Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 19 – Roma tra crisi e riforme

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Latifondi e riforme agrarie nell’Italia moderna

Il latifondo non fu caratteristico soltanto dell’organizzazione agraria d’epoca romana; in Italia, al contrario, ha rappresentato per molti secoli una costante nella distribuzione della proprietà terriera. Così, nel corso della storia sono stati molti i tentativi di approvare riforme agrarie volte a ridistribuire vaste estensioni di terre coltivabili, possedute da pochi grandi proprietari, a favore della collettività o di un certo numero di coltivatori diretti privi di proprietà.

Il latifondo nell’Italia moderna

Nella storia dell’Italia moderna, i latifondi erano in genere terreni scarsamente coltivati (anche nel caso in cui fossero fertili) o del tutto abbandonati, perché le grandi famiglie nobiliari che ne detenevano il possesso vivevano per lo più nei centri urbani, limitandosi a sfruttarne i benefici senza sostenere gli investimenti necessari a migliorare i metodi di coltivazione e di conduzione dell’azienda, la qualità della produzione agricola, la commercializzazione dei prodotti. Dalla seconda metà del Settecento, in molte aree della penisola (dalla Lombardia al Piemonte, dalla Toscana alla Puglia e al Napoletano), le monarchie e i principati territoriali del tempo avviarono processi di innovazione che tuttavia ebbero soltanto parziale successo, ostacolati, in particolare nel Meridione, dalla resistenza dei grandi proprietari e dalla farraginosità delle istituzioni politiche esistenti.
Altri tentativi di riforma vennero attuati nel Mezzogiorno in seguito all’Unità d’Italia (1861). I governi presieduti da Francesco Crispi (1887-1896) privilegiarono però lo sviluppo industriale del Nord, lasciando il Sud nelle mani dell’aristocrazia terriera assenteista (come si definiscono i proprietari non residenti sui fondi agricoli). I latifondi rimasero pressoché intatti, con condizioni di lavoro semiservili per i contadini e una quasi totale assenza di investimenti volti a migliorare le rese e diversificare le colture (le superfici coltivabili continuarono a essere destinate prevalentemente a grano, anziché a colture più redditizie).

Il primo dopoguerra

Nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale, nella quale i contadini meridionali furono impegnati in modo massiccio, nell’Italia meridionale si sviluppò un vasto moto contadino che chiedeva la ridistribuzione della terra (1919-1920). Queste ribellioni rurali – non nuove né infrequenti in questa parte d’Italia – chiedevano l’espropriazione forzata dei grandi possidenti (che in genere venivano comunque indennizzati monetariamente) e la cessione delle loro terre ai piccoli agricoltori a titolo gratuito o a prezzo agevolato. L’avvento del fascismo bloccò però ogni tentativo di porre rimedio a una distribuzione della proprietà agraria fortemente ineguale e inefficiente dal punto di vista economico.

Il secondo dopoguerra

Il problema riemerse dopo la fine della Seconda guerra mondiale. L’ultima riforma agraria promossa in Italia risale infatti al 1950, ma si concluse in un sostanziale fallimento. Solo una piccola parte dei latifondi dell’Italia centrale e meridionale venne distribuita ai braccianti agricoli e, tranne che nella fertile Puglia, si trattò spesso di terreni poco produttivi. Il fallimento di questa riforma fu tra l’altro una delle cause della massiccia emigrazione dei braccianti agricoli e dei contadini meridionali verso le città del Nord o verso i Paesi stranieri (Belgio, Svizzera, Germania, Stati Uniti).

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana