Dalla monarchia alla repubblica

4.2 LE ORIGINI DI ROMA

Dalla monarchia alla repubblica

Il re di Roma (rex) comandava l’esercito, amministrava la giustizia ed era sia la suprema carica politica, sia la somma autorità religiosa. Come nelle città-Stato etrusche, il suo potere non era però ereditario: i re venivano eletti dai membri delle gentes, e la loro autorità era perciò fortemente condizionata da un’aristocrazia che, grazie alla ricchezza economica rappresentata dai patrimoni terrieri e dal bestiame, manteneva un ruolo di primo piano nella società romana.

Patrizi e plebei 

Nelle sue funzioni pubbliche il re era assistito dal senato (dal latino senex, “anziano”), un’assemblea composta da capifamiglia (patres) aristocratici. Essi erano una minoranza della popolazione e costituivano la classe dei patrizi (cioè appunto dei patres delle varie familiae aristocratiche). Il resto della popolazione, la plebe (da plebs, “moltitudine”, “popolo”), era invece formato da piccoli proprietari terrieri, lavoratori, artigiani, mercanti e stranieri. Tutti costoro erano liberi, ma esclusi dalle cariche politiche e privi del diritto di partecipare alle riunioni del senato.
Per cercare di sfuggire alle condizioni di estrema povertà in cui vivevano, molti plebei si mettevano al servizio dei patrizi in qualità di clienti (clientes, termine che deriva dall’etrusco clan, “ragazzo”, “schiavo”). I clienti mantenevano la propria libertà personale, ma si sottomettevano ai loro padroni (patroni) giurando fedeltà, lavorando gratuitamente per loro, combattendo nelle contese con altri patrizi e appoggiandoli nelle assemblee politiche (come clienti, infatti, erano considerati membri delle familiae e avevano perciò diritto di voto, pur non essendo nobili). In cambio, i patroni assicuravano ai clienti donazioni di denaro, la possibilità di coltivare parte delle loro terre e la protezione dalle angherie degli altri patrizi. In mancanza di leggi scritte, la risoluzione di liti e controversie era infatti assegnata ai pontèfici, sacerdoti custodi delle leggi e appartenenti alle famiglie patrizie: senza l’appoggio di un ricco patrono sarebbe stato impossibile, per un plebeo, ottenere giustizia.
Completamente privi di diritti politici erano invece gli schiavi, che in epoca monarchica erano presenti a Roma in numero limitato. Si trattava di plebei che non erano riusciti a pagare i debiti contratti con i patrizi e che avevano perciò perduto la libertà personale. Nei secoli seguenti, con l’estensione dei domini romani, il numero degli schiavi sarebbe aumentato sensibilmente grazie alla cattura dei prigionieri di guerra.

L’esercito e i comizi curiati 

Il potere dei patrizi si fondava, oltre che sulla ricchezza economica, sul ruolo che svolgevano nell’esercito (la legione, da legere, “scegliere”, “arruolare”, termine indicante la leva degli uomini adatti alle armi), da cui erano esclusi i plebei.
I soldati erano inquadrati nella legione in base all’appartenenza alle tre tribù e alle trenta curie in cui era suddivisa la popolazione patrizia. A sua volta, ogni curia era composta da dieci gentes. Ogni tribù forniva cento cavalieri e un migliaio di fanti. In totale, dunque, in questo periodo i Romani potevano contare su circa 3000 fanti e 300 cavalieri.
Sull’ordinamento dell’esercito si basavano anche le assemblee politiche, i comizi curiati. Il termine “comizio” deriva dalle parole latine cum e ire, “andare insieme”, e indicava in origine il luogo, situato alle pendici del Campidoglio, adibito alle adunanze popolari. Essi avevano il compito di approvare le proposte di legge formulate dal re. Essendo formate dai membri delle tribù, che raccoglievano solo la popolazione gentilizia, alle assemblee partecipavano soltanto i patrizi, mentre i plebei ne erano esclusi.

L’ORGANIZZAZIONE POLITICA DURANTE LA MONARCHIA


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Le riforme a favore dei plebei

Nel VI secolo a.C., con lo sviluppo dell’artigianato e l’incremento dei commerci, molti plebei e molti mercanti provenienti dall’Etruria ebbero la possibilità di arricchirsi. Di conseguenza, essi pretesero il riconoscimento dei diritti politici e la tutela dei loro interessi economici. Queste rivendicazioni furono appoggiate dai re di origine etrusca. Sul modello delle póleis della Magna Grecia, Servio Tullio permise l’arruolamento di tutti coloro che fossero in grado di pagarsi un’armatura, indipendentemente dalle origini patrizie. Il numero dei soldati raddoppiò, arrivando a 6000 fanti e 600 cavalieri, divisi in 60 centurie da 100 soldati e 10 cavalieri ciascuna. Chi non aveva un reddito sufficiente a comprare le armi o a mantenere un cavallo rimaneva escluso, ma la riforma rappresentò comunque una limitazione dei privilegi dei patrizi: introducendo per la prima volta il criterio del censo (la ricchezza personale) per l’arruolamento, i plebei più ricchi poterono entrare nelle file dell’esercito, prima riservate ai soli patrizi.
In questo periodo, inoltre, Roma conquistò i territori della città di Alba Longa e le nuove terre furono distribuite tra tutta la popolazione, compresi gli artigiani e i mercanti stranieri immigrati a Roma, cui Servio Tullio estese la cittadinanza romana.
Le antiche suddivisioni amministrative basate sulle tribù gentilizie non avevano ormai più fondamento.
La città fu dunque divisa in nuove tribù territoriali (4 urbane e 16 rustiche, comprendenti le campagne intorno a Roma). All’interno delle curie, e quindi dei comizi curiati, potevano ora entrare anche individui non appartenenti alle famiglie patrizie o alle loro clientele politiche.

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La fine della monarchia e il consolato

Le riforme volute da Servio Tullio accrebbero l’importanza della plebe nella società romana, ormai parte a pieno titolo sia dell’esercito, sia delle assemblee politiche. Fu probabilmente per reazione a queste trasformazioni che le famiglie patrizie, temendo il venir meno dei loro privilegi, si coalizzarono per destituire i sovrani etruschi e per riaffermare il loro potere.
Verso la fine del VI secolo a.C., del resto, l’egemonia degli Etruschi sull’Italia centrale entrò in una fase di declino, di cui i popoli latini approfittarono per uscire dalla loro sfera di influenza. Nel 510 a.C. l’esercito etrusco fu sconfitto ad Ariccia da una lega formata dalle città latine, perdendo così il controllo del Lazio. In questo contesto, anche Roma si liberò dalla supremazia etrusca: secondo la tradizione, nel 509 a.C. i patrizi romani scacciarono l’ultimo re, Tarquinio il Superbo, e istituirono una repubblica aristocratica.
Le funzioni del re furono affidate a due consoli, entrambi patrizi, mentre i plebei furono esclusi da tutte le cariche pubbliche. Il ruolo dei consoli non era dunque dissimile da quello esercitato fino ad allora dai re, e prevedeva il controllo del potere politico e militare, l’amministrazione della giustizia e il compito di presiedere le cerimonie religiose. A differenza dei re, tuttavia, i consoli restavano in carica soltanto un anno: la durata limitata e la collegialità del loro incarico garantiva la repubblica romana dal rischio che il potere tornasse nelle mani di un solo uomo.

Il senato patrizio 

Per scongiurare questa eventualità, fino alla metà del V secolo a.C. i patrizi esercitarono un rigido controllo su tutte le magistrature e imposero le loro scelte nella vita politica romana attraverso l’attività legislativa del senato. Al senato spettava la facoltà di formulare le proposte di legge e prendere le decisioni più importanti sulla società, l’economia, la politica estera e i culti religiosi della città.
Nei primi secoli era composto da 300 patres aristocratici e vi erano ammessi i consoli che avevano concluso il loro incarico e alcuni membri delle classi più ricche, chiamati conscripti. Il senato ebbe a lungo un’influenza politica determinante, maggiore di quella dei consoli. A differenza del consolato, infatti, la carica senatoriale non era temporanea ma durava a vita.
I senatori dovevano vivere modestamente, senza ostentare la propria ricchezza e mantenendo uno stile di vita morigerato; in caso contrario potevano essere espulsi dall’assemblea. Non potevano impegnarsi nelle attività mercantili, sia perché, come tutte le attività manuali, erano considerate disonorevoli, sia per non esporre il patrimonio familiare ai rischi e alle incertezze dei commerci: il senato era un’istituzione fondamentale per la solidità dello Stato, che non doveva essere indebolita dalle eventuali difficoltà economiche dei suoi membri.

DOSSIER LETTERATURA  Le prime iscrizioni in latino

Il cippo del Foro romano definito lapis niger.

All’epoca monarchica risalgono le prime forme di scrittura rinvenute nella città di Roma. Uno dei più antichi testi in lingua latina finora ritrovati fu inciso sui quattro lati del cippo del Foro romano, ai piedi del colle Palatino. Poiché fu trovato sotto un piano coperto da lastre di marmo scuro, il cippo fu definito lapis niger (“pietra nera”). Scritta in un alfabeto latino molto antico, rielaborazione di quello etrusco, l’iscrizione risale agli inizi del VI secolo a.C. ed è di difficile interpretazione, oltre che incompleta, dal momento che il blocco di pietra su cui fu incisa è danneggiato. Il testo riportava forse una prescrizione religiosa, che vietava l’accesso a un’area sacra, secondo alcune interpretazioni la tomba del mitico re Romolo. 

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I comizi centuriati 

Il predominio politico dei patrizi si esprimeva anche attraverso la loro influenza sui comizi centuriati, una nuova assemblea che, oltre ad avere il compito di approvare o respingere le proposte di legge dei consoli e del senato, eleggeva le magistrature più importanti e in alcuni casi svolgeva anche funzioni giudiziarie. I comizi centuriati furono istituiti nel corso del V secolo come reazione alla riforma dell’esercito attuata nei decenni precedenti da Servio Tullio. La suddivisione territoriale dei comizi curiati aveva infatti limitato i privilegi aristocratici, mentre con questa nuova assemblea i patrizi si riappropriarono della facoltà di controllare il governo della città.
La popolazione romana fu divisa in cinque classi di censo e organizzata in 193 centurie dell’esercito. La prima classe, in cui rientravano gli individui con reddito annuale di almeno 100 000 assi (l’asse di bronzo era l’unità monetaria utilizzata al tempo), era composta da 18 centurie di cavalieri (equites) e 80 centurie di fanti (pedites); a queste si aggiungevano 2 centurie ausiliarie di fabbri e falegnami, che non portavano armi ed erano addetti al funzionamento delle macchine da guerra. Seguivano poi altre quattro classi, per un totale di 90 centurie di fanti, divise in base al reddito dei loro membri e al tipo di armi che potevano procurarsi. La prima di queste aveva un equipaggiamento completo, con corazza e scudo; l’ultima era dotata solo di un’asta e del gladio (talvolta nemmeno di questo), la spada corta tipica del soldato romano. Alle centurie di fanti erano aggregate anche 3 centurie ausiliarie, composte da trombettieri e inservienti. Vi era infine una classe di individui privi di reddito, i proletarii, così chiamati perché non possedevano altro bene che i loro figli. Essi erano esclusi sia dall’esercito, sia dalle assemblee politiche. Soltanto in casi di grave pericolo per la città potevano essere equipaggiati a spese dello Stato e chiamati alle armi.

Le disuguaglianze nei comizi 

Sebbene il termine “centuria” indicasse in origine, nell’organizzazione dell’esercito di epoca monarchica, formazioni effettivamente composte da cento uomini, nei comizi centuriati i membri di ogni centuria aumentarono in relazione all’incremento demografico che interessò la città. L’aumento riguardò soprattutto le classi inferiori, al punto che nel I secolo a.C. una sola centuria delle classi inferiori conteneva più cittadini di tutte le centurie della prima classe. Tuttavia, la plebe aveva un peso nettamente inferiore rispetto alla sua dimensione numerica, perché le votazioni non avvenivano per testa (cioè per voto individuale) ma per centurie. Il totale dei voti nei comizi corrispondeva alle 193 centurie (i proletarii, infatti, erano esclusi dalle assemblee); poiché le centurie che rappresentavano gli interessi dei patrizi (prima classe) erano 100, esse avevano sempre la maggioranza rispetto alle 93 dei plebei, pur essendo composte da un numero inferiore di individui. Di conseguenza, era impossibile che i plebei potessero essere eletti alle magistrature più importanti della città.

Le lotte tra patrizi e plebei 

La supremazia dei patrizi nei comizi centuriati era rafforzata dal fatto che la partecipazione dei plebei alla vita politica era difficile o addirittura impossibile, poiché erano impegnati quotidianamente nelle attività lavorative (a differenza dei patrizi che vivevano della rendita dei propri patrimoni senza esercitare direttamente alcun mestiere). Un discorso analogo vale per il senato e le magistrature più importanti, che, non essendo retribuite, erano di fatto riservate alle classi più ricche.
Le assemblee rimanevano così nel pieno controllo dei patrizi, che riuscivano a pilotare le votazioni anche attraverso i propri clienti o con elargizioni di denaro volte a corrompere i membri delle classi inferiori affinché sostenessero la loro candidatura politica.
Esclusi di diritto e di fatto dal governo ma coinvolti nell’onere di difendere la città attraverso il servizio militare, i plebei – in particolare quelli che si erano arricchiti esercitando i commerci o grazie all’artigianato – pretendevano che il loro ruolo fosse riconosciuto anche nelle assemblee politiche e nell’assegnazione delle cariche pubbliche.
Alle richieste politiche si aggiungevano inoltre le rivendicazioni sociali della parte più povera della plebe, le cui condizioni di vita erano peggiorate anche a causa delle guerre che, come vedremo, in quel periodo impegnavano i Romani contro le popolazioni confinanti. Per combattere, infatti, i contadini dovevano abbandonare i campi e gli artigiani le botteghe, con grave danno economico delle loro attività. I piccoli proprietari terrieri erano in alcuni casi costretti a diventare schiavi per pagare i debiti ai grandi proprietari terrieri patrizi, che invece si arricchivano attraverso la guerra e la conquista militare di nuovi territori.

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L’ORGANIZZAZIONE POLITICA DURANTE LA REPUBBLICA


L’Aventino e le nuove assemblee 

Come estremo atto di protesta contro questa situazione, nel 494 a.C. i plebei si ritirarono sul colle Aventino, interrompendo ogni attività e rifiutandosi di partecipare a nuove spedizioni militari. La secessione pose in grave difficoltà i patrizi, che, attraverso la mediazione del console Menenio Agrippa, furono costretti ad alcune importanti concessioni. I plebei ottennero in particolare il riconoscimento di un nuova magistratura, il tribunato della plebe. Si trattava di una carica collegiale, composta da dieci tribuni. Eletti annualmente dalla plebe, i tribuni erano sacrosancti, cioè sacri e inviolabili: nessun magistrato poteva chiederne l’arresto e chiunque avesse attentato alla loro incolumità sarebbe stato condannato a morte. Tra i loro compiti più importanti vi era la difesa dei plebei dai soprusi dei patrizi e tra i loro poteri il diritto di veto sulle leggi proposte dai consoli (ossia la possibilità di bloccarle se ritenute sfavorevoli per la plebe). La loro autorità era però limitata al territorio della città, mentre non si esercitava nell’ambito di campagne militari che portavano l’esercito lontano da Roma.
L’istituzione del tribunato della plebe si accompagnò alla creazione di una nuova assemblea politica, il concilium plebis, che eleggeva i tribuni. Vi partecipavano soltanto i plebei, raccolti nelle tribù territoriali in cui era suddivisa Roma. Sebbene i loro poteri fossero limitati, i concilia plebis, non prevedendo un legame tra partecipazione politica e censo, eliminavano i privilegi legati alla ricchezza.
Dal momento che ogni tribù esprimeva un solo voto, i concilia plebis videro la supremazia delle tribù rustiche, che erano più numerose (e quindi esprimevano più voti) delle quattro tribù cittadine, molto più popolate. Fu così che queste assemblee finirono spesso per favorire gli interessi dei ricchi proprietari terrieri delle campagne intorno alla città, i quali potevano influenzare le elezioni attraverso i loro clienti plebei.

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Le leggi delle Dodici tavole 

Le riforme introdotte non furono sufficienti a placare le tensioni sociali. Tra il 451 e il 449 a.C., quindi, una commissione di dieci esperti di diritto (i decemviri), preparò un codice di leggi scritte basandosi sul modello delle legislazioni elleniche del tempo. Queste norme furono chiamate leggi delle Dodici tavole ( LABORATORIO DELLE FONTI, p. 272), perché incise su dodici tavole di bronzo ed esposte permanentemente nel Foro di Roma, in modo che tutti i cittadini ne fossero a conoscenza.
Come era già avvenuto nelle civiltà orientali e in Grecia, la stesura di leggi scritte limitò la possibilità che venissero interpretate a favore degli aristocratici, ma non eliminò le disuguaglianze e i privilegi che favorivano le classi sociali più elevate. I legislatori, del resto, erano in prevalenza patrizi, da sempre custodi delle antiche tradizioni giuridiche latine: con la stesura del codice si limitarono a sistemare e a mettere per iscritto norme e consuetudini già esistenti, senza modificarle. Gli stessi promotori delle riforme, inoltre, erano i plebei più ricchi, interessati a ottenere l’uguaglianza politica con i patrizi e non a tutelare i diritti degli strati sociali più poveri. Per esempio, non fu eliminata la legge che prevedeva la schiavitù per debiti, né il divieto di matrimoni misti tra patrizi e plebei. Molto più importante, da questo punto di vista, fu la promulgazione della lex Canuleia (dal nome del tribuno della plebe che la propose, Gaio Canuleio), avvenuta nel 445 a.C. Essa concesse la possibilità di celebrare matrimoni misti tra patrizi e plebei, favorendo la mobilità sociale dei plebei più ricchi, che, stringendo relazioni di parentela con le famiglie nobili, poterono accedere alle più alte cariche pubbliche.

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Laboratorio DELLE FONTI I TESTI

Leggi arcaiche e norme moderne

Accanto a norme molto arretrate, espressione della tradizione giuridica arcaica, alcune leggi riportate nelle Dodici tavole stabilivano importanti novità, togliendo spazio alle vendette private e attribuendo allo Stato la funzione di esercitare la giustizia. 

Tavola III, 5-6. Se un debitore non ha ancora pagato i suoi creditori dopo 60 giorni, sarà portato al mercato per essere venduto come schiavo. Se per 3 volte non si sarà riusciti a venderlo, verrà tagliato a pezzi e i creditori ne porteranno via un pezzo ciascuno.
Tavola VIII, 1. Anche se le XII tavole stabiliscono la pena di morte in pochissimi casi, pure ritennero di doverla stabilire in questi: se qualcuno avesse offeso pubblicamente o avesse composto una poesia che fosse di infamia e vergogna per altri.
Tavola VIII, 9. Se qualcuno pascola in un luogo abusivo o ruba il raccolto, verrà impiccato se è un adulto, oppure verrà frustato e multato se è un giovane.
Tavola IX, 6. È vietato uccidere qualsiasi uomo, se non è stato prima giudicato e condannato dal tribunale.” 


  • Le leggi delle Dodici tavole stabilivano la pena di morte per chi avesse pubblicamente offeso qualcuno. Perché, secondo te, il rispetto era considerato così importante?
  • Perché, secondo te, chi pascolava in un terreno non suo o chi rubava il raccolto era punito con la morte?  

Le magistrature romane 

Le novità introdotte con le riforme delle assemblee comportarono la necessità di riequilibrare i rapporti di potere all’interno dello Stato romano attraverso la definizione di nuove magistrature.
Per evitare abusi di potere, le magistrature romane (dal latino magister, “capo”) erano collegiali e temporanee, di durata generalmente annuale, quasi sempre assegnate ai cittadini di censo elevato. Ricoprire le varie magistrature equivaleva a percorrere altrettanti gradini della carriera politica, il cosiddetto cursus honorum, riservato a chi aveva svolto il servizio militare come ufficiale. La magistratura più importante era il consolato: i consoli erano le massime autorità, convocavano i comizi, controllavano la corretta applicazione delle leggi votate dal senato e guidavano l’esercito in guerra. 
Al di sotto dei consoli vi erano gli edìli, istituiti nel 449 a.C.: eletti dal concilium plebis, erano in principio solo plebei, ma verso la fine del IV secolo furono affiancati dagli edili curùli, scelti tra i patrizi. Controllavano l’amministrazione della città, l’ordine pubblico, la costruzione degli edifici, la manutenzione delle strade, l’approvvigionamento dei mercati pubblici, l’organizzazione degli spettacoli e delle feste religiose.
Dal 421 a.C., anche i plebei poterono diventare questori, magistrati minori che si occupavano dell’amministrazione delle finanze statali e della riscossione delle tasse. Insieme agli edili curuli, i questori erano eletti dai comitia populi tributa, una nuova assemblea istituita nella seconda metà del V se­colo a.C. sul modello e con le stesse modalità di funzionamento dei concilia plebis, ma alla quale partecipavano tutti i cittadini romani – sia patrizi sia plebei – assegnati alle tribù territoriali.
Dal 443 a.C. erano invece stati istituiti i censori, eletti ogni cinque anni dai comizi centuriati e in carica per 18 mesi. Essi svolgevano un’indagine sui possedimenti dei Romani al fine di preparare il censimento, ossia l’elenco di tutti cittadini organizzato per tribù territoriali e classe di reddito di appartenenza. In base al reddito, ogni cittadino avrebbe avuto un ruolo specifico nell’esercito e avrebbe pagato una determinata somma in tasse. I censori avevano grande autorità, motivo per cui la loro carica era riservata ai patrizi. Potendo spostare un cittadino da una classe all’altra in base al suo patrimonio, infatti, essi controllavano di fatto la formazione delle classi di censo, delle assemblee politiche e dell’esercito. Potevano inoltre escludere un cittadino dalla vita politica in caso di comportamenti disdicevoli. Infine, organizzavano i lavori pubblici e distribuivano le terre conquistate in guerra. Insieme a queste magistrature fu prevista una carica straordinaria, la dittatura, che veniva istituita dai consoli su indicazione del senato. La sua durata era limitata a sei mesi, corrispondenti al periodo in cui si svolgevano le campagne militari, e veniva istituita solo in casi di estrema necessità, per esempio qualora la città fosse minacciata da gravi pericoli, interni o esterni. Durante i sei mesi in cui restava in carica, il dittatore assumeva il pieno controllo dello Stato.

LE MAGISTRATURE DELLA REPUBBLICA


GUIDA ALLO STUDIO

  • Quali conseguenze comportò la caduta della monarchia nella lotta tra patrizi e plebei? 
  • Quali erano le principali istituzioni politiche all’inizio dell’età repubblicana? 
  • Quali trasformazioni seguirono alla vicenda dell’Aventino? 
  • Quali erano le principali magistrature romane?

Il nuovo Storia&Geo - volume 1
Il nuovo Storia&Geo - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana