2 - I tentativi di riforma dei Gracchi

Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 19 – Roma tra crisi e riforme

2. I tentativi di riforma dei Gracchi

Verso la fine del II secolo a.C., due tribuni della plebe, i fratelli Tiberio e Caio Gracco, cercarono di porre rimedio alla gravità della situazione, proponendo alcune riforme agrarie che prevedevano la limitazione dell’estensione dei latifondi e la tutela dei piccoli proprietari terrieri. Appartenenti a una famiglia nobile, la gens Sempronia, imparentata con gli Scipioni (erano nipoti di Scipione l’Africano per parte della madre Cornelia), i due fratelli erano esponenti di spicco dei popolari. Essi ritenevano che per porre rimedio alla disuguaglianza sociale, risanare l’economia romana e rafforzare l’esercito fosse necessario ricostituire il ceto dei piccoli contadini, eliminando le cause che provocavano l’abbandono delle campagne e la disoccupazione rurale. A queste considerazioni si aggiungeva la preoccupazione che, con la crisi della plebe, tutte le risorse dello Stato sarebbero confluite nelle mani di pochi cittadini ricchi e potenti, minando gli equilibri istituzionali con il rischio di un’involuzione monarchica.

Le proposte di Tiberio

Secondo il racconto del fratello Caio, riportato dal biografo Plutarco, fu durante un viaggio in cui si trovò ad attraversare l’Etruria che Tiberio Sempronio Gracco (162-133 a.C.), «vedendo che il paese era spopolato e che coltivavano la terra o pascolavano schiavi importati e barbari, […] per la prima volta cominciò a pensare a quella riforma che doveva essere per loro l’inizio di tanti mali». Eletto tribuno della plebe nel 133 a.C., con la lex Sempronia agraria ripropose un’antica norma prevista dalle leggi Licinie-Sestie del 367 a.C., che era stata costantemente aggirata o ignorata dai grandi proprietari terrieri grazie alla loro influenza politica. Essa avrebbe dovuto impedire che costoro concentrassero nelle proprie mani patrimoni eccessivi (superiori a 500 iugeri, corrispondenti a 125 ettari) attraverso la spartizione dell’ager publicus; in realtà, i latifondisti erano riusciti a occupare illegalmente le terre appartenenti al patrimonio dello Stato e ne avevano mantenuto il possesso grazie agli appoggi politici dei senatori e delle alte magistrature. Con la riproposizione di questa norma, Tiberio intendeva ridistribuire ai piccoli agricoltori una parte delle terre che appartenevano di diritto allo Stato. Ai contadini nullatenenti sarebbero stati assegnati lotti di 30 iugeri (7 ettari e mezzo) in cambio di un affitto annuale molto basso; ogni lotto doveva essere inalienabile e incedibile, per evitare che i latifondisti tentassero di riacquistarli offrendo ai contadini denaro o esercitando illecite pressioni.
Tiberio sperava di ottenere anche il consenso degli ottimati, e per questo accentuò gli aspetti moderati della sua riforma: le proprietà personali dei latifondisti non sarebbero state toccate e la parte di ager publicus a loro destinata sarebbe rimasta comunque assai ampia (i tradizionali 500 iugeri potevano aumentare, in caso di presenza di figli, fino a 1000). Plutarco, storico tutt’altro che favorevole ai populares, afferma che «nessuna legge contro ingiustizie e speculazioni tanto sfacciate sia mai stata formulata in termini più miti e riguardosi».
Gli ottimati, tuttavia, si opposero fermamente alla legge, considerandola una limitazione dei loro privilegi, e, grazie all’influenza che potevano esercitare sui clienti plebei, spinsero Ottavio, il tribuno collega di Tiberio, a opporsi con il suo veto all’approvazione della riforma. Tiberio fece allora in modo che il concilio della plebe destituisse dall’incarico Ottavio, poiché con il suo veto aveva tradito gli interessi popolari, pur essendo stato eletto per difenderli, e chiese di essere rieletto per un secondo mandato. Propose inoltre che il denaro giunto a Roma in quello stesso anno come eredità del re di Pergamo Attalo III ( p. 355) fosse impiegato per dotare di mezzi e strumenti agricoli gli assegnatari dei lotti di terreno distribuiti con la riforma.
Entrambi questi atti erano in contrasto con le leggi romane: una norma del 180 a.C., infatti, vietava ai magistrati di mantenere la stessa carica per più di un anno, mentre qualsiasi scelta di politica estera doveva essere approvata dal senato. I senatori sfruttarono questi pretesti per accusare Tiberio di aver violato le leggi e di aspirare alla monarchia e, approfittando dei disordini scoppiati durante i comizi per la sua rielezione, lo fecero uccidere insieme a trecento dei suoi sostenitori (133 a.C.). La riforma agraria da lui promossa non fu dunque mai interamente applicata e le norme previste vennero progressivamente abrogate. La sua morte segnò tuttavia, nella storia romana, un punto di non ritorno: iniziava un lungo periodo di lotte fratricide che si sarebbe concluso oltre un secolo dopo con la fine della repubblica.

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Le prime rivolte servili in Sicilia

Negli stessi anni in cui a Roma Tiberio Gracco tentava di introdurre la sua riforma agraria, nelle campagne siciliane si verificò una grave ed estesa rivolta degli schiavi, che si trovavano in una condizione ancora peggiore di quella dei contadini impoveriti e del proletariato urbano.
Impiegati nelle occupazioni più varie al servizio dei loro padroni, queste masse di manodopera servile vivevano in condizioni più o meno dure, secondo l’impiego cui erano destinate. La situazione migliore era quella che riguardava i servi domestici, utilizzati sia per le attività umili nelle case dei nobili, sia in ruoli qualificati, come medici, pedagoghi, scribi. Molti schiavi greci, per esempio, erano stati impiegati in queste occupazioni in virtù della loro cultura e delle loro conoscenze teoriche e pratiche. In condizioni ben più drammatiche vivevano invece gli schiavi dei latifondi, che in cambio del loro gravoso lavoro ricevevano solo un misero vitto, e i lavoratori delle miniere, che morivano quotidianamente per le fatiche inumane cui erano sottoposti. Vi erano poi coloro che, dopo essere stati addestrati in apposite scuole, venivano costretti ad affrontarsi nei ludi pubblici (molto graditi dalla plebe di Roma e delle altre città). Tra costoro vi erano anche i gladiatori.
Intorno al 140 a.C., a fronte di questa situazione, la capacità di Roma di mantenere il controllo sociale cominciò a vacillare pericolosamente. Nel Lazio, per esempio, l’esercito dovette intervenire per reprimere il brigantaggio cui avevano dato vita bande di schiavi impiegati nelle grandi tenute in cui si praticava l’allevamento. La prima vera e propria rivolta servile ebbe però luogo in Sicilia, dove i latifondi e i pascoli erano più estesi e dove le condizioni cui erano sottoposti gli schiavi erano particolarmente dure. Le insurrezioni scoppiate tra il 135 e il 132 a.C. arrivarono a prefigurare la formazione di un vero e proprio Stato alternativo al potere di Roma, del quale Euno, uno schiavo siriaco, si fece proclamare “re”. Grazie al suo carisma, alimentato dall’abilità nella predicazione religiosa e dalle capacità di indovino che gli venivano attribuite, condusse i ribelli alla conquista di tre città (Taormina, Catania e Messina). Fu necessario l’intervento di ben tre consoli per domare la rivolta.

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La diversa strategia di Caio Gracco: una politica di alleanze

Dieci anni dopo la morte di Tiberio, nel 123 a.C., fu eletto tribuno della plebe Caio Sempronio Gracco (154-121 a.C.), che riprese la politica del fratello inserendola in una strategia di più ampio respiro.
Egli riteneva che il fallimento della riforma promossa da Tiberio fosse dipeso dalla scarsa influenza degli interessi dei piccoli contadini nella vita politica romana; era dunque necessario trovare il sostegno di altri ceti sociali per superare l’opposizione dei senatori.
Caio si impegnò a ottenere l’appoggio dei cavalieri che, essendo esclusi dall’assegnazione dell’ager publicus, non avevano motivo di opporsi alle riforme agrarie. Egli concesse loro nuovi appalti per la riscossione delle tasse nella ricca provincia dell’Asia minore. Inoltre, con una legge giudiziaria, istituì tribunali composti esclusivamente da membri dell’ordine equestre per valutare le scorrettezze commesse dai governatori delle province. Per la prima volta, membri del senato potevano essere giudicati da magistrati che non facevano parte del loro ceto. Queste misure consentivano ai cavalieri di influire direttamente sui governi delle province, dove avevano i loro principali interessi, e procurarono a Caio Gracco il sostegno dell’ordine equestre, determinante – dato il suo censo elevato – nelle votazioni dei comizi centuriati. Fu proprio l’iniziativa di Caio Gracco a dare un contributo fondamentale al costituirsi dell’ordo equester, fino a quel momento non formalizzato e lasciato ai margini della vita politica.
Con le entrate ottenute dalla concessione degli appalti ai cavalieri fu possibile finanziare alcuni interventi sociali in favore della plebe cittadina: con la lex Sempronia frumentaria, proposta ed emanata nel 123 a.C., si stabiliva che lo Stato acquistasse partite di grano in Sicilia ogni mese, curandone il trasporto fino al porto di Ostia e poi vendendole a prezzo calmierato ai cittadini romani più poveri.
Caio propose anche la realizzazione di opere pubbliche per dare lavoro alla plebe (lex de viis muniendis) e con la lex militaris introdusse l’equipaggiamento dei soldati a spese dello Stato, permettendo anche ai meno abbienti di essere arruolati nell’esercito. In questo modo rafforzava le legioni e al contempo si garantiva l’appoggio di una vasta parte della popolazione di Roma, che con la forza del numero poteva influire nelle votazioni dei comizi tributi.
Ottenuto il sostegno dei cavalieri e della plebe urbana, Caio Gracco promosse infine una legge agraria che prevedeva la distribuzione ai piccoli proprietari di nuove terre, ottenute anche dalla fondazione di nuove colonie nei territori di Cartagine.

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La questione della cittadinanza e la reazione degli ottimati

Il vasto seguito che Caio Gracco era riuscito a catalizzare intorno alla propria figura gli garantì la rielezione al tribunato della plebe (possibile in seguito a una legge promossa dallo stesso Caio), contrariamente a quanto era accaduto a Tiberio. Il senato, tuttavia, era riuscito ad affiancargli un uomo dell’oligarchia, Marco Livio Druso.
Per il successo della riforma agraria, Caio doveva procurarsi anche il favore dei grandi possidenti italici, che insieme ai proprietari romani avevano beneficiato delle spartizioni dell’ager publicus e che ora rischiavano di essere penalizzati dalla nuova proposta di legge. Così, nel 122 a.C. egli propose di estendere la cittadinanza romana agli Italici. Il provvedimento avrebbe tra l’altro avuto l’effetto di ingrossare le file dell’ordine equestre, nel quale sarebbero confluiti gli Italici arricchitisi con le attività commerciali, allargando la base sociale del consenso alle riforme.
L’estensione della cittadinanza costituiva anche un riconoscimento delle rivendicazioni di popolazioni ormai da secoli assimilate al mondo romano. Gli alleati e i municipi sine suffragio erano infatti tenuti a partecipare alle guerre, senza godere però dei vantaggi riservati ai cittadini romani. Grazie alla cittadinanza, gli Italici avrebbero finalmente potuto prendere parte alla vita politica romana e garantire i propri interessi economici attraverso i comizi e l’elezione dei magistrati, senza contare che avrebbero avuto diritto alle distribuzioni di grano organizzate dallo Stato e all’assegnazione delle terre dell’ager publicus.
Tra gli ottimati (e in parte anche tra la plebe romana) emerse grande preoccupazione per questa proposta, che avrebbe irrimediabilmente alterato gli equilibri politici a favore dei popolari. Con una propaganda demagogica che faceva leva sulla paura di perdere i suoi privilegi, l’oligarchia convinse la plebe di Roma a opporsi alla concessione della cittadinanza agli Italici. Caio si presentò per il terzo tribunato, ma non venne eletto. Nel 121 a.C. scoppiarono violenti disordini durante i quali furono uccisi 3000 sostenitori di Caio Gracco. A questo punto il senato approvò il senatus consultum ultimum (cioè un provvedimento d’emergenza con cui il senato, in caso di pericolo per la tenuta delle istituzioni statali, prendeva decisioni eccezionali o conferiva ai magistrati poteri straordinari), che toglieva a Caio ogni garanzia e protezione: per non cadere nelle mani degli avversari, egli stesso si fece uccidere da uno schiavo. Con la sua uscita di scena, gli ottimati ripresero il controllo delle istituzioni e abrogarono gradualmente tutte le riforme promosse dai Gracchi.

TESTIMONIANZE DELLA STORIA

LA DENUNCIA DELLA CORRUZIONE DA PARTE DI CAIO GRACCO

Aulo Gellio (vissuto nel II secolo d.C.) era un giudice ed erudito che, in modo frammentario e disorganico, aveva raccolto in una monumentale opera informazioni, curiosità e notizie sul mondo antico. Nel brano che segue è riportata parte del discorso che Caio Gracco avrebbe tenuto nel 123 a.C. contro la legge Aufeia, che ratificava la cessione a Mitridate III, re del Ponto, della Frigia, mentre altri senatori sostenevano le pretese avanzate da Nicomede II di Bitinia. Caio, contrario a entrambi gli schieramenti, sosteneva invece che Roma dovesse amministrare direttamente le provincie, per impedire che i fenomeni di corruzione inquinassero i rapporti con i territori conquistati.



«Perché voi, Quiriti, anche se volete impiegare tutta la vostra saggezza e la vostra capacità, non troverete, per quanto cerchiate, nessuno di noi1 che si presenti qui senza un compenso. Tutti noi che parliamo in pubblico miriamo a qualche cosa e nessuno si presenta a voi se non per il fine di guadagnarsi qualcosa. Io stesso, che parlo qui davanti a voi perché possiate accrescere le vostre rendite, perché possiate più facilmente amministrare gli interessi vostri e quelli dello Stato, non mi presento alla tribuna per niente; io però chiedo a voi non denaro ma buona reputazione e onore.
Quelli che vengono a parlare per farvi respingere questa legge2 chiedono non onore a voi ma denaro a Nicomede3; quelli che vi spingono ad approvarla, anche loro non chiedono buona reputazione a voi ma un compenso e un guadagno personali a Mitridate. Gli altri poi, di uguale nascita e di uguale classe, che stanno zitti4, sono addirittura i più accaniti, perché il compenso lo prendono da tutti e tutti ingannano.
Voi, ritenendoli lontani da ogni intrigo, accordate loro la vostra stima; e invece le legazioni inviate dai re, ritenendo che stiano zitti in favore della propria causa, offrono loro doni e somme ingenti, così come avvenne in Grecia: una volta che un attore tragico greco si vantava di aver ricevuto un talento5 per una sola rappresentazione, Dèmade, oratore sommo della sua città, gli rispose – dicono – così: «Ti sembra una cosa straordinaria aver guadagnato un talento parlando? Io, per tacere, ho ricevuto dieci talenti dal re». Nello stesso modo ora costoro ricevono compensi per il loro silenzio.”


Aulo Gellio, Dissuasio legis Aufeiae, in Noctes Atticae, in Oratorum Romanorum Fragmenta, a c. di E. Malcovati, Paravia, Torino 1976 (cit. e trad. da G.B. Conte, Letteratura latina, Le Monnier Università, Firenze 2012)



1. nessuno di noi: noi senatori e uomini politici.
2. questa legge: la legge Aufeia.
3. Nicomede: il re interessato all’abolizione della lex Aufeia.
4. che stanno zitti: coloro che non appoggiano né l’uno né l’altro, ma fanno affari con entrambi.
5. talento: moneta che circolava in Grecia.


PER FISSARE I CONCETTI
  • Leggi con attenzione il cappello introduttivo e il brano e prova a ricostruire attraverso quali percorsi impliciti e nascosti la corruzione si sarebbe potuta manifestare nel caso specifico di cui si parla.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana