L’antropizzazione dell’ambiente
La ricchezza degli ecosistemi non è però inesauribile: l’impronta ecologica (▶ FOCUS), cioè l’ipotetica superficie di terra e di mare necessaria per rigenerare le risorse consumate da una popolazione e riassorbire i rifiuti prodotti, in passato non ha mai raggiunto situazioni di grave squilibrio, mentre oggi le condizioni sono così problematiche che il pianeta è soggetto a un pericoloso impatto ambientale. L’antropizzazione dell’ambiente – ossia le trasformazioni che l’uomo produce sugli elementi naturali attraverso il disboscamento, la costruzione di centri abitati, di impianti produttivi, di vie di comunicazione – può generare situazioni di grave rischio. Queste si concretizzano quando gli effetti delle attività umane superano la capacità di carico degli ecosistemi, cioè la possibilità dell’ambiente di rigenerare le risorse consumate dalla popolazione umana.
Condizioni di relativo squilibrio tra attività umane e risorse ambientali si sono verificate anche in passato. Le tribù nomadi di epoca neolitica, per esempio, erano costrette a continui spostamenti perché lo sfruttamento intensivo di un territorio ne esauriva le risorse. Analogamente, il declino delle civiltà fluviali mesopotamiche fu causato anche dagli effetti dell’intensa attività agricola: l’irrigazione, praticata con le acque dei fiumi ricche di sali, provocò un’eccessiva salinizzazione dei terreni, che ne ridusse drasticamente la fertilità. Da qualche decennio, tuttavia, lo sfruttamento degli ecosistemi è cresciuto enormemente, mettendo a rischio la capacità dell’ambiente di rigenerare le risorse necessarie alla vita. Il rapporto tra popolazione e risorse, mantenutosi per millenni entro limiti fisiologici, sembra oggi fuori controllo (▶ DOSSIER, p. 127).