Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 20 – Verso la fine della repubblica

La vittoria sul nemico orientale, che aveva impegnato le legioni romane per decenni, aumentò il prestigio e l’autorità di Pompeo. Con i poteri speciali conferitigli agli inizi della campagna in Oriente, mai assegnati prima a nessun uomo politico o comandante militare, egli ebbe la possibilità di imporre la propria volontà anche in patria: l’autorevolezza acquisita sul campo di battaglia, le ricchezze accumulate nelle guerre contro Mitridate e il sostegno dei popolari e dei cavalieri, guidati dal suo alleato Crasso, lo resero l’uomo più potente di Roma. Scavalcando l’autorità del senato, Pompeo diede un nuovo assetto politico all’Oriente ( carta), creando nuove province (compito che sarebbe spettato ai senatori) e affidando il governo dei regni che confinavano con i territori romani a sovrani che gli garantivano fedeltà.

La congiura di Catilina e il tentativo di mediazione di Cicerone

Mentre Pompeo otteneva i suoi successi militari in Oriente e procedeva alla riorganizzazione delle province, Roma era tormentata dai disordini politici e dalla violenza, che rivelavano ormai pienamente la debolezza dell’ordinamento repubblicano, segnato dalle profonde divisioni interne.
Un esempio della crisi istituzionale e della profondità dei conflitti tra ottimati e popolari fu la congiura organizzata nel 62 a.C. dal nobile romano Lucio Sergio Catilina, già collaboratore di Silla e poi passato al campo avverso per ragioni poco chiare.
Le ambizioni di Catilina erano quelle tipiche di molta parte della nobiltà romana: percorrere rapidamente le tappe del cursus honorum e giungere ai vertici del potere, utilizzando però la carriera politica anche come strumento per arricchirsi (come molti esponenti dell’aristocrazia tradizionale, Catilina aveva dilapidato le proprie ricchezze e si trovava nella condizione di nobile decaduto). Nel 65 a.C., e poi ancora nel 63 a.C., egli aveva tentato di farsi eleggere console con l’appoggio delle classi popolari, proponendo la cancellazione dei debiti dei nullatenenti e una distribuzione delle terre dei latifondi. Nell’ultimo tentativo era stato però sconfitto da Marco Tullio Cicerone, uomo di cultura, avvocato dotato di grande abilità oratoria e membro di un’agiata famiglia dell’ordine equestre (e dunque, come il suo conterraneo Mario, homo novus in senato), sostenitore di Pompeo, contrariamente a Catilina che era invece legato a Crasso (e a una figura emergente del campo dei popolari, Caio Giulio Cesare).
Nel 62 a.C., abbandonato anche da Crasso e Cesare, che temevano di alienarsi l’appoggio dei ceti più abbienti a causa delle sue proposte demagogiche e del seguito che si andava procurando tra il proletariato urbano di Roma e tra i ceti rurali più umili, Catilina fu nuovamente sconfitto alle elezioni; intenzionato a salire al potere con la violenza, organizzò allora una congiura contro il senato e i consoli eletti. Cicerone denunciò le trame di Catilina in senato con una straordinaria forza oratoria, costringendo l’imputato a fuggire da Roma e ad appoggiarsi a un esercito irregolare formato da bande di contadini e nullatenenti dell’Italia centrosettentrionale, allestito da un gruppo di nobili romani appartenenti alla fazione dei popolari. Alcuni esponenti della congiura furono arrestati e condannati a morte dal senato (sostenitore di questa opzione fu soprattutto Catone l’Uticense, mentre Cesare si pronunciò per il carcere a vita), cui Cicerone si era rivolto per decidere il destino dei congiurati. Catilina stesso morì presso Pistoia, combattendo contro l’esercito regolare di Roma.
Cicerone aveva agito con l’obiettivo dichiarato di farsi mediatore tra ottimati e popolari, nel tentativo di salvare la repubblica attraverso un patto tra i ceti sociali che ne rappresentavano la classe dirigente e che potevano garantire la conservazione dell’ordinamento istituzionale esistente: il suo primo progetto politico mirava appunto alla cosiddetta concordia ordinum, cioè a un accordo tra senatori e cavalieri e alla convergenza dei rispettivi interessi. Per questa ragione, sperando di essere considerato alla stregua di un salvatore della patria, aveva bloccato la congiura catilinaria e poi fatto eseguire la condanna a morte dei congiurati, decisa dal senato senza regolare processo. Le sue azioni, tuttavia, non ottennero altro risultato che quello di svelare i limiti dell’autorità del senato e la precarietà dell’ordinamento repubblicano. Lo Stato risultava sempre più in balìa di uomini politici spregiudicati (tra i quali i popolari annoveravano lo stesso Cicerone), che potevano contare sul sostegno delle proprie legioni e sul seguito delle masse dei proletari.

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2. Il primo triumvirato: la prima crepa profonda della forma repubblicana

Nel 62 a.C., al ritorno dalla sua vittoriosa campagna in Oriente contro Mitridate, Pompeo avrebbe potuto imporre la propria autorità con la forza dell’esercito. Egli lanciò invece un segnale distensivo al senato: obbedendo al divieto di entrare sul suolo italico con le truppe armate, stabilito a suo tempo da Silla, sciolse subito il suo esercito, chiedendo in cambio l’assegnazione di nuove terre per i veterani. Il senato, però, rifiutò, temendo che questa concessione avrebbe aumentato la fedeltà dei legionari a Pompeo, con il rischio che egli li impiegasse per prendere il potere; Pompeo fu dunque costretto a cercare il sostegno di altri alleati. Nel frattempo, era emersa con sempre maggior forza la figura di Caio Giulio Cesare (100-44 a.C.), discendente da una prestigiosa famiglia nobile decaduta, la gens Iulia, ed esponente di spicco dei popolari. Privo delle adeguate risorse finanziarie indispensabili alla carriera politica, Cesare era stato protagonista di una rapida ascesa sostenuta economicamente da Crasso e dall’ordine equestre. Era naturale che Pompeo, alla ricerca di un accordo con i personaggi politici più influenti del momento, si rivolgesse anche a lui.
Nel 60 a.C., dunque, Pompeo (sostenuto dai suoi soldati), Crasso (appoggiato dall’ordine equestre) e Cesare (a capo dei popolari) stipularono un accordo per spartirsi il potere, dando vita al cosiddetto  triumvirato. Denominato così dagli storici moderni sul modello del triumvirato che sarebbe stato creato – come vera e propria magistratura – nel 43 a.C., l’accordo tra Pompeo, Crasso e Cesare non era altro che un patto segreto tra privati, reso noto soltanto più tardi. Esautorati il senato e i comizi, i triumviri si erano dunque imposti con un’iniziativa personale, e avevano assunto la guida dello Stato grazie al loro potere militare e al prestigio politico, esercitando un’autorità che non era sottoposta a vincoli temporali né ad alcun controllo da parte di altri organi dello Stato. La collegialità tipica delle magistrature romane forniva una parvenza di legittimità, ma in realtà assicurava soltanto la convergenza degli interessi di diverse forze sociali. Privo di ogni fondamento costituzionale, il triumvirato rappresentò di fatto la fine dello Stato repubblicano.
Stretto il patto, i triumviri si impegnarono nell’attuazione dei loro programmi e nella soddisfazione degli interessi dei gruppi sociali che li avevano appoggiati. Gli eventi si svolsero infatti esattamente come l’accordo aveva previsto: Pompeo ottenne la distribuzione delle terre ai suoi veterani, precedentemente rifiutata dal senato; a Crasso fu garantito che gli appalti per la riscossione dei tributi in Asia minore fossero assegnati ai pubblicani dell’ordine equestre, suoi sostenitori politici; Cesare fu eletto console nel 59 a.C. e ottenne il comando dell’Illiria e delle province galliche.

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Le conquiste di Cesare in Gallia

Il comando di Cesare in Gallia fu la premessa dell’espansione militare romana degli anni successivi e, per il triumviro, il primo passo per la conquista dei pieni poteri nello Stato.
Tra il 58 e il 52 a.C. Cesare terminò la conquista della Gallia transalpina (ossia “al di là delle Alpi”, e dunque distinta dalla provincia della Gallia cisalpina, estesa nella pianura padana), conquistando in pochi anni la maggior parte dei territori occupati dalle tribù di origine celtica. Nel 56 a.C. sconfisse Veneti e Aquitani; nel 58 a.C., nella battaglia di Bibracte (l’odierna Autun), sconfisse gli Elvezi che, premuti alle spalle da altri popoli germanici, avevano abbandonato il loro territorio (coincidente con l’attuale Svizzera) arrivando a minacciare i confini romani, e gli Edui, che avevano occupato una parte della pianura alsaziana. Affrontò poi gli Svevi (detti anche Suebi) di Ariovisto, definito da Cesare “re dei Germani”, che alla guida di una coalizione a cui avevano aderito anche gli Arverni e i Sequani si era spinto oltre il Reno: in un primo momento, a fronte delle vittorie di Cesare, si era ritirato (tanto che nel 59 a.C. il Senato gli riconobbe il titolo di alleato dei Romani), ma in seguito le tribù germaniche da lui guidate ripresero a oltrepassare il Reno. Fallito il tentativo di trovare un accordo con l’avversario, Cesare lo affrontò in un nuovo conflitto e lo sconfisse nella battaglia presso l’odierna Mulhouse, in Alsazia, ai piedi dei Vosgi: il triumviro non ebbe pietà dei nemici, che furono massacrati dalla cavalleria romana mentre cercavano di riattraversare il fiume per allontanarsi. Dopo questa vittoria, il Reno diventò la principale barriera naturale contro le incursioni germaniche.
Occupati anche gli insediamenti dei Belgi, a nord della Senna (57 a.C.), Cesare si spinse fino alle coste meridionali dell’attuale Inghilterra (dove erano stanziati i Britanni, una popolazione celtica), che raggiunse una prima volta nel 55 a.C. e una seconda l’anno successivo con una spedizione più consistente, che non riuscì comunque a dar vita a uno stabile controllo territoriale.

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La complessa situazione a Roma

Mentre Cesare era in procinto di partire per la Gallia, e poi mentre combatteva le tribù germaniche, a Roma il conflitto politico si inasprì ulteriormente. Più che dai triumviri – che erano spesso assenti dalla città o che compivano le loro manovre indirettamente, attraverso uomini di fiducia – la vita politica fu dominata in questi anni da Cicerone e dall’astro nascente dei popolari, Publio Clodio Pulcro, un giovane ambizioso, ultimo rampollo della prestigiosa gens Claudia (che aveva dato ben 28 consoli alla repubblica). Per potersi candidare come tribuno della plebe, e quindi legittimarsi come capo dei popolari, Clodio si era fatto adottare dal senatore plebeo Publio Fonteio, diventando anch’egli, in questo modo, plebeo (Clodio era proprio la forma plebea del nome della gens Claudia). Tribuno nel 58 a.C. grazie all’influenza di Cesare – che prima di partire per la Gallia intendeva assicurarsi il controllo della situazione a Roma tramite l’eliminazione dei suoi avversari –, fece approvare delle leggi che gli procurarono il favore della plebe, in quanto tendevano a indebolire il potere degli ottimati in senato e a rafforzare le assemblee popolari (tra le altre, propose una norma che limitava agli àuguri e ai tribuni la possibilità di sospendere le riunioni in base agli auspici ritenuti sfavorevoli e una lex frumentaria che rendeva gratuita la distribuzione di grano ai cittadini romani residenti a Roma). Acerrimo nemico di Cicerone e, da politico spregiudicato e fazioso, profondamente avverso al suo progetto di concordia ordinum, all’inizio del 58 a.C. egli propose una legge di cui proprio Cicerone era il principale bersaglio: Clodio ottenne infatti l’approvazione di una norma retroattiva (fatto di per sé inusuale e illegale) che decretava l’esilio per chiunque avesse condannato a morte un cittadino senza offrirgli la possibilità di appellarsi al popolo. Richiamandosi a quanto era avvenuto pochi anni prima, quando Cicerone aveva fatto eseguire la condanna a morte senza appello voluta dal senato ai danni di Catilina e dei suoi seguaci, Clodio ne ottenne l’allontanamento da Roma con il plauso di Cesare, che vedeva in Cicerone, il più autorevole critico del triumvirato, un ostacolo alla sua carriera politica.
Contro il tribuno, gli ottimati fecero ricorso alle bande armate di Tito Annio Milone, homo novus in forte ascesa politica. Nel 53 a.C., quando Milone si candidò al consolato, Clodio avanzò la sua candidatura per la pretura, con un programma politico che prevedeva proposte di legge ancora più radicali, come la possibilità di affrancare gli schiavi senza seguire le consuete procedure formali e l’impegno a dare maggior peso politico ai liberti. Per i conservatori era un programma intollerabile. Fu così che le squadre di Milone, poi difeso in tribunale da Cicerone (richiamato a Roma già nel 57 a.C.), si sentirono legittimate ad assassinare Clodio (52 a.C.). A dimostrazione dell’asprezza e dell’ampiezza dei conflitti, il popolo impose funerali solenni per Clodio e usò i seggi dei senatori per il rogo funebre.

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Gli accordi di Lucca del 56 a.C. e le nuove campagne di Cesare

Quando Cesare, concluso il mandato per le campagne in Gallia, tornò in Italia, aveva il fermo proposito di non farsi trascinare nei conflitti che agitavano la città. Riunitisi nuovamente a Lucca nel 56 a.C., i triumviri misero a punto un nuovo programma: Pompeo e Crasso sarebbero stati eletti consoli nel 55 a.C., e al termine del mandato il primo avrebbe avuto il governo della Spagna e dell’Africa (egli non vi si sarebbe recato fisicamente, delegando il potere a uomini di fiducia), il secondo della Siria e delle zone limitrofe (dove Crasso, invece, sarebbe andato di persona, convinto di trovarvi bottini e ricchezze). Da consoli, avrebbero poi proposto la proroga per altri cinque anni dell’incarico di Cesare in Gallia.
Cesare fece dunque ritorno in Gallia, dove affrontò una rivolta che vide alleate gran parte delle tribù galliche recentemente sottomesse. Nella sanguinosa guerra che seguì egli superò la strenua resistenza dei Galli Arverni, guidati dal loro re Vercingetorige. Essi furono sconfitti e sottomessi solo in seguito all’assedio e alla conquista della città di Alesia, nel 52 a.C. ( Testimonianze della storia, p. 391). I Galli, rimasti privi della loro autorevole guida, furono incapaci di proseguire un’offensiva efficace; eliminati gli ultimi tentativi di rivolta, Cesare promosse un’intensa e spietata romanizzazione della Gallia, che implicò lo sterminio e la riduzione in schiavitù di molte popolazioni transalpine. Vercingetorige fu trascinato in trionfo a Roma nel 46 a.C. e ucciso ai piedi del Campidoglio.

La morte di Crasso e la guerra civile tra Cesare e Pompeo

Crasso, al quale era stato affidato il governo della Siria, era l’unico dei triumviri senza esperienza né prestigio militare; al contempo, però, era l’uomo più ricco di Roma, e aveva perciò potuto allestire un vasto esercito con il quale si era avventurato in una difficile guerra contro i Parti. L’armata di Crasso, pur imponente, era debole nel settore della cavalleria, al contrario di quella dei Parti, che disponeva di una formidabile cavalleria corazzata, i cosiddetti “catafratti”; inoltre, Crasso fu colto di sorpresa dalla tattica del comandante avversario, Surena, che da buon conoscitore del deserto praticò forme di guerriglia che fiaccarono il morale dei Romani. Così, quando nel 53 a.C. i due eserciti si scontrarono in battaglia nella pianura di Carre, l’esercito romano subì una gravissima sconfitta (una delle peggiori della sua storia); lo stesso Crasso fu catturato e ucciso durante la ritirata.
A spartirsi il potere restavano così soltanto Cesare e Pompeo. Cesare aspirava al consolato, ma il senato, temendo l’enorme potere che stava acquisendo grazie ai successi militari, decise di favorire Pompeo, approvando una norma che imponeva ai candidati alle magistrature di essere presenti in città (e che quindi escludeva Cesare, ancora lontano da Roma con le sue legioni). Cesare, in realtà, avrebbe acconsentito alla richiesta del senato di sciogliere il suo esercito, recandosi a Roma come privato cittadino, a patto che anche Pompeo fosse obbligato a farlo; ma il senato rifiutò. A riprova dell’avvicinamento tra il senato e Pompeo, nel 52 a.C. questi fu nominato console senza collega (titolo cui si ricorreva per dissimulare i poteri propri di un dictator) e si vide affidare la custodia dello Stato, con la possibilità di arruolare truppe in Italia. Così nel 49 a.C., alla scadenza dell’incarico in Gallia, Cesare decise di usare la forza e, sceso in Italia alla guida delle sue legioni, varcò il confine stabilito da Silla presso il Rubicone. Fu in quest’occasione che egli pronunciò la celebre frase Alea iacta est, “Il dado è tratto”: con questo gesto, infatti, Cesare si poneva consapevolmente in aperto contrasto con il senato e con le leggi dell’ordinamento repubblicano.
Iniziò così una nuova guerra civile (49-45 a.C.), che contrappose i seguaci di Cesare e di Pompeo. L’avanzata dei cesariani, che potevano contare su un esercito fedele, ben addestrato e rafforzato dai contingenti arruolati in Gallia, fu inarrestabile. Pompeo, impreparato ad affrontare il rivale sul campo, decise di abbandonare Roma e di dirigersi con il suo esercito a Brindisi e poi in Macedonia, accompagnato da due terzi dei senatori e dalla maggior parte dei magistrati.
Giunto a Roma, Cesare prese facilmente il potere. Dapprima si occupò di combattere i pompeiani stabilitisi in Spagna; poi inseguì l’avversario e vinse le sue truppe nella decisiva battaglia di Farsalo, in Tessaglia, nel 48 a.C. Pompeo cercò allora rifugio presso il re dell’Egitto Tolomeo XIII; questi, però, lo uccise, sperando così di ingraziarsi i favori di Cesare che, con la sua flotta, era ormai padrone incontrastato del Mediterraneo. Al suo arrivo in Egitto, tuttavia, Cesare lo destituì, affidando il trono alla sorella e moglie Cleopatra, con cui aveva instaurato un legame personale. Anche questa regione, ricca di cereali, entrò così stabilmente nella sfera di influenza romana.
Subito dopo Cesare guidò le legioni contro Farnace, figlio di Mitridate, re del Ponto, che aveva approfittato della guerra civile romana per estendere i propri domini sulle coste del mar Nero. Cesare si impose nella battaglia di Zela (47 a.C.), rafforzando il dominio di Roma anche sull’Asia minore.
Gli ultimi seguaci di Pompeo furono infine decimati a Tapso, in Africa (dove Cesare istituì la provincia dell’Africa nova), nel 46 a.C., e a Munda, in Spagna, nel 45 a.C. Le guerre civili tra cesariani e pompeiani avevano coinvolto tutte le terre che si affacciavano sul Mediterraneo e, alla fine del conflitto, Cesare si trovava a controllare un vastissimo impero, mentre in patria poteva portare a compimento il suo progetto di imporsi a capo dello Stato.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

LA FAME E L’ORRORE DEGLI ASSEDIATI DI ALESIA

In questo brano, tratto dal De bello Gallico (La guerra gallica), Cesare riporta il macabro discorso con cui uno dei capi degli Arverni esortò i cittadini e i guerrieri di Alesia a resistere all’assedio romano. È probabile che l’episodio sia stato inventato da Cesare per giustificare la conquista della Gallia, ammantandola di una missione civilizzatrice di popoli barbari e disumani.



“Coloro che erano assediati ad Alesia, passato il giorno in cui aspettavano gli aiuti dei loro alleati, consumato tutto il frumento, non sapendo che cosa avvenisse presso gli Edui, riunito il consiglio si consultavano sul modo di uscire dalla situazione in cui si trovavano.
Dopo che furono manifestate varie opinioni, delle quali una parte sosteneva la resa, una parte di fare una sortita finché le forze lo consentivano, parlò Critognato1 […]: «Dunque, qual è il mio consiglio? Di fare quel che i nostri avi fecero nella guerra, certo non pari a questa, contro i Cimbri e i Teutoni;2 essi, respinti nelle città e costretti da simile penuria, si sostentarono cibandosi dei corpi di coloro che per l’età non apparivano atti alla guerra, e non si arresero ai nemici. E se non avessimo un esempio di tale pratica, comunque giudicherei bellissimo che per la libertà fosse introdotta e trasmessa ai posteri. Infatti che cosa ebbe quella guerra di simile a questa? Devastata la Gallia e portata grande rovina, i Cimbri alla fine se ne andarono dal nostro paese e si diressero verso altre terre; ci lasciarono il nostro diritto, le nostre leggi, i campi e la libertà. Ma i Romani che altro cercano e vogliono se non, spinti dall’invidia, di insediarsi nei campi e nelle città di coloro che per fama conobbero gloriosi e potenti in guerra, e sottometterli a perpetua schiavitù? Poiché non hanno combattuto guerre per alcun altro motivo.3 Che, se ignorate ciò che accade ai popoli lontani, guardate la Gallia confinante, che, ridotta a provincia, mutato il diritto e le leggi, soggetta alle scuri, è oppressa da perpetua schiavitù».”


Caio Giulio Cesare, La guerra gallica, VII, 77, 1-16, trad. di A. Pennacini, Einaudi-Gallimard, Torino 1993



1. Critognato: un nobile degli Arverni citato solo in questa occasione.
2. Di fare… i Teutoni: allude all’epoca in cui Cimbri e Teutoni si spostarono e combatterono contro gli Arverni attorno al 100 a.C.
3. Poiché… motivo: l’annotazione è fatta da Critognato, ma è Cesare a riconoscerne la sostanziale validità.


PER FISSARE I CONCETTI
  • Qual è, secondo Critognato, la differenza di dominio fra Cimbri e Romani?
  • Che cosa propone Critognato al suo popolo?
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3. La dittatura di Cesare

Cesare rimaneva dunque padrone della scena alla fine della lunga crisi delle istituzioni repubblicane. Per procedere alla riorganizzazione amministrativa e al rinnovamento delle istituzioni, egli eliminò ogni ostacolo alla sua azione riformatrice, dando alla sua autorità il carattere di un potere svincolato da ogni limitazione da parte degli altri organi della repubblica. Si trattava di una grave frattura con le consuetudini politiche tradizionali, basate sull’attenta compensazione tra poteri diversi in grado di bilanciarsi reciprocamente per prevenire i rischi di un’involuzione monarchica, anche se questa frattura era già stata ampiamente anticipata dall’azione di Silla e dai riconoscimenti del Senato nei confronti di Pompeo.
Lo strumento istituzionale impiegato da Cesare per imporsi alla guida dello Stato fu la dittatura, una magistratura a cui si era fatto ricorso più volte nel passato e che egli stesso aveva ricoperto durante le campagne militari in Gallia, con il pretesto di non poter interrompere la difficile conquista territoriale di una regione strategica per Roma, e mentre si trovava in Egitto. Sebbene la reiterazione della dittatura fosse in contrasto con le norme repubblicane che prevedevano un mandato temporaneo di pochi mesi, Cesare si richiamò al precedente di Silla, e nel 46 a.C. si fece nominare dittatore a tempo indeterminato ( perpetuus) con lo scopo di restituire stabilità allo Stato.
Apparentemente, la sua azione non forniva appigli a chi lo accusava di voler abbattere le istituzioni repubblicane: egli, infatti, si dichiarò rispettoso dell’autorità del senato e non abolì le magistrature tradizionali. Per ottenere un potere eccezionale, preferì piuttosto utilizzare formule giuridiche e riconoscimenti all’apparenza solo onorifici: fu per esempio Pontifex maximus dal 63 a.C., mentre Cicerone gli si rivolgeva spesso con l’epiteto onorifico di Imperator; fu più volte nominato console, e assunse infine le prerogative di tipo censorio. Malgrado i tentativi di salvare le apparenze, tuttavia, tale potere risultava pressoché illimitato: la repubblica, formalmente ancora esistente, era di fatto venuta meno. Il senato, istituzione simbolo di questa forma di governo, continuava a riunirsi, ma era Cesare a scegliere personalmente i magistrati e a prendere le decisioni politiche più rilevanti. Per controllare meglio l’attività della più importante assemblea politica di Roma, inoltre, egli nominò senatori molti nobili a lui fedeli provenienti dalle province.

passato&presente

Il calendario da Romolo ai giorni nostri

In qualità di Pontifex maximus, Cesare promosse una riforma del calendario rimasta sostanzialmente valida fino a oggi. Su come fosse impostato il calcolo del tempo prima di questa riforma siamo poco informati. È stato ipotizzato che al tempo di Romolo l’anno contasse 304 giorni, suddivisi in 10 mesi, ma l’ipotesi sembra appartenere più alla leggenda che alla realtà: è infatti evidente che con un calendario di 10 mesi (di 30 o 31 giorni) i mesi “estivi” avrebbero presto coinciso con il periodo più freddo dell’anno, e viceversa.

La riforma di Numa Pompilio

La tradizione attribuisce a Numa Pompilio una prima riforma del calendario. Il successore di Romolo avrebbe aumentato i mesi da 10 a 12, portando così l’anno a 355 giorni, sul modello greco (che però contava 354 giorni). Nonostante questo, il sistema di calcolo continuava a determinare una progressiva sfasatura – che al tempo di Cesare ammontava ormai a tre mesi – tra il calendario e il ciclo delle stagioni, con conseguenti scompensi nella produzione agricola e nella riscossione dei tributi: il problema non era soltanto astronomico e scientifico, dunque, ma riguardava da vicino l’economia e la società. Per risolverlo, già ai tempi di Numa Pompilio era stato previsto un mese “intercalare” (di 22 o 23 giorni) da aggiungere ai 12 mesi “stabili” un anno sì e un anno no.

Cesare e il calendario giuliano

Nemmeno la soluzione del mese intercalare, tuttavia, risolveva tutti i problemi. L’anno numano, infatti, risultava comunque mediamente non allineato al ciclo lunare, con la conseguente necessità di continui adeguamenti, attuati dai pontefici, che generavano confusione e si prestavano ad arbitri di ogni genere (anche di tipo politico: per esempio il cambiamento del calendario per evitare votazioni in un momento ritenuto sfavorevole alla classe dirigente).
Fu proprio per questo motivo che nel 46 a.C. Cesare chiamò a Roma un gruppo di astronomi egizi guidato da Sosigene di Alessandria, consigliere molto stimato da Cleopatra, e affidò loro il compito di modificare il vigente sistema di calcolo del tempo. A Sosigene si deve, secondo Plinio il Vecchio (Naturalis historia, XVIII, 210-212), l’elaborazione del calendario giuliano, l’introduzione dell’anno cosiddetto “bisestile” e il passaggio dal calendario lunisolare a quello solare.

Gli anni bisestili

L’anno veniva portato a 365 giorni e ogni 4 anni, nell’anno bisestile, veniva aggiunto un giorno supplementare all’ultimo mese, febbraio (l’anno aveva inizio con il mese di marzo) per recuperare uno scarto annuale di 6 ore tra l’anno solare e quello stabilito dal calendario.
Diversamente dal calendario odierno, in cui il giorno supplementare è inserito ogni 4 anni alla fine di febbraio, nel calendario romano questo giorno cadeva tra il 23 e il 24 febbraio; poiché il 23 febbraio era il sesto giorno prima delle calende di marzo, il giorno aggiuntivo (un raddoppio del 23) era chiamato appunto “sesto bis” (“bisestile” deriva dal latino bis sextus, “due volte sesto”). A quanto ne sappiamo la novità non fu accolta del tutto favorevolmente (per esempio Cicerone manifestò stupore e disappunto).
Cesare cambiò anche il nome del quinto mese dell’antico calendario, Quintilis, in Iulius (da cui deriva l’italiano “luglio”), per celebrare il nome della sua gens. L’inizio dell’anno venne poi fissato al 1° gennaio, non più a marzo.

Dalla riforma medievale ai giorni nostri

Questo calendario subirà soltanto lievi correzioni, prima con Augusto e poi, nel XVI secolo, a opera di papa Gregorio XIII. Il calendario gregoriano – questo il nome con cui viene identificato a seguito della variazione – è oggi diffuso in gran parte del mondo, tra cui l’Europa e le Americhe, mentre il calendario giuliano è utilizzato nei Paesi in cui prevale la religione cristiana ortodossa. Per questo motivo il calendario russo è sfasato di 13 giorni rispetto a quello usato in Europa occidentale (il Natale, per esempio, si celebra il 7 gennaio e non il 25 dicembre).

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Le riforme di Cesare

Grazie alla sua abilità politica e a un’efficace azione di propaganda, in poco tempo Cesare riuscì a ottenere un vasto appoggio popolare. Il suo consenso crebbe enormemente grazie a riforme pensate appositamente per soddisfare gli interessi dei diversi strati sociali e a provvedimenti volti a creare un clima di pacificazione con i suoi avversari politici.

  • Rovesciando una consuetudine consolidatasi durante le guerre civili, egli si mostrò clemente con i pompeiani, riuscendo così a porre fine ai conflitti che avevano insanguinato lo Stato: grazie a un’amnistia, i pochi nemici sopravvissuti poterono tornare liberamente in patria; tra i personaggi che beneficiarono della sua clemenza vi fu anche Cicerone, che era stato sostenitore di Pompeo.
  • Per ottenere il consenso della plebe di Roma approvò delle norme che alleggerivano i debiti (pur senza eliminarli, in modo da salvaguardare tanto i debitori quanto i creditori), abbassò il costo degli affitti delle case e dei terreni e organizzò grandi lavori pubblici per dare occupazione ai proletari. Mentre le elargizioni saltuarie di grano assicuravano un sollievo solo temporaneo all’indigenza degli strati più poveri (oltre che pesare sulle finanze statali, tanto che Cesare le regolamentò limitandone l’estensione), questi interventi avevano un carattere strutturale e portarono a un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione urbana.
  • Con la riforma militare raddoppiò la paga dei soldati e distribuì ai veterani dell’esercito le terre di nuove colonie appositamente fondate, evitando così di confiscare i terreni agli aristocratici (a dimostrazione della sua capacità di accontentare contemporaneamente più ceti sociali). L’assegnazione di queste terre non solo assicurava una vecchiaia dignitosa ai legionari, ma garantiva anche, attraverso la presenza dei veterani, un controllo più capillare dei territori di recente acquisizione.
  • Estese la cittadinanza agli abitanti della Gallia cisalpina che, grazie alla naturale fertilità della pianura padana e all’assenza dei latifondi, raggiunse una notevole prosperità e ottenne un ruolo sempre più importante nell’ambito dei possedimenti territoriali di Roma. Con questa legge Cesare si guadagnò la fedeltà di popolazioni che per secoli si erano dimostrate insofferenti al dominio romano e assicurò allo Stato le disponibilità finanziarie di una nuova classe dirigente ricca e dinamica.
  • Aumentò infine il numero dei membri del senato da 600 a 900, inserendovi esponenti della nobiltà italica e dell’ordine equestre. Così facendo, rese più sicuro il suo controllo sulle attività dei senatori e allo stesso tempo allargò il suo consenso in strati sempre più vasti della società.
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L’assassinio di Cesare

Le riforme promosse da Cesare avevano comportato vantaggi per tutte le classi sociali, ma avevano scontentato i senatori, che tra le altre cose mal sopportavano l’ingresso in senato di esponenti dell’ordine equestre, di estrazione non aristocratica. Con il passare del tempo, inoltre, la dittatura di Cesare stava perdendo la sua apparenza di restaurazione delle istituzioni repubblicane e diveniva sempre più simile a una monarchia, in cui il potere era concentrato nelle mani di una sola persona che soffocava qualsiasi opposizione politica ed eludeva i contrappesi istituzionali – che avrebbero appunto dovuto evitare il rischio di derive monarchiche – tipici del sistema repubblicano di Roma. Anche i comportamenti pubblici di Cesare davano adito a qualche preoccupazione, soprattutto tra i più intransigenti sostenitori del senato. Nelle sue uscite ufficiali egli aveva preso l’abitudine di usare calzature e toga di porpora e presentarsi con la corona di lauro in testa (gesti tipici delle monarchie orientali); molti iniziarono a prestare giuramento in suo nome (invece che richiamandosi a Giove) ed egli accettò i titoli di pater patriae e di nuovo Romolo (la sua statua venne collocata in Campidoglio accanto a quelle dei sette re). Così, quando nel 44 a.C. il console Marco Antonio, suo fedele collaboratore, gli offrì pubblicamente la corona di re, il suo rifiuto venne letto in modi diversi. Secondo i cesariani era la dimostrazione che Cesare non aveva alcuna intenzione di abbattere le tradizionali istituzioni dello Stato romano; per i suoi oppositori si trattò di una messinscena: Cesare era già di fatto un monarca e con questo atto intendeva soltanto mantenere il consenso della classe dirigente romana, spacciandosi per un difensore della legalità repubblicana.
In tale contesto, l’opposizione senatoria e anticesariana decise di passare all’azione, organizzando una congiura guidata da Caio Cassio Longino e dal figlio adottivo di Cesare, Marco Giunio Bruto (a lui Cesare avrebbe rivolto una delle sue frasi rimaste celebri: Tu quoque, Brute, fili mi?, “Anche tu, Bruto, figlio mio?”). Alle Idi di marzo (il 15 marzo) del 44 a.C. il dittatore fu ucciso dalle pugnalate dei suoi avversari mentre entrava nel senato e cadde ai piedi della statua del suo nemico Pompeo.

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Cesare, dittatore o democratico?

Una personalità complessa e poliedrica come quella di Cesare ha da sempre affascinato gli storici. Il dibattito sulla sua figura si è snodato soprattutto intorno a una domanda: egli fu un “dittatore” – nell’accezione moderna del termine, ossia un capo autoritario e svincolato dalla legge – o il rappresentante più genuino della parte popolare della società civile romana, e dunque a ben vedere un “democratico”?

Il cesarismo
Alcuni acuti interpreti moderni hanno sottolineato soprattutto il carattere demagogico o antidemocratico del suo operato. Dall’esperienza di Giulio Cesare deriva infatti il termine “cesarismo”, assai utilizzato tra Otto e Novecento per descrivere regimi politici caratterizzati dal rapporto diretto tra leader e popolo. Nell’analisi del sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) il cesarismo si lega alla teoria del «capo carismatico», figura capace di raccogliere il consenso senza alcuna sanzione legale e di imporsi in virtù del proprio ascendente personale. Anche Antonio Gramsci (1891-1937) si è soffermato sul concetto, applicato all’esperienza di Napoleone Bonaparte ma anche all’Italia di inizio Novecento. Il fascismo italiano, nato e sviluppatosi in quel periodo, è un esempio di cesarismo moderno, basato non solo sulla repressione degli oppositori, ma anche sulla ricerca del consenso ottenuta con una propaganda capace di esaltare – anche attraverso l’impiego dei nuovi mezzi di comunicazione, come la radio e il cinema – i caratteri carismatici del capo.

La visione strategica di Cesare
D’altra parte, molti dei provvedimenti che Cesare mise in atto appartenevano a una tradizione genuinamente “popolare”, manifestazione di un interesse per le condizioni di vita dei ceti meno abbienti non unicamente strumentale all’interesse delle classi dirigenti. Proprio questa doppia valenza dell’esperienza di Cesare ha diviso gli storici tra coloro che ne hanno giustificato l’operato, e i detrattori (numerosi soprattutto tra gli studiosi e gli osservatori più legati a un’idea tradizionale di repubblica).
La stagione nella quale Cesare visse e operò fu effettivamente un’epoca di crisi e di trasformazione profonda. L’antica contrapposizione tra ceti possidenti e classi inferiori, che aveva caratterizzato gran parte della storia romana, sembrava per la prima volta meno cogente dei problemi generati dalla straordinaria espansione territoriale di cui Roma era stata protagonista dalle guerre puniche in poi. Il programma politico di Cesare, in questa situazione, fu tutto volto a garantire la preservazione dell’“impero” che si era creato, obiettivo che accomunava gli interessi delle vecchie classi dirigenti e quelli del proletariato urbano e rurale di Roma e della penisola italica, che avrebbe potuto conservare i propri tradizionali privilegi (che spesso sconfinavano nel parassitismo) solo a condizione di vedere affluire costantemente denaro e ricchezze dalle province. Se questo richiedeva la liquidazione di istituzioni ormai superate e il ricorso a nuove formule giuridiche e politiche di tipo “imperiale”, l’unica strada era adattarsi al nuovo. Fu l’incomprensione di questo progetto a condurre alle Idi di marzo.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana