2 - L’organizzazione dell’impero carolingio

Unità 12 LA RINASCITA CAROLINGIA E IL FEUDALESIMO >> Capitolo 33 – Carlo Magno e il nuovo impero

2. L’organizzazione dell’impero carolingio

La difficile amministrazione di territori diversi tra loro

L’ampiezza dei territori conquistati da Carlo Magno rese necessaria una riorganizzazione dello Stato. La struttura piramidale delle relazioni vassallatiche, caratterizzata da un’ampia autonomia dei poteri locali, rischiava infatti di rendere troppo fragile il potere centrale del sovrano, impegnato nel difficile compito di governare popolazioni distanti tra loro ed eredi di tradizioni culturali molto diverse.
Il regno franco, come del resto era accaduto a tutti gli altri regni romano-germanici sorti dopo il crollo dell’impero romano d’Occidente, non era in grado, per ragioni economiche e finanziarie e per questioni di personale tecnico, di mantenere un esteso e costoso apparato burocratico. Nemmeno i tentativi di assegnare l’amministrazione statale alla popolazione di origine romana, attuati per esempio in Italia dai sovrani ostrogoti, avevano conferito la necessaria solidità alle nuove compagini statali che risentivano dunque dell’assenza di un personale adeguatamente preparato.

Contee e marche: la suddivisione delle province

Le soluzioni cui Carlo Magno ricorse per far funzionare gli apparati fondamentali del regno, come l’amministrazione della giustizia, la riscossione dei tributi, l’arruolamento dell’esercito e il suo approvvigionamento, consistevano da un lato nell’utilizzo di legami personali di fedeltà analoghi a quelli che caratterizzavano il sistema vassallatico, dall’altro nella suddivisione del regno in due diverse tipologie di province, contee e marche, affidate a funzionari imperiali. Le prime erano assegnate ai conti (dal latino comites, “compagni”); le seconde (il cui nome deriva dal vocabolo di origine germanica marka, “segno di confine”) erano attribuite ai marchesi ed erano quelle terre che, situate ai margini dell’impero e sottoposte di conseguenza alle minacce di invasioni straniere o di ribellioni, svolgevano una cruciale funzione di presidio dei confini.
Conti e marchesi erano i comandanti militari delle province e avevano il compito di radunare l’esercito quando l’imperatore lo richiedeva. Essi amministravano inoltre la giustizia, incassavano le tasse e le multe che gli abitanti delle province erano tenuti a pagare. Analoghe a queste cariche erano quelle dei duchi, presenti per esempio nei territori italici un tempo sottomessi dai Longobardi o tra i Sassoni della Germania, dove la struttura amministrativa preesistente fu in parte mantenuta dai sovrani carolingi.
La parziale sovrapposizione di questa rete di funzionari con il sistema vassallatico consistette nel tentativo, attuato da Carlo Magno, di legare a sé conti e marchesi attraverso la concessione di benefici: i conti diventavano suoi vassalli giurandogli fedeltà e impegnandosi non solo a combattere per lui, ma anche ad amministrare la provincia che era loro assegnata (e che di solito non coincideva con le terre concesse in beneficio); in cambio del loro servizio, questi “funzionari” ottenevano diritti di sfruttamento dell’area da loro governata, come per esempio il permesso di trattenere le ricchezze incassate durante la carica, un modello amministrativo simile a quello che per qualche tempo aveva seguito anche Roma nel periodo della sua espansione.

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I funzionari dell’imperatore: i missi dominici

Più complesso era il compito di amministrare le terre, fonte primaria di guadagno. Allo scopo di un controllo più efficiente da questo punto di vista, lo Stato aveva a disposizione anche un altro ordine di funzionari, inviati personalmente dall’imperatore per controllare le attività dei conti e dei marchesi: i missi dominici (“gli inviati del signore”, cioè del “padrone delle terre”, il re). Si trattava generalmente di una coppia di funzionari, un nobile e un ecclesiastico, che avevano il compito di controllare nel territorio che le leggi emanate dai sovrani fossero rispettate; il loro ruolo di controllo era capillare e i loro viaggi erano una cronaca minuziosa relativa al regno, tanto che alla fine di ciascuna visita compilavano relazioni dettagliate di quanto avevano osservato. Il ruolo dei missi dominici risultò fondamentale per garantire l’unità dell’organizzazione amministrativa dell’impero: conti e marchesi godevano di una notevole autonomia e l’assenza di controlli diretti da parte del sovrano avrebbe potuto alimentare pericolose tendenze autonomistiche. Le visite degli inviati del re erano dunque un efficace sistema per mantenere un contatto frequente tra l’autorità del sovrano e le periferie dell’impero.

L’autorità del re e la sua espressione

I re carolingi esercitavano la loro influenza anche sulle autorità ecclesiastiche, come vescovi e abati, scelte direttamente dal sovrano, le quali controllavano grandi estensioni territoriali e a cui spesso erano affidate anche funzioni amministrative o missioni diplomatiche. Periodicamente poi il re convocava un’assemblea di tutti i nobili e gli ecclesiastici (conti, marchesi, missi dominici e vescovi), il placito generale, in cui si discutevano questioni politiche, amministrative e religiose. In queste occasioni venivano promulgate le leggi – i capitolari – valide in tutto l’impero.

La riforma monetaria

L’opera di unificazione e riorganizzazione dell’impero venne affrontata da Carlo Magno anche in ambito economico. Egli continuò le riforme monetarie iniziate dal padre e le estese anche ai territori della penisola italica sottratti ai Longobardi.
La riforma più importante consistette nell’introduzione del monometallismo argenteo, vale a dire di un sistema monetario in cui l’unica moneta legale in circolazione era il denaro d’argento. Esso aveva un valore inferiore alle monete d’oro in uso nell’impero bizantino e, sebbene l’economia occidentale registrasse uno scarso volume e valore degli scambi, rappresentava spesso una moneta poco adatta a transazioni di valore più elevato, poiché non vi erano multipli del denaro ed era impossibile contare realmente le cifre molto alte ( Passato&presente, p. 267). Per questo motivo, per determinare il prezzo delle merci più costose oppure di interi patrimoni vennero inventate delle “monete di conto” come la lira, multipli del denaro non corrispondenti a monete realmente in circolazione. La moneta argentea dunque mostrava una fondamentale debolezza dell’economia; allo stesso tempo, però, essa ebbe una notevole importanza culturale, poiché costituì un fattore di identità per l’impero di Carlo Magno.

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passato&presente

Una moneta unica molti secoli prima dell’euro

Grazie alle riforme monetarie di Carlo Magno, l’Europa ebbe una moneta unica più di mille anni prima dell’introduzione dell’euro: la lira.
Essa in realtà non era in origine una moneta vera e propria, ma un’unità di peso. I Romani la chiamavano “libbra” e corrispondeva a circa 325 grammi; con la riforma monetaria introdotta da Carlo Magno si stabilì che ogni libbra d’argento equivalesse a 240 denari, le uniche monete previste dal nuovo sistema carolingio.
Dal momento che non fu stabilito alcun multiplo del denaro, per indicare il valore di beni particolarmente costosi si doveva far uso di cifre molto alte; di conseguenza, nell’uso quotidiano si affermò presto l’abitudine di contare i denari ricorrendo a multipli materialmente inesistenti. Poiché da una libbra d’argento si ricavavano 240 denari, la “libbra” – e poi la “lira” – divenne multiplo del denaro secondo la seguente equivalenza: 1 lira = 20 soldi = 240 denari.
La lira nacque insomma sotto forma di «moneta-fantasma», come l’ha definita lo storico dell’economia Carlo Cipolla, cioè come un’utile “moneta di conto” per stimare patrimoni di una certa entità, e tale sarebbe rimasta per gran parte del Medioevo e dell’età moderna. Nel XVI secolo il “computo a lire” fu ufficialmente introdotto in Piemonte – lo Stato che avrebbe realizzato l’unificazione della penisola –, mentre la svolta decisiva giunse con Napoleone, le cui riforme monetarie determinarono la scomparsa della lira in Francia ma la sua introduzione in Italia, questa volta come moneta realmente esistente e su base decimale. Nel 1862, all’indomani dell’Unità d’Italia (1861), la lira divenne la valuta ufficiale del regno, e tale rimase anche sotto la Repubblica nata dopo la Seconda guerra mondiale.
L’autonomia monetaria degli Stati europei è gradualmente venuta meno in seguito alla costituzione di un sistema monetario comune, processo che si è concluso nel 2002, quando 12 Stati dell’Unione europea hanno adottato l’euro, oggi in vigore in 19 Paesi (la cosiddetta Eurozona). L’Europa, 1200 anni dopo Carlo Magno, ha nuovamente una moneta unica.

Terre, mari, idee - volume 2
Terre, mari, idee - volume 2
Da Roma imperiale all’anno Mille