Capitolo 19 - Roma tra crisi e riforme

Capitolo 19 ROMA TRA CRISI E RIFORME

i concetti chiave
  • La crisi della piccola proprietà contadina e le sue conseguenze sociali e politiche
  • La frattura della classe aristocratica: optimates (conservatori) e populares (aperti a una riforma sociale)
  • Le riforme agrarie dei Gracchi: limitazione delle grandi proprietà e ridistribuzione dell’ager publicus
  • La questione della cittadinanza agli Italici
  • La condizione degli schiavi e le prime rivolte servili
  • L’ascesa di Caio Mario, homo novus, e la riforma dell’esercito: nasce l’esercito di professionisti
  • Lo scontro tra Mario e Silla e la dittatura di Silla: i privilegi del senato si rafforzano ma le istituzioni repubblicane si avviano verso una crisi irreversibile

1. Le trasformazioni sociali ed economiche del II secolo a.C.

L’espansione romana nel Mediterraneo produsse anche profonde trasformazioni interne. La rete commerciale cartaginese, ereditata dopo l’eclissi definitiva dell’antica città nemica, la conquista della Grecia e l’istituzione delle nuove province portarono grandi benefici alle finanze di Roma. Già in seguito alla vittoria di Pidna contro Filippo V di Macedonia (168 a.C.), i cittadini romani furono esentati in modo permanente dal pagamento delle tasse dirette: per il mantenimento dello Stato e il finanziamento dell’esercito erano ormai sufficienti le risorse prelevate nelle province, per di più incrementate dall’eredità del regno di Pergamo (133 a.C.). Furono tali risorse a permettere, fra l’altro, la crescita urbanistica di Roma e la realizzazione di imponenti opere pubbliche, per la prima volta finanziate in modo massiccio non con proventi dei bottini di guerra o con donazioni private, ma con denaro dello Stato.
Questo enorme afflusso di risorse, tuttavia, fu anche all’origine di forti squilibri sociali: a trarne vantaggio, infatti, furono soprattutto i ceti più elevati, inseriti nel sistema politico o nella gestione economica dello Stato; la gran parte della popolazione, al contrario, subì gli effetti di una grave crisi agraria dovuta alle guerre che si erano succedute per circa un secolo, ai cambiamenti economici seguiti alle conquiste e all’arrivo di centinaia di migliaia di schiavi come prigionieri di guerra.

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Contadini, schiavi, proletari

Il nuovo quadro economico e sociale fu segnato dalla crisi della piccola proprietà contadina dell’Italia centromeridionale. I piccoli proprietari erano già stati danneggiati dall’occupazione cartaginese della penisola durante la seconda guerra punica, che aveva provocato la distruzione dei campi e degli strumenti di lavoro, la perdita dei raccolti, la sospensione delle normali attività agricole. Le lunghe campagne militari successive, inoltre, avevano trattenuto per anni lontano dall’Italia una parte consistente del ceto contadino italico, colonna portante dell’esercito romano. Così, molti agricoltori si erano impoveriti fino a essere costretti a vendere i loro appezzamenti ai proprietari terrieri più facoltosi. Una volta cedute le proprietà, i piccoli agricoltori rimanevano disoccupati: difficilmente, infatti, riuscivano a trovare lavoro come braccianti dei ricchi proprietari, che si servivano della manodopera schiavistica. Si calcola che solo a seguito delle guerre puniche fossero giunti in Italia oltre 50 000 schiavi; e il loro numero sarebbe cresciuto a seguito di tutte le campagne militari successive, arrivando a rappresentare, alla fine del II secolo a.C., un terzo o forse addirittura la metà della popolazione totale. Gli schiavi erano acquistati a prezzi bassissimi e non erano salariati: in cambio delle loro prestazioni ricevevano solo razioni di cibo; inoltre, non dovendo abbandonare i campi per le spedizioni militari, erano sempre disponibili.
Per sfuggire alla miseria delle campagne, molti lavoratori rurali si trasferirono a Roma, dove si unirono alle masse del proletariato urbano, costituito da ex contadini inurbati, piccoli bottegai, disoccupati. Poveri e costretti a vivere di espedienti, i proletari erano inevitabilmente indotti a diventare clienti di uomini ricchi e senza scrupoli, che miravano alle più alte cariche politiche: essendo cittadini romani, infatti, i proletari potevano partecipare ai comizi e alle elezioni delle magistrature, che i cittadini più abbienti controllavano ottenendo il loro appoggio in cambio di donazioni di denaro o di promesse elettorali. Il sistema garantiva la sopravvivenza di una parte di questo proletariato urbano, ma contribuiva a diffondere la corruzione nella vita politica romana.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

LE DRAMMATICHE CONDIZIONI DEI CONTADINI ROMANI

In questo brano dello storico greco Appiano, vissuto tra il I e il II secolo d.C., si descrive con efficacia la difficile situazione dei contadini romani dopo la fine delle guerre puniche: l’ulteriore arricchimento, anche attraverso l’impiego di mezzi illeciti, dei già ricchi e il drammatico peggioramento delle condizioni dei poveri. 
Le pagine di Appiano sono particolarmente interessanti perché mostrano la consapevolezza, già in età antica, delle problematiche relative allo sfruttamento della manodopera a costo quasi nullo - gli schiavi -, che contribuiva alla redditività della terra e alla rendita dei proprietari, ma generava anche gravi squilibri sociali.



“Difatti i ricchi, occupata la maggior parte della terra indivisa1 e resi più sicuri2 col passar del tempo che nessuno più l’avrebbe loro tolta, quante altre piccole proprietà di poveri erano loro vicine, o le compravano con la persuasione o le prendevano con la forza, sì da coltivare estesi latifondi al posto di semplici poderi. Essi vi impiegavano, nei lavori dei campi e nel pascolo, degli schiavi, dato che i liberi sarebbero stati distolti per il servizio militare dalle fatiche della terra. D’altro canto il capitale rappresentato da questa mano d’opera arrecava loro molto guadagno per la prolificità degli schiavi, che si moltiplicavano senza pericoli, stante la loro esclusione dalla milizia. In tal modo i ricchi continuavano a diventarlo sempre di più e gli schiavi aumentavano per le campagne, mentre la scarsità e la mancanza di popolazione affliggevano gli Italici, rovinati dalla povertà, dalle imposte e dal servizio militare. Se per caso avevano un po’ di respiro dalla milizia, si trovavano disoccupati, poiché la terra era posseduta dai ricchi, che impiegavano a coltivarla lavoratori schiavi anziché liberi.”


Appiano, Guerre civili, I, 7, trad. di E. Gabba, La Nuova Italia, Firenze 1958



1. terra indivisa: cioè l’ager publicus.
2. resi più sicuri: in virtù delle prepotenze esercitate e non punite.


PER FISSARE I CONCETTI
  • Com’è nato il latifondo e perché?
  • Perché non veniva impiegata manodopera libera?

La trasformazione dei latifondi

La crisi della piccola proprietà non era dovuta solo ai danni provocati dalla guerra. A mettere in difficoltà il sistema agrario della penisola era infatti anche l’afflusso di grandi risorse granarie dalle province (per esempio dalla Sicilia), che rendevano l’agricoltura cerealicola in Italia sempre meno redditizia e competitiva. Per rispondere alla concorrenza dei grani esteri, l’agricoltura della penisola fu costretta a diversificarsi: alcune grandi proprietà continuarono a produrre per l’autoconsumo o per il piccolo mercato, altre affiancarono alle produzioni tradizionali le colture della vite e dell’ulivo, più pregiate e remunerative del grano.
Anche la pastorizia e l’allevamento beneficiarono di alcune innovazioni, e in particolare di maggiori investimenti sui capi bovini, e non più solo sugli ovini. Si trattava di riconversioni produttive e di attività che richiedevano grandi estensioni di terra e ingenti investimenti iniziali, fattori che favorivano i grandi proprietari a svantaggio dei piccoli contadini. Le proprietà più dinamiche poterono così aumentare la loro produzione e rispondere meglio alle richieste di un mercato sempre più ampio. Una parte dell’aristocrazia romana manifestò maggiore attenzione e cura nella conduzione delle terre, facendo propri criteri di efficienza e di produttività. Perfino un rappresentante dell’aristocrazia più tradizionale come Catone, tendenzialmente chiuso alle novità culturali, e per il quale allevare il bestiame era assai più importante che coltivare la terra, si fece promotore di una nuova mentalità nella conduzione dei latifondi attraverso un’opera di enorme successo, il De agri cultura, il primo manuale di agricoltura della letteratura romana.
I latifondi tesero così ad allargarsi a discapito delle piccole proprietà, anche attraverso usurpazioni di ager publicus e violenze ai danni dei piccoli coltivatori. Spesso i grandi proprietari si affidavano a schiavi-pastori armati che, muovendosi a cavallo, controllavano il territorio, sempre pronti a intervenire con la forza; contro questi abusi, le condanne dei tribunali si fecero sempre meno frequenti.

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I rischi politici e sociali della crisi

La crisi dei piccoli proprietari terrieri non rappresentava solo un problema di disuguaglianza sociale, ma rischiava anche di pregiudicare la solidità delle istituzioni statali e dell’esercito: la miseria del proletariato urbano era in primo luogo una minaccia all’ordine pubblico. Per evitare che il malcontento della popolazione degenerasse in pericolose rivolte sociali, lo Stato cominciò a organizzare frequenti elargizioni pubbliche di grano o di denaro per la plebe di Roma; furono anche aumentate le occasioni di festa, gli spettacoli e i giochi (ludi), che contribuivano a distrarre la popolazione dai problemi quotidiani e a diffondere una fittizia sensazione di benessere (panem et circenses, avrebbe detto il poeta Giovenale per descrivere una pratica continuata, e anzi consolidatasi, in età imperiale).
La crisi dei piccoli contadini ebbe pesanti ripercussioni anche sull’organizzazione dell’esercito, riducendo sensibilmente il numero dei soldati arruolabili. La massa dei piccoli proprietari fondiari, che aveva rappresentato fino al II secolo a.C. il fulcro dell’esercito romano, si ritrovava in gran parte disoccupata e nullatenente, finendo per ingrossare le file del proletariato urbano ed essendo quindi esentata dal servizio militare (solo i cittadini che possedevano un certo reddito erano ammessi nelle centurie dell’esercito). Un indebolimento dell’esercito rendeva più difficile il proseguimento della politica imperialistica avviata tra la seconda e la terza guerra punica, ma senza nuove conquiste e senza un rigido controllo delle province l’afflusso di ricchezze a Roma avrebbe potuto interrompersi, con conseguenze disastrose per le finanze statali e per la coesione sociale della città.

I ludi

Il calendario romano prevedeva che quasi la metà dei giorni dell’anno fosse destinata al festeggiamento di celebrazioni religiose e politiche (festività in onore di una divinità, commemorazione di eventi storici, trionfi militari, funerali di personalità eminenti e così via). In occasione di queste festività si tenevano spesso spettacoli pubblici (i ludi) offerti dai magistrati e, da un certo momento in poi, dai privati. In epoca repubblicana i ludi erano di tre tipi: circenses, scaenici e munera gladiatoria. I primi, la cui istituzione risaliva al V secolo a.C., erano così chiamati poiché si tenevano nel circo, il luogo deputato alle corse dei cavalli e a spettacoli di varia natura; comprendevano principalmente corse di cavalli e di carri, combattimenti fra animali o fra gladiatori (in genere schiavi che si battevano con il gladius, la spada corta che i legionari usavano nei combattimenti corpo a corpo) e anche pubbliche esecuzioni di condannati a morte, a volte gettati in pasto agli animali feroci.
Particolarmente apprezzate erano le venationes: di antica derivazione etrusca, mettevano in scena la caccia alle belve feroci e, a partire dal 186 a.C., gli scontri fra gladiatori e animali (in seguito proibiti per impedire che l’importazione di animali feroci potesse arricchire i mercanti cartaginesi).
I ludi scaenici (cioè teatrali) potevano accompagnarsi ai primi o svolgersi in teatro, e consistevano nella messa in scena di rappresentazioni comiche e drammatiche di origine per lo più greca.
I munera gladiatoria, infine, erano combattimenti tra prigionieri di guerra o tra schiavi, e si concludevano con la morte di uno o di entrambi i gladiatori; erano offerti dai privati, a volte in occasione di funerali solenni, ed erano per questo detti munera: munus significa infatti “obbligo”, “dovere”, e allude all’onere dei cittadini più abbienti di offrire alcuni servizi allo Stato, tra cui questa tipologia di ludi.
Era inoltre abitudine diffusa offrire al popolo, durante gli spettacoli, i congiaria, distribuzioni gratuite di generi alimentari e di vino.

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Le divisioni tra patrizi: ottimati e popolari

Anche il potere politico restava saldamente in mano alle famiglie patrizie e all’aristocrazia senatoria. A questa, in particolare, spettava la nomina dei proconsoli e dei propretori che governavano le province, scelti tra i più alti magistrati che avevano terminato il loro mandato annuale. A differenza delle magistrature tradizionali, questi incarichi erano di lunga durata, e di conseguenza molto ambiti sia per questioni di prestigio, sia per le concrete possibilità di guadagno che garantivano. Così, nella speranza di essere scelti come governatori delle province, consoli e pretori erano portati ad allinearsi alla linea politica del senato durante il periodo del loro incarico. Ai senatori era riservata anche la scelta dei giudici dei tribunali speciali che esaminavano i reati commessi nelle province; come è facile immaginare, raramente essi condannavano un membro del loro ceto, mentre erano inflessibili con i pubblicani e i membri dell’ordine equestre, le cui ricchezze insidiavano il primato politico del senato. Il patriziato restava insomma una classe sociale chiusa, malgrado la società romana fosse attraversata da un forte dinamismo economico e sociale, di cui era un segno evidente la crescente ricchezza dei cavalieri.
Anche a causa di questo dinamismo e dei rapidi mutamenti della compagine sociale, nel corso della seconda metà del II secolo a.C. la nobiltà romana si divise al suo interno in due fazioni politiche (partes) che avevano posizioni diverse sulla gestione dello Stato e sulla distribuzione degli enormi profitti provenienti dalle conquiste militari.

  • I senatori più intransigenti nella salvaguardia dei propri privilegi, arroccati nella difesa dei loro patrimoni e nel mantenimento del potere, erano definiti ottimati (da optimi, “i migliori”, con la stessa valenza che aveva il termine áristoi nella Grecia arcaica): per costoro i vantaggi derivanti dall’espansione territoriale non dovevano essere spartiti con altri ceti, nemmeno a fronte dell’aggravarsi della crisi sociale.
  • I popolari (populares), pur del tutto simili agli ottimati per estrazione sociale e interessi, sostenevano invece l’urgenza di costruire un più equilibrato rapporto tra le classi, dando corpo, se necessario, a riforme sociali e politiche a favore della plebe, nella consapevolezza che la plebe cittadina e i piccoli proprietari rurali avevano costituito sino a quel momento la base strutturale della potenza romana. Il partito dei popolari era sostenuto anche dai membri dell’ordine equestre che, avversati dagli ottimati, cercavano una sponda politica ai loro interessi economici e finanziari.

Di fronte alla crisi, diveniva urgente prendere posizione circa le possibili soluzioni, e per questo motivo le divergenze interne all’aristocrazia crescevano. Si profilava un periodo di forti tensioni sociali.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana