4 - Il secondo triumvirato

Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 20 – Verso la fine della repubblica

4. Il secondo triumvirato

L’assassinio di Cesare gettò Roma in una fase di grave incertezza politica. I cesaricidi non potevano contare sul sostegno della popolazione, fedele alla memoria del dittatore, e non avevano un programma politico definito; dall’altra parte, però, nemmeno i suoi più stretti collaboratori – per primi Marco Emilio Lepido e Marco Antonio – erano sicuri di riuscire a prendere il posto di Cesare, sia per la difficoltà di eguagliare il suo prestigio personale, sia per il rischio di apparire degli usurpatori.

L’ascesa di Ottaviano e la guerra di Modena

Le due fazioni cercarono un accordo che non facesse precipitare la situazione ed evitasse il caos sociale e istituzionale. La mediazione prevedeva da una parte l’amnistia per gli assassini di Cesare, dall’altra la conferma di tutti i provvedimenti da lui emanati. Uno dei più convinti assertori della necessità di giungere a una pacificazione, anche allo scopo di fermare l’ascesa di Marco Antonio – che considerava il maggiore pericolo per lo Stato –, fu Cicerone. I cesariani, però, attendevano solo l’occasione propizia per ribaltare la situazione. Con un’abile mossa propagandistica, Antonio, che si era fatto consegnare tutta la documentazione del dittatore presentandosi come il suo più credibile erede, lesse pubblicamente il testamento di Cesare. Con sorpresa dello stesso Antonio, in assenza di eredi diretti Cesare nominava suo successore il pronipote, il diciannovenne Caio Ottavio, adottato come figlio nel 45 a.C. (la nonna del giovane, Giulia minore, era sorella di Cesare).
Il documento conteneva inoltre, tra le ultime volontà del defunto, l’ordine di elargire a ogni cittadino romano una somma notevole (circa 300 sesterzi). Questo particolare, che confermava la magnanimità di Cesare agli occhi della plebe, esacerbò la rabbia della popolazione che si abbandonò ad azioni violente contro i congiurati e le loro proprietà. Bruto e Cassio furono costretti a fuggire in Grecia, dove riorganizzarono le proprie forze in vista dello scontro con i sostenitori di Cesare. In questo clima il senato, ormai in gran parte asservito al partito dei cesariani, assegnò il comando dell’esercito a questi ultimi, che potevano perciò contare anche sulla forza delle legioni.
Invece di unirsi per combattere gli avversari, però, i cesariani entrarono in conflitto per spartirsi il potere. Marco Antonio rifiutò di consegnare l’eredità di Cesare, come previsto dal testamento, a Caio Ottavio. Questi, dal canto suo, assunse il nome di Caio Giulio Cesare Ottaviano per accreditare presso l’esercito e la popolazione la legittimità della sua successione al dittatore, e improntò la propria azione politica all’ottenimento di un consenso il più possibile ampio. Attraverso donazioni di denaro e la promessa di riforme sociali egli si guadagnò il supporto politico della plebe di Roma e degli Italici.
Per stringere a sé i più fedeli seguaci di Cesare e i suoi veterani, inoltre, accusò di tradimento i cesariani che avevano accettato l’amnistia degli assassini del suo padre adottivo, che giurò solennemente di vendicare. Di fronte alla sua determinazione, il senato si risolse ad assicurargli il sostegno, con una conseguente alleanza che spinse Antonio in un angolo. Egli infatti era stato nominato governatore della Macedonia, ma le legioni stanziate in quella regione passarono dalla parte dei ribelli cesaricidi, guidati da Bruto e Cassio, privandolo così del sostegno militare. A Roma, nel frattempo, Cicerone lo attaccò in modo molto veemente in senato, dove pronunciò le orazioni chiamate Filippiche (in riferimento a quelle che l’oratore ateniese Demostene, alla metà del IV secolo a.C., aveva rivolto contro il re macedone Filippo II). Su consiglio dello stesso Cicerone, il senato nominò Ottaviano senatore e gli affidò la carica di propretore, riconoscendo così la legittimità dell’esercito privato che egli si era procurato con le proprie disponibilità economiche.
Antonio si rese conto di non avere vie d’uscita. Proclamò pubblicamente la rinuncia all’incarico di governatore della Macedonia, in modo da poter essere eletto come comandante della Gallia cisalpina in sostituzione di Decimo Bruto Albino (uno dei congiurati), e trovarsi così più vicino a Roma. Quest’ultimo si rifiutò però di cedere il comando della provincia e si rifugiò nella città di Modena.
Antonio assediò la città durante la cosiddetta “guerra di Modena” (43 a.C.), ma il senato lo dichiarò nemico pubblico e inviò contro di lui le legioni regolari, alle quali si unì l’esercito raccolto da Ottaviano. Egli fuggì allora nella Gallia Narbonese, in attesa di rinforzi che avrebbero dovuto arrivare da Marco Emilio Lepido, l’altro principale esponente della fazione cesariana.

 >> pagina 397 

Il triumvirato “costituente”

Ottaviano decise a quel punto di servirsi delle proprie milizie per compiere un vero e proprio colpo di Stato: nell’agosto del 43 a.C. entrò a Roma in armi e impose la sua nomina a console – che in precedenza gli era stata negata perché non aveva compiuto il cursus honorum stabilito –, aiutato da un vuoto di potere causato dalla morte dei due consoli in carica, Irzio e Pansa. Fu abolita l’amnistia per i cesaricidi, che vennero proclamati ufficialmente nemici dello Stato. Tuttavia Ottaviano era ancora in una posizione precaria: Roma era sull’orlo di una nuova guerra civile, le truppe rimanevano fedeli alla memoria di Cesare e a lui mancava il supporto certo del senato. Egli dovette dunque cercare un accordo con gli altri contendenti, Lepido e Antonio, che nel frattempo si erano riuniti in Gallia, dove sconfissero Decimo Bruto: Ottaviano fece revocare l’editto che li aveva proclamati nemici della patria, trovando come punto di incontro l’antica militanza nelle file cesariane e la volontà di vendicarsi dei cesaricidi. Si formò così il secondo triumvirato. A differenza del primo, che era stato un patto personale e privato, privo di fondamento istituzionale, l’accordo tra Ottaviano, Antonio e Lepido ottenne un riconoscimento legale: fu infatti sancito da un plebiscito dei comizi tributi, che attribuì ai triumviri il potere consolare con l’incarico di riorganizzare lo Stato, motivo per cui viene in genere indicato come triumvirato “costituente”.
Alla veste legale conferita al triumvirato dal plebiscito faceva però riscontro un potere illimitato che, come nel caso della dittatura di Cesare, non era sottoposto al controllo delle altre istituzioni repubblicane. Per questo motivo, molti sostenitori dei cesaricidi preferirono fuggire per unirsi alle forze che Bruto e Cassio avevano raccolto in Grecia. I triumviri ripristinarono le liste di proscrizione contro gli oppositori (già a suo tempo impiegate da Silla, ma mai da Cesare), nelle quali vennero inserite anche personalità autorevoli come Cicerone, la cui colpa principale, più che il sostegno ai cesaricidi, era stata la strenua denuncia dell’ambizione e degli abusi di potere di Antonio; alla fine del 43 a.C., quest’ultimo lo fece uccidere dalle sue milizie.
Com’era avvenuto ai tempi di Silla, la strage degli oppositori fruttava ai suoi autori ingenti entrate economiche: grazie alla confisca dei beni dei proscritti, i triumviri raccolsero infatti le risorse necessarie per allestire l’esercito con cui combattere Bruto e Cassio. Delle confische approfittarono anche altri personaggi senza scrupoli, che speculando sulle vendite dei beni requisiti accumularono vasti patrimoni, utilizzati in seguito per accelerare la propria carriera politica. La repressione degli oppositori influì infine sugli equilibri politici dello Stato, determinando un vasto ricambio della classe dirigente. I senatori, i titolari delle magistrature e i comandanti dell’esercito, provenienti da una nobiltà romana ormai decimata dalle proscrizioni e dalla fuga di molti cesaricidi in Grecia, furono in gran parte sostituiti da nuovi individui originari della penisola italica e delle province.

 >> pagina 398 

La sconfitta dei cesaricidi e la spartizione delle province

Forti di un vasto sostegno politico e della potenza del loro esercito, nel 42 a.C. i triumviri attaccarono e sconfissero i cesaricidi a Filippi (sulle coste settentrionali della Grecia). Molti di quelli che erano sfuggiti alle proscrizioni furono uccisi e gli stessi Bruto e Cassio si tolsero la vita.
La Grecia e le regioni orientali furono riportate nuovamente sotto il controllo di Roma; i vincitori poterono quindi procedere a spartirsi le province, in un equilibrio di potere che sarebbe stato fondamentale per le vicende successive. Dopo aggiustamenti, ridefinizioni e nuovi accordi (l’ultimo dei quali a Brindisi nell’ottobre del 40 a.C.) si giunse a una divisione che sanciva notevoli differenze fra i triumviri.

  • Ottaviano ottenne il comando dell’Italia e delle province occidentali (quelle iberiche, ricche di miniere, che Ottaviano unì a Sicilia e Sardegna, dopo aver liquidato il pericolo rappresentato dalla presenza di Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno; la Gallia Transalpina e la Gallia Narbonese), che gli conferivano un prestigio superiore a quello dei colleghi e la possibilità di influenzare direttamente la plebe e il senato romano grazie al controllo delle legioni (ben 45, in totale), stanziate nei suoi territori, e alla possibilità di redistribuirne le terre ai veterani delle campagne militari recenti.
  • Ad Antonio fu affidato il governo delle province orientali (fino alla Cirenaica, la regione più orientale dell’odierna Libia), molto ambite per le loro ricchezze e per le possibilità di espansione territoriale nei vicini regni asiatici.
  • Lepido fu nominato governatore delle province centrali dell’Africa settentrionale, poco estese e meno ricche di quelle assegnate ai colleghi, ma comunque importanti per il controllo delle rotte marittime nel Mediterraneo.

Apparentemente il principale beneficiario dell’accordo sembrava Antonio, perché Ottaviano, pur favorito dalla vicinanza a Roma, doveva affrontare alcuni gravi problemi nei territori a lui assegnati. In primo luogo si trovò a fare i conti con la ribellione degli Italici, che si opposero all’assegnazione delle loro terre ai veterani dell’esercito, misura prevista dagli accordi fra i triumviri e necessaria a ricompensare le truppe che avevano combattuto i cesaricidi. Lo scontro, in verità, nascondeva il conflitto latente tra Ottaviano e Antonio, più volte sul punto di esplodere in guerra aperta. L’episodio più grave si ebbe nel 41-40 a.C., durante la cosiddetta “guerra di Perugia”: i piccoli proprietari terrieri dell’Umbria e della Toscana si ritenevano penalizzati dall’assegnazione delle terre ai veterani; sobillati e capeggiati da Lucio Antonio e dall’intrigante e attivissima Fulvia, rispettivamente fratello e moglie di Antonio, insorsero contro la divisione delle terre che si stava attuando. Ottaviano intervenne con la forza, espugnando e saccheggiando Perugia, dove si erano rifugiati gli insorti.
L’altro problema che Ottaviano dovette risolvere fu, come già accennato, la minaccia rappresentata da Sesto Pompeo, ultimo sopravvissuto tra i sostenitori dei cesaricidi. Amareggiato per non essere stato tenuto in considerazione negli accordi di Brindisi, Sesto si era impadronito della Corsica, della Sardegna e della Sicilia, dalle cui coste organizzava incursioni di tipo piratesco che colpivano in particolare i traffici marittimi romani. In un primo tempo Ottaviano e Antonio scesero a patti con Sesto Pompeo, al fine di ristabilire un flusso costante di rifornimenti a Roma, e gli assegnarono le tre isole maggiori e il Peloponneso. Ben presto però il patto si ruppe e si giunse allo scontro armato. Grazie all’eccellente preparazione del generale Marco Vipsanio Agrippa, comandante della flotta e fedelissimo di Ottaviano, a Mecenate, abile diplomatico, all’aiuto delle truppe di Lepido e al tradimento di Menas, ammiraglio di Sesto, Ottaviano sconfisse Sesto Pompeo nel 36 a.C. Le conseguenze di questa vittoria furono particolarmente significative: Sesto, fuggito in Oriente, fu catturato a Mileto nel 35 a.C. e venne giustiziato senza processo per ordine di Antonio; Lepido, che aveva chiesto di essere ricompensato del contributo alle operazioni militari con l’assegnazione della Sicilia, fu invece abbandonato dalle sue truppe ed estromesso dal triumvirato da Ottaviano che, tornato a Roma, fu accolto in trionfo e ricoperto di onori.

 >> pagina 399 

TESTIMONIANZE DELLA STORIA

I MILLE VOLTI DI CLEOPATRA

Storici, narratori, artisti (tra i quali Michelangelo) si sono spesso interrogati, dall’età romana imperiale a oggi, su quali fossero le fattezze di Cleopatra. Infatti ben poco ne sappiamo, anche se della sua bellezza si è favoleggiato. Di lei ci sono giunte quasi solo immagini su monete: una sessantina di tetradracme che ne riproducono il profilo, insolitamente (per questo tipo di documento) molto simile in tutte. Rappresentano il volto di una donna con naso adunco, bocca marcata e labbro inferiore sporgente. Dato che l’immagine non è quella di una donna nel fiore della sua bellezza, si è anche pensato che fossero opera di qualcuno che ne volesse deformare il profilo. Comunque su quel naso adunco (che probabilmente aveva ereditato dal padre ed è un po’ ricorrente tra i Tolomei) sono fiorite leggende: Blaise Pascal, poi ripreso da Voltaire (filosofi francesi del XVII e XVIII secolo), scrive che «se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata».



Malauguratamente della regina non si sono conservati busti o statue, anche se in alcuni musei ci sono delle copie che si ritiene riproducano la sua immagine. Il bassorilievo di arte egizia del periodo tolemaico conservato al Museo del Louvre (1) e il busto conservato nel museo berlinese (2) riproducono un’immagine che è certo la più vicina ai profili monetali, anche se sembra voler smentire tutte le deformazioni che su di lei sono state costruite. L’intenso ritratto che ne fa Michelangelo (3) ci riporta a una Cleopatra più umana e passionale, colta nell’attimo in cui, secondo la tradizione, si suicida facendosi mordere da un aspide.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana