisione che Verga prende a seguito della lettura di un’inchiesta parlamentare sul tema, e dell’ampio dibattito allora in corso sul lavoro minorile, una vergogna alla quale si tentava di porre rimedio attraverso la legge.

La necessità di restituire in modo fedele i meccanismi spietati che schiacciano Malpelo si traduce nel ricorso a uno stile che riecheggia la parlata popolare dei minatori, i quali non conoscevano altra lingua al di fuori del siciliano. Una riproduzione integrale del dialetto, nomi a parte (zio Mommu, mastro Misciu), avrebbe tuttavia reso il racconto incomprensibile al di fuori dell’isola. Verga sceglie perciò di impastarlo in una base italiana, in modo da farne sentire il sapore, forte ma non respingente: a ciò si deve la presenza di termini, locuzioni e proverbi locali, a volte sottolineati dal corsivo (malpelo, r. 6; la morte del sorcio, r. 61; sciara, r. 204; carne battezzata, r. 231 ecc.).

Di impronta dialettale è anche la sintassi, dove abbondano i costrutti impropri e i pronomi pleonastici (a mio padre gli dicevano Bestia, r. 107). Per fissare meglio un concetto, come accade nella conversazione, spesso Verga lo rilancia da una frase all’altra, concatenandole: mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Era morto così (rr. 24-25); «Io ci sono avvezzo». Era avvezzo a tutto lui (rr. 147-148); «Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa!». Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo (rr. 375-376). Ma il modulo stilistico più evidente, quello che meglio permette di comprendere i codici culturali in uso nel mondo rappresentato, è il discorso indiretto libero, che dà forza e immediatezza al racconto sin dall’attacco, quando la madre sostiene che siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi (rr. 6-7).

 >> pagina 439 

La madre, al pari della sorella, riserva a Malpelo soltanto indifferenza e disprezzo. Gli stessi sentimenti li nutrono i compagni al cantiere, che schivavano come un can rognoso (r. 11) il suo brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico (r. 13). La caratterizzazione del protagonista non trascura né l’aspetto fisico, né l’aspetto psicologico, né l’aspetto sociale, insistendo sulla sua condizione di emarginato. Il narratore paragona più volte Rosso Malpelo a un animale: sia questo una bestia da soma (si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, rr. 18-19), un bufalo feroce (rr. 96-97) o un cane, rognoso (r. 11) o malato (r. 168), uno di quelli che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe (rr. 175-177).

L’unico a volergli bene era stato il padre, morto nella stessa cava in un terribile incidente, come apprendiamo dal lungo flashback che occupa il centro del racconto. Il corpo di Misciu Bestia, seppellito sotto una montagna di rena, tornerà alla luce solo mesi dopo, orribilmente sfigurato. Malpelo ne conserva gelosamente le scarpe e gli attrezzi, suscitando commozione in chi legge e sorpresa nel narratore, sconcertato dal mancato guadagno di una possibile vendita: Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no (rr. 242-245).

Mastro Misciu, sfruttato in vita dai compagni, ingannato dal padrone, deriso anche da morto, è l’unico personaggio che sembra sottrarsi alla feroce logica che regge il mondo della cava, dove trionfano la forza, la crudeltà, l’interesse, la scaltrezza. Malpelo, che ne è vittima, non si ribella ma sopporta ogni violenza fisica e psicologica con orgoglio, accettando qualunque colpa su di sé: Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui (rr. 97-100). Egli consapevolmente assume su di sé la funzione di capro espiatorio perché è convinto che sia impossibile modificare la propria condizione di vita, e trasformarsi in contadino o manovale, come pure vorrebbe: quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui (rr. 194-195).

Tuttavia Malpelo da vittima sembra trasformarsi in oppressore, quando picchia senza misericordia l’asino e lo storpio Ranocchio. Cresciuto in un universo dove domina la violenza, solo attraverso la violenza è in grado di esprimere i propri sentimenti e spiegare a chi è inesperto come funziona il mondo: Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello! (rr. 120-122), dice a Ranocchio, che pure gli è amico. Non lo picchia per un raffinamento di malignità (r. 111), come sostiene il narratore, ma perché crede di agire a fin di bene. Il suo ruolo pedagogico trova conferma nella scena in cui trascina l’amico a osservare la carogna dell’asino, morto di stenti e gettato in un burrone, dove i cani randagi lo spolpano: gli spiega che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa (r. 253), compresa la morte, che ai suoi occhi non è che una liberazione dalla sofferenza, mentre Ranocchio crede al paradiso, del quale gli ha parlato la madre.

Con la morte dell’amico, che segue quella del padre e dell’asino, l’educazione di Rosso si compie: è ormai pronto per andare incontro al destino con fiera consapevolezza.

Solo al mondo, Malpelo accetta di esplorare un passaggio pericoloso nella cava, nonostante il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più (r. 381). Le leggende che un tempo lo facevano trasalire, evocando minatori entrati giovani nella grotta e usciti da vecchi, o persi in chissà quale anfratto, non gli fanno più né caldo né freddo. Non ha nulla da perdere, se non un presente di fatiche insopportabili e un fardello di ricordi dolorosi, concretizzati negli arnesi del padre, che prende con sé prima di avviarsi. Anche lui è destinato a scomparire nella cava, dove nessuno saprà più trovarlo. Il suo corpo si è dissolto, ma il fantasma abita i discorsi dei ragazzi condannati al suo stesso lavoro, che abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo (rr. 391-392).

 >> pagina 440 

Laboratorio sul testo

COMPRENDERE

1. Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.


a) Rosso Malpelo è un ragazzino siciliano che lavora in una cava.

  •   V       F   

b) Il padre di Malpelo è morto nella stessa cava in cui lavora il figlio.

  •   V       F   

c) Il padre di Malpelo è morto facendo un lavoro extra che però gli ha fruttato un lauto guadagno.

  •   V       F   

d) Dopo la morte del padre, i compagni di lavoro trattano Malpelo con gentilezza e riguardo.

  •   V       F   

e) Malpelo incolpa i compagni di lavoro e il padrone per la morte del padre.

  •   V       F   

f) Ranocchio è soprannominato così per il colore verdastro della sua carnagione.

  •   V       F   

g) Ranocchio non può più fare il manovale a causa di un incidente sul lavoro.

  •   V       F   

h) Malpelo stringe con Ranocchio un rapporto particolare, duro ma affettuoso.

  •   V       F   

i) Quando Ranocchio si ammala, Malpelo lo abbandona a se stesso.

  •   V       F   

j) Il finale della novella lascia intendere al lettore la morte di Malpelo.

  •   V       F   


2. Quando vengono ritrovati gli arnesi e il corpo di mastro Misciu, Malpelo conserva e usa con cura gli oggetti del padre perché

  •     teme che gli altri lavoranti glieli rubino. 
  •     vuole rivenderli per guadagnarci qualcosa. 
  •     rappresentano il solo ricordo del padre a cui lui era molto affezionato. 
  •     teme che la madre e la sorella li rivendano. 


3. Malpelo maltratta e picchia Ranocchio perché

  •     è un ragazzo cattivo. 
  •     vuole insegnare a Ranocchio la dura legge dell’esistenza. 
  •     crede che Ranocchio meriti le botte. 
  •     così si è sempre fatto alla cava. 


4. Da quali gesti puoi capire che l’affetto di Malpelo per Ranocchio è sincero?

ANALIZZARE E INTERPRETARE

5. Il narratore è

  •     interno ed è uno dei lavoranti nella cava. 
  •     interno ed è Malpelo. 
  •     esterno e adotta una focalizzazione esterna. 
  •     esterno ma adotta il punto di vista “popolare” di coloro che vivono attorno a Malpelo. 


6. Dividi la novella in sette macrosequenze, assegna a ciascuna un titolo e stabilisci di che tipo di sequenza si tratta, indicando anche quale tempo verbale prevale.


7. Inserisci nella tabella i passi della novella che ti permettono di delineare il ritratto di Malpelo.


Aspetto fisico Comportamento Psicologia
     


8. Individua nel testo alcuni esempi di stile indiretto libero attraverso i quali la voce narrante esprime le opinioni correnti su Malpelo.


Voce popolare anonima  
I lavoranti della cava  
La madre e la sorella  


9. Nella novella sono raccontati quattro eventi luttuosi: come reagiscono, di fronte alla morte, i diversi personaggi? Completa la tabella.


  Morte di mastro Misciu Morte dell’asino grigio Morte di Ranocchio Scomparsa di Malpelo
Malpelo        
Lavoranti nella cava        
Familiari        


10. Quale strategia narrativa è utilizzata per descrivere gli stati d’animo dei personaggi?

  •     I sentimenti e le emozioni dei personaggi sono descritti direttamente dalla voce narrante.
  •     I sentimenti e le emozioni dei personaggi sono descritti dai personaggi testimoni della vicenda. 
  •     Non sono descritti direttamente sentimenti ed emozioni dei personaggi, ma solo le loro azioni e reazioni, dalle quali si può comprendere che cosa essi provino. 
  •     Non sono descritti sentimenti ed emozioni dei personaggi perché Verga non vuole suscitare la pietà del lettore. 


Trova nel testo almeno un esempio per motivare la tua risposta.


11. Nel corso della novella ritorna più volte l’immagine dell’asino: in quali situazioni? Che significato assume?


12. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai (rr. 161-162). Che significato ha questa frase? Quale immagine restituisce del rapporto che intercorre tra Malpelo e sua madre? Com’è, invece, il rapporto di Ranocchio con la madre?


13. Nel corso della novella sono inserite delle brevi pause descrittive, soprattutto del cielo e della sciara: che funzione hanno e quale tono danno al racconto?


14. È possibile dire che in questa novella si contrappongono la “logica dell’utile” e la “logica degli affetti”? In quali occasioni? Individuale nel testo e spiega le ragioni di questo contrasto.

 >> pagina 442 

COMPETENZE LINGUISTICHE

15. Italiano e dialetto. Come si dice “lavorare” nei diversi dialetti italiani?


Lombardo   Campano  
Veneto   Siciliano  
Emiliano   Calabrese  
Abruzzese   Sardo  
Romanesco   Piemontese  


16. I registri linguistici. Pur senza utilizzare il dialetto, Verga sceglie di utilizzare un linguaggio caratterizzato da un lessico e da una sintassi popolare. Trova un corrispettivo in italiano standard per i seguenti termini presenti nella novella:


• sciancato • gabbare • minchione • crepare • busse • scapaccioni • di soppiatto • ruzzare • rimpiccolire • impiccio.

PRODURRE

17. Scrivere per riassumere. Scrivi due riassunti della novella, uno di massimo 15 righe e uno di massimo 5 righe.


18. Scrivere per argomentare. Esponi in modo chiaro e logico la visione del mondo di Malpelo (massimo 15 righe), inserendo l’esempio dell’asino grigio.

LETTERATURA E NON SOLO: SPUNTI DI RICERCA INTERDISCIPLINARE

CITTADINANZA E COSTITUZIONE

La piaga del lavoro minorile, purtroppo, non è affatto scomparsa, anzi, è diffusa in numerosi paesi del mondo, soprattutto in Africa, in Asia e in Sudamerica; anche in Italia, tuttavia, esistono ancora realtà in cui i bambini vengono sfruttati. Insieme ai tuoi compagni svolgi una ricerca su questo importante tema, aiutandoti con i dati che trovi in rete (puoi consultare, per esempio, i siti di enti e associazioni che si occupano della tutela dell’infanzia, come l’Unicef). 


Quali sono le leggi che, in Italia, impediscono il lavoro minorile? Rispondi con l’aiuto dell’insegnante.

SPUNTI PER DISCUTERE IN CLASSE

 

Rosso Malpelo è davvero un cattivo ragazzo? Perché? E se lo è, lo è per indole o lo è diventato? Per quali motivi? Racconta oralmente in circa due minuti il tuo pensiero in merito.

L’emozione della lettura - volume A
L’emozione della lettura - volume A
Narrativa