8.4 - Schiavi o lavoratori?

8 CULTURE E DIRITTI NEL MONDO GLOBALIZZATO

8.4 Schiavi o lavoratori?

La Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali promossa dall’Onu, entrata in vigore nel 1976 e attualmente firmata da 164 Paesi, riconosce a ogni individuo il diritto al lavoro. Specifica inoltre che si debba trattare di un lavoro dignitoso, cioè che offra un compenso equo e commisurato all’attività svolta, che si svolga in sicurezza e senza pericoli per la salute del lavoratore, che abbia orari limitati e fissati per legge e così via. Purtroppo in molti casi, e in particolare in alcune regioni del mondo, i diritti dei lavoratori non sono pienamente rispettati, se non del tutto ignorati.

I lavoratori dei Paesi sviluppati come quelli europei e del Nord America hanno dovuto lottare duramente, nel corso del XIX e del XX secolo, per migliorare le proprie condizioni, ottenendo gradualmente una retribuzione minima più elevata, una diminuzione dell’orario lavorativo giornaliero e garanzie di sicurezza, oltre alla proibizione del lavoro minorile e a una serie di protezioni che rientrano nell’ambito della cosiddetta sicurezza sociale, come la tutela in caso di malattia e infortunio sul lavoro e le pensioni di invalidità e anzianità.

Tutto questo è avvenuto grazie al diritto (anche questo faticosamente conquistato) di organizzarsi in associazioni, i sindacati, che hanno il compito di trattare con i datori di lavoro i contratti collettivi, cioè uguali per tutti i lavoratori dello stesso settore.

Nei Paesi emergenti e in via di sviluppo, invece, alcune di queste conquiste non sono ancora avvenute, e i lavoratori sono spesso costretti a guadagnarsi di che vivere in condizioni di sfruttamento che, in casi estremi, equivalgono a quelle della schiavitù ( focus).

Il prezzo dello sviluppo nei Paesi poveri 

Nei Paesi in via di sviluppo molti lavoratori operano in condizioni difficili e senza alcuna tutela. Nelle regioni più povere come quelle africane, soprattutto nel Sahel, nel Corno d’Africa e nell’Africa subsahariana, la maggior parte delle donne, degli uomini e dei bambini è costretta a lavorare la terra per procurarsi il necessario per sopravvivere, senza alcun tipo di protezione da parte dello Stato.

Nei Paesi emergenti, dove la recente espansione industriale ha portato alla nascita di moltissime fabbriche che lavorano a ciclo continuo, le condizioni di lavoro negli stabilimenti sono invece sorprendentemente simili a quelli che si potevano incontrare in Europa e Nord America durante la prima rivoluzione industriale, nel XIX secolo.

Dall’India al Pakistan e al Bangladesh, dalla Colombia al Messico, dall’Indonesia alla Thailandia, enormi fabbriche e innumerevoli laboratori artigianali e industriali più piccoli ospitano milioni di persone (molti dei quali bambini) che lavorano anche 18 ore al giorno per un compenso giornaliero a malapena sufficiente a garantire la sopravvivenza. Molti utilizzano macchinari pericolosi e sono esposti a sostanze chimiche tossiche, e gli incidenti, contro i quali non c’è alcuna tutela, sono all’ordine del giorno. Parecchi stabilimenti sono di proprietà o lavorano per imprese e multinazionali con sede nei Paesi avanzati, che hanno spostato la produzione in zone più povere per approfittare degli stipendi bassi e abbattere i costi di manifattura.

In Cina, i milioni di contadini che giungono ogni anno dalle campagne nelle grandi città hanno fatto la fortuna del settore industriale, che li impiega come manodopera a basso costo: un’espansione economica e industriale che ha un alto prezzo in termini sociali. In enormi stabilimenti grandi come città, sorti alla periferia di metropoli come Shanghai e Shenzen, possono lavorare anche centinaia di migliaia di persone, impiegate con turni massacranti nelle linee di montaggio di circuiti integrati e microchip per i più moderni computer e telefoni cellulari. Molti operai dormono in locali simili a caserme a pochi metri dai macchinari, e vengono puniti per ogni eventuale protesta organizzata, in quanto le organizzazioni sindacali sono proibite.

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FOCUS

I nuovi schiavi
Si stima che attualmente nel mondo siano oltre 20 milioni gli individui soggetti a lavoro forzato o coatto, cioè costretti a lavorare contro la propria volontà. Sono sostanzialmente schiavi, impiegati come domestici, braccianti nelle piantagioni agricole e operai in fabbriche e laboratori manifatturieri. Vivono in condizioni igieniche precarie e senza percepire alcun compenso; molti subiscono violenze da parte dei loro “datori di lavoro”. La maggior parte dei casi di lavoro forzato si verifica nei Paesi più poveri del mondo, come quelli africani e del Sudest asiatico, ma il fenomeno è diffuso anche nei Paesi avanzati, dove le persone più soggette a questo tipo di sfruttamento sono gli immigrati clandestini, costretti ad accettare lavori “in nero”, cioè senza alcun contratto o tutela, per paura di essere scoperti dalle autorità del Paese in cui sono entrati illegalmente. Sono numerosi anche gli immigrati tenuti in una condizione di schiavitù dalle stesse organizzazioni criminali che li hanno portati dai Paesi di origine, e che li costringono a lavorare per ripagare il debito contratto per garantirsi il viaggio. Nelle grandi città europee come Milano, Parigi o Londra, sono all’ordine del giorno le scoperte di laboratori clandestini dove immigrati irregolari (provenienti soprattutto da Cina, India, Pakistan e Sudest asiatico) sono costretti a vivere e lavorare in condizioni durissime.

Migranti birmani impiegati come braccianti agricoli in Thailandia.

GUIDA ALLO STUDIO

  • Quali sono le condizioni a cui un lavoratore ha diritto, secondo quanto sancito dall’Onu?
  • Che ruolo svolgono i sindacati?
  • In quale settore vengono impiegati prevalentemente i lavoratori meno qualificati dei Paesi emergenti?

Il nuovo Storia&Geo - volume 2
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Da Roma imperiale all’anno Mille