TEMA 6 un pianeta in guerra

6.1 I conflitti armati e le loro cause

Un conflitto armato in genere è conseguenza della cosiddetta “violenza organizzata”, cioè un atto di violenza deliberata di un gruppo umano contro un altro. Se, da una parte, solo il 10% circa delle morti violente che si verificano nel mondo ogni anno avviene a causa di guerre (il 90% è dovuto alla criminalità comune), dall’altra i conflitti armati non si limitano, come si potrebbe immaginare, agli scontri tra le forze militari di Stati diversi. Esistono purtroppo molti altri tipi di conflitti, dalle guerre civili, in cui varie fazioni lottano per il potere all’interno di un Paese, agli scontri tra uno o più governi e movimenti armati che vogliono conseguire determinati obiettivi economici, politici o ideologici.

Si stima che nel 2012 fossero 51 i conflitti armati in corso nel mondo, con un bilancio complessivo di oltre 100 000 morti. Probabilmente si tratta di dati già superati, poiché ogni anno terminano vecchie guerre e ne divampano di nuove in diverse parti del mondo.

Il numero totale dei conflitti armati è cresciuto notevolmente dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, soprattutto durante il periodo di instabilità politica seguito alla Guerra Fredda. In particolare, negli ultimi settant’anni sono aumentate le guerre civili, mentre sono diminuiti gli scontri tra Stati diversi. Un dato positivo è che, proprio perché le guerre tra Stati sono in genere il tipo di conflitto che provoca il maggior numero di morti, le vittime dei conflitti armati sono diminuite costantemente dalla fine della Seconda guerra mondiale. A pochi e sanguinosi conflitti internazionali si sono sostituiti dunque molti conflitti interni ( carta).

Dalla Guerra Fredda alle guerre asimmetriche

Lo scenario politico e militare mondiale ha vissuto radicali cambiamenti negli ultimi vent’anni. Per svariati decenni, durante il XX secolo, il mondo fu dominato dalla Guerra Fredda, lo scontro economico, politico e diplomatico (che in diverse occasioni rischiò di degenerare in guerra “calda”, cioè aperta) tra le due superpotenze mondiali emerse alla fine della Seconda guerra mondiale (1945): gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica; lo scenario era complicato dal fatto che entrambi i Paesi disponevano di uno sterminato arsenale di armi di distruzione di massa ( focus). Quasi ogni Paese del mondo era alleato con una delle due superpotenze, e ogni conflitto era visto come uno “scontro a distanza” tra di esse; fu il caso delle guerre asiatiche in cui furono impegnati gli Stati Uniti, quali la guerra di Corea (1950-1953) e la guerra in Vietnam (1955-1975), ma anche dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica (1979-1989). Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, è iniziato un periodo di instabilità, soprattutto nei Paesi che facevano parte del blocco sovietico: ci sono state rivoluzioni che hanno rovesciato governi e sono nati nuovi Stati, alcuni in seguito a violenti conflitti (come la guerra civile in Iugoslavia, tra il 1991 e il 1999).

Nel frattempo gli Stati Uniti, rimasti l’unica superpotenza, si sono ritrovati nel ruolo di unici “guardiani” dell’ordine mondiale, e sono intervenuti in diverse parti del mondo per rispondere a presunte minacce alla loro sicurezza e all’equilibrio mondiale, dando inizio a conflitti come quelli in Afghanistan (iniziato nel 2001) e Iraq (2003-2011), che rientrano nella cosiddetta guerra globale al terrorismo.

Questi conflitti sono detti “guerre asimmetriche”, in quanto uno degli avversari è militarmente più forte dell’altro. La parte più debole impiega tattiche alternative allo scontro diretto (come la guerriglia e il terrorismo) per danneggiare l’avversario e “convincerlo” che non vale più la pena combattere.

Se questi conflitti provocano di solito meno vittime rispetto alle guerre “aperte”, si rivelano comunque disastrosi per i Paesi in cui si svolgono poiché danneggiano gravemente l’economia, fanno peggiorare le condizioni di vita della popolazione e causano un’instabilità politica e sociale difficile da superare.

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FOCUS

le armi di distruzione di massa
Chiamate così perché in grado di uccidere un grandissimo numero di persone nel corso di un solo attacco, le armi di distruzione di massa si dividono in tre categorie: nucleari (le bombe atomiche), biologiche (virus e batteri usati come arma per infettare il nemico) e chimiche (sostanze in grado di provocare gravi danni o uccidere, come i gas nervini).
Tra queste, le più temute sono le armi nucleari, potenzialmente in grado di uccidere gran parte della vita sulla Terra se utilizzate su larga scala (come si temeva potesse succedere durante la Guerra Fredda). Attualmente sono otto i Paesi che hanno ammesso di possedere armi nucleari: per primi i cosiddetti “Stati nucleari” (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina), cui si sono aggiunti India, Pakistan e Corea del Nord; infine, anche Israele pare sia in possesso di armi atomiche.
Molti Stati hanno firmato accordi internazionali per limitare la produzione di armi di distruzione di massa e il loro uso, come la Convenzione sulle armi biologiche (1975), la Convenzione sulle armi chimiche (1997) e il Trattato di non proliferazione nucleare (1970).

DOSSIER TECNOLOGIA  Cyberguerra, la nuova frontiera
Un drone americano in volo sul Pakistan.

Il mondo contemporaneo per molti aspetti è ormai completamente dipendente dai sistemi informatici, e anche gli eserciti, le armi e le agenzie di spionaggio sono sempre più “computerizzati”: i computer controllano i sofisticati sistemi dei droni, gli aerei senza pilota che compiono missioni di ricognizione e attacco sul territorio nemico; informazioni e piani militari top secret sono registrati in banche dati informatiche custodite in centri governativi altamente sorvegliati. La stessa rete Internet nacque come sistema militare, progettato negli anni Sessanta del Novecento per garantire le comunicazioni tra le basi militari americane in caso di attacco nucleare sovietico.
Non sorprende dunque che una parte sempre maggiore dei conflitti tra Paesi e gruppi armati avvenga dietro lo schermo di un computer: le forze armate e di spionaggio di molti Stati hanno da tempo reclutato squadre di hacker incaricati di “fortificare” le loro infrastrutture informatiche contro le intrusioni nemiche, e nello stesso tempo di tentare a loro volta di entrare nei sistemi informatici avversari per carpire informazioni importanti. Una “guerra informatica” di questo tipo è in corso da anni, per esempio, tra Stati Uniti e Cina.
In realtà azioni come queste, per quanto possano mettere in pericolo i rapporti diplomatici tra gli Stati, non sono molto diverse dalla classica “guerra tra spie” per scoprire i segreti militari del nemico, ritratta nei film di spionaggio e considerata “normale amministrazione” durante la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In questi casi si potrebbe quindi parlare, al massimo, di “cyberspionaggio”.
Perché allora si parla di “cyberguerra”? La ragione è semplice: i sistemi informatici sono ormai usati per controllare moltissime infrastrutture, come centrali nucleari, dighe, aeroporti, sistemi di depurazione dell’acqua e così via. La preoccupazione di molti Stati è che Paesi avversari o gruppi terroristici possano infiltrarsi nei sistemi informatici di queste strutture “critiche” e provocare il loro malfunzionamento, causando danni e vittime “veri”. Un’azione del genere sarebbe considerata, sul piano dei rapporti tra Stati, un autentico atto di guerra.

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Le ragioni dei conflitti: le risorse naturali

Uno dei motivi di dissidio più antichi e frequenti è il possesso delle risorse naturali.

Acqua, terre fertili e risorse energetiche e minerarie non sono illimitate: governi e popolazioni lottano ogni giorno per accedervi o possederle. Conflitti violenti per il controllo delle risorse naturali si combattono frequentemente, per esempio, nell’Africa subsahariana.

Spesso i conflitti per le risorse si intrecciano agli scontri di tipo etnico, religioso o ideologico, e non di rado le ragioni ideologiche vengono addotte come movente per “mascherare” il vero motivo di un conflitto.

È il caso della guerra civile combattuta in Colombia tra il governo e vari gruppi armati (Farc ed Eln): questi movimenti dichiarano di battersi per un miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle classi povere, ma molti osservatori credono che la vera ragione della lotta sia il controllo delle vaste piantagioni colombiane di coca, la pianta da cui si ottiene la cocaina.

Indipendenza... 

Altri conflitti sono motivati dall’aspirazione di un popolo o di un’etnia a poter scegliere liberamente la propria organizzazione politica: è il cosiddetto “diritto di autodeterminazione”; questo accade soprattutto se l’etnia costituisce una minoranza della popolazione di un certo Stato.

Molti movimenti armati nazionalisti (che ambiscono cioè a riunire tutti gli appartenenti a una certa etnia, e solo questi, in un’unica entità politica) si battono per rendere indipendente (oppure annettere a uno Stato differente) il territorio abitato dall’etnia in cui si riconoscono (i cosiddetti movimenti separatisti), oppure per creare uno Stato indipendente che corrisponda alla regione storica abitata dalla propria etnia; quest’ultimo è il caso dei movimenti indipendentisti curdi, volti a trasformare in uno Stato la zona abitata dall’etnia curda, il Kurdistan, attualmente diviso tra gli Stati di Turchia, Iran, Iraq e Siria.

Va però sottolineato che non tutti gli appartenenti a etnie nelle quali esistono spinte separatiste e indipendentiste condividono tali aspirazioni; inoltre molti di coloro che le abbracciano sono contrari alla lotta armata, e preferiscono perseguirle con mezzi non violenti.

… e libertà dei popoli

Agli ideali di indipendenza di un popolo si affiancano quelli di libertà, e per la libertà spesso si combatte. È ciò che avviene nelle rivoluzioni, quando una parte consistente della popolazione di un Paese si ribella in modo violento alle autorità dello Stato, che spesso esercitano il loro potere in maniera autoritaria e antidemocratica (dittature). Le rivoluzioni possono degenerare in guerra civile se non esiste una maggioranza sufficiente della popolazione che condivide gli obiettivi rivoluzionari.

A partire dal 2011, per esempio, molti Paesi arabi dell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente sono stati investiti da un’ondata rivoluzionaria chiamata “primavera araba”. In alcuni Paesi le rivoluzioni hanno portato a un cambio di regime in modo relativamente pacifico, mentre in altri sono degenerate in guerre civili: è quanto avvenuto in Siria e in Libia, con scontri tra le forze al potere e gruppi di ribelli. In Libia la situazione si è risolta con l’intervento militare di una coalizione di Paesi, tra cui Stati Uniti e Italia, che hanno agito in nome del principio di “ingerenza umanitaria”, cioè il diritto degli Stati a intervenire negli affari interni di un altro Paese in cui non vengano rispettati i diritti fondamentali della popolazione. Si tratta solo dell’ultimo caso di “guerre umanitarie” combattute, almeno nominalmente, per proteggere popolazioni o minoranze in pericolo. Non tutti sono d’accordo sulla legittimità di questi interventi umanitari alla luce del diritto internazionale (il complesso di norme che regola i rapporti tra Stati). Nel caso della Libia tuttavia l’azione militare è avvenuta con l’approvazione dell’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite), e quindi da intervento umanitario si è trasformata in un’operazione di “polizia internazionale”.

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Scontri etnici e religiosi

Alcuni scontri tra etnie e popoli non si combattono per il diritto all’autodeterminazione delle minoranze, ma per le difficoltà di convivenza tra le varie parti della popolazione di uno stesso Paese, che spesso degenerano in puro odio. Questo accade soprattutto nei Paesi in cui le etnie sono mescolate e non risiedono ciascuna in una parte specifica del territorio; oppure dove una sola etnia detiene il potere politico, mentre le altre sono discriminate e svantaggiate dal punto vista economico e sociale. Entrambi questi fattori si riscontrano in molti Paesi dell’Africa subsahariana come il Sudan e la Repubblica Democratica del Congo, dove periodicamente esplodono lotte, anche molto violente, tra varie etnie, fino ad arrivare a fenomeni di pulizia etnica.

Anche le differenze religiose possono essere motivo di scontro, soprattutto a causa del fondamentalismo religioso, secondo cui una sola è la religione da seguire nel mondo, mentre tutte le altre vanno eliminate. Conflitti di questo tipo sono in corso per esempio in Nigeria, dove gruppi fondamentalisti musulmani sono responsabili di attacchi alla popolazione cristiana, e nell’India occidentale, dove a combattersi sono gruppi fondamentalisti musulmani e indù.

La minaccia del terrorismo

Come abbiamo accennato, ci sono gruppi armati che, per raggiungere i propri obiettivi, ricorrono al terrorismo compiendo attacchi e attentati (per esempio l’esplosione di bombe) contro la popolazione civile, facendo leva sui sentimenti di paura e insicurezza che i loro gesti suscitano nella gente per fare pressione sui loro avversari. Molti gruppi terroristici agiscono in un’area relativamente ristretta e hanno obiettivi limitati (come l’indipendenza di una nazione), mentre altri operano in diverse parti del mondo e hanno obiettivi più vasti. Tra i gruppi terroristici globali ci sono quelli legati al fondamentalismo islamico: appartenevano proprio al più noto di questi gruppi, al-Qaeda, i terroristi che l’11 settembre 2001 dirottarono alcuni aerei di linea, facendoli poi schiantare contro le due Torri Gemelle (i grattacieli del World Trade Center) di New York e l’edificio del Pentagono a Washington, causando in tutto circa 3000 morti. In risposta a questi attentati, gli Stati Uniti e i Paesi loro alleati hanno dato il via a una guerra globale contro il terrorismo, nell’ambito della quale rientrano gli interventi militari degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, i cui governi di allora erano stati accusati di dare rifugio e sostegno a gruppi terroristici.

GUIDA ALLO STUDIO

  • Che cosa sono le “guerre asimmetriche”?
  • Risorse, indipendenza, libertà: in che senso ciascuno di questi elementi può essere causa di un conflitto?
  • Che cosa si intende con l’espressione “ingerenza umanitaria”?
  • Che cosa accadde l’11 settembre 2001?

Il nuovo Storia&Geo - volume 2
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Da Roma imperiale all’anno Mille