6 - Le nuove tendenze della politica romana

Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 18 – Consolidamento ed espansione della potenza di Roma

I nuovi consoli eletti dal senato decisero di attaccare Annibale nei territori dell’Italia meridionale in cui egli si era acquartierato con il suo esercito, senza attendere che ritornasse verso Roma. Nel 216 a.C., presso Canne (in Puglia), ebbe luogo una delle battaglie più importanti della seconda guerra punica, in cui i Cartaginesi inflissero una durissima sconfitta ai Romani. Insieme al console Lucio Emilio Paolo persero la vita decine di migliaia di legionari romani (70 000 secondo Polibio, 45 000 secondo Livio, ma gli storici moderni hanno proposto stime più contenute, ipotizzando perdite per 20 o 25 000 soldati), e per infondere nuova linfa a un esercito decimato si dovette ricorrere all’arruolamento dei proletari.

Il fallimento della strategia di Annibale

Anche i Cartaginesi, tuttavia, subirono perdite consistenti. Per questo motivo, Annibale decise di attendere ulteriormente prima di sferrare l’attacco decisivo contro Roma, perdendo la possibilità di sfruttare il momento di maggiore debolezza dei nemici. Negli anni seguenti il condottiero cartaginese attese invano rinforzi dalla madrepatria: i Romani ne impedirono infatti il passaggio con i loro contingenti schierati in Spagna e grazie alla supremazia navale nel Mediterraneo.
I tentativi compiuti da Annibale di sollevare i popoli dell’Italia centrale contro il dominio di Roma, inoltre, non sortirono l’effetto sperato. Queste popolazioni non erano animate dai sentimenti di ribellione che contraddistinguevano i sudditi sottomessi con la forza (come i Galli dell’Italia settentrionale): i comuni interessi economici e la politica tollerante attuata nei loro confronti dallo Stato romano garantiva la fedeltà ai trattati di alleanza. Roma, del resto, non esitò a ricorrere a ogni mezzo pur di rompere il fronte avversario: per dissuadere gli Italici a passare dalla parte di Annibale, per esempio, nel 211 a.C. attaccò e distrusse la colonia latina di Capua, dove Annibale aveva trovato rifugio dal 216 a.C.
Per uscire dal suo isolamento strategico Annibale cercò altri alleati, al di fuori della penisola italica, tra coloro che per motivi diversi si trovavano in conflitto con l’esercito romano: le province della Sicilia e della Sardegna – che si erano ribellate ai loro governatori – e il re di Macedonia Filippo V, che nel 215 a.C. aveva attaccato i possedimenti romani in Illiria dando avvio alla prima guerra macedonica (215-205 a.C.). L’esercito romano riuscì a combattere contemporaneamente su più fronti, domando le ribellioni e sconfiggendo i Macedoni, ma fu costretto a trascurare la guerra contro Annibale, che continuò a devastare le campagne della penisola.

Il tentativo di Asdrubale di forzare il blocco romano

I rischi strategici della presenza cartaginese in Italia furono evidenti nel 207 a.C., quando Asdrubale, fratello di Annibale, riuscì a eludere lo sbarramento attuato dall’esercito romano in Spagna e a ripercorrere il tragitto compiuto dal fratello dieci anni prima.
Asdrubale fu però sconfitto presso il fiume Metauro, nell’Italia centrosettentrionale.
Il successo spinse il senato romano ad appoggiare il programma del console Publio Cornelio Scipione, già distintosi per i suoi successi militari in Spagna tra il 210 e il 206 a.C.: intendendo portare la guerra sul suolo africano, nel 204 a.C. egli sbarcò nei pressi di Cartagine; qui si alleò con il re dei Numidi, Massinissa, che mirava a estendere i propri possedimenti, e mosse le sue legioni contro la città nemica. Per contrastare Scipione, Annibale fece frettolosamente ritorno in patria, ma fu sconfitto a Zama nel 202 a.C. La vittoria in terra nemica procurò a Scipione l’appellativo di Africano.
A seguito della battaglia di Zama, nel 201 a.C. i Romani imposero a Cartagine durissime condizioni di pace:

  • la perdita della Spagna, che divenne una nuova provincia romana, e di ogni altro dominio al di fuori del continente africano;
  • la cessione della flotta ai vincitori;
  • il pagamento di un ingente indennizzo di guerra (che i Romani avrebbero impiegato per risanare il loro bilancio economico, seriamente compromesso durante il lungo conflitto);
  • il divieto di combattere ulteriori guerre in Africa, comprese quelle a scopo difensivo, senza l’approvazione da parte di Roma.

Cartagine non scompariva dalla scena ma, pur mantenendo la propria indipendenza, il suo ruolo di potenza marittima e territoriale veniva radicalmente ridimensionato.
Anche peggiore fu il destino di Annibale. Considerato un nemico pubblico dai Romani, la sua immagine fu screditata persino tra la popolazione cartaginese, presso la quale i suoi nemici diffusero sospetti e illazioni. Egli fu quindi costretto a fuggire in esilio in Anatolia, dove esortò i regni ellenistici a non cedere alla crescente influenza romana nel Mediterraneo orientale. Tuttavia, una volta sconfitta Cartagine, Roma impiegò tutti i propri sforzi per conquistare la supremazia anche in Oriente e, con la forza della sua influenza diplomatica, nel 183 a.C. pretese e ottenne dal re della Bitinia, Prusia, la consegna di Annibale. Per evitare di cadere nelle mani dei suoi acerrimi nemici, il grande condottiero cartaginese preferì avvelenarsi.

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6. Le nuove tendenze della politica romana

Nell’ambito della prima guerra macedonica, l’influenza romana si era estesa anche su alcune entità statali orientali (tra cui il regno di Pergamo, Atene e la lega etolica, che raccoglieva le città della regione greca dell’Etolia), ancora indipendenti ma prive della forza economica e militare per contrastare la rete diplomatica di Roma. Nel corso della prima metà del II secolo a.C., ogni resistenza residua venne piegata.
Prima di intraprendere nuove guerre, però, Roma doveva risolvere alcune questioni al suo interno: la vittoria nella seconda guerra punica l’aveva infatti liberata dalla minaccia cartaginese, ma aveva fatto emergere i contrasti tra i gruppi sociali più influenti.

Il contrasto tra senatori tradizionalisti ed élite militari

Nella Roma di inizio II secolo a.C. si confrontavano diverse tendenze politiche e culturali, in parte eredità del passato, in parte frutto delle trasformazioni sociali avvenute nel secolo precedente.
Vi era in primo luogo il gruppo dei senatori appartenenti all’antica aristocrazia dei grandi proprietari terrieri, di cui il censore Marco Porcio Catone era uno degli esponenti più autorevoli. Essi si erano arricchiti notevolmente grazie alle terre confiscate ai popoli sottomessi durante l’espansione in Italia, e temevano che nuove guerre in Oriente potessero danneggiare l’economia (in particolare l’agricoltura, sia nel caso di battaglie combattute sul suolo italico, sia perché l’arruolamento dei contadini nelle spedizioni militari lasciava le campagne prive di manodopera).
Un’altra parte del senato era invece legata alle élite militari che avevano segnato le sorti delle guerre recenti, interessate ai bottini di guerra e in generale favorevoli a una politica espansionistica in Oriente. Di questa sezione i più influenti rappresentanti appartenevano alla gens degli Scipioni.
Vicino a quest’ultima fazione era anche un nuovo gruppo sociale emergente, quello dei cavalieri, membri dell’ordine equestre. Si trattava di ricchi mercanti plebei che avevano raggiunto la prosperità grazie ai commerci e che vedevano nell’apertura di nuovi mercati l’occasione per ulteriori guadagni.
Il nome con cui erano identificati derivava dalle prime centurie dell’esercito, quelle degli equites, in cui erano inquadrati i cittadini più ricchi. In quest’epoca, infatti, i redditi più elevati erano ormai quelli dei plebei che si dedicavano ai commerci, e non più quelli dei senatori, i cui patrimoni erano legati al possesso della terra (meno redditizia delle imprese mercantili). Molti cavalieri, inoltre, erano pubblicani che ottenevano grandi guadagni dagli appalti per le forniture alle legioni o per la riscossione dei tributi delle province: l’espansione militare costituiva per loro una grande opportunità per arricchirsi.

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I vantaggi delle guerre espansionistiche

In realtà, tutte le componenti della classe dirigente romana e tutti i ceti sociali – anche quelli di fatto esclusi dagli affari dello Stato – erano favorevoli a una politica estera di tipo imperialistico. Le conseguenze delle guerre, infatti, non riguardavano più soltanto la gestione delle terre e delle genti sottomesse, ma il modo stesso di vivere dei Romani, dal momento che con le conquiste arrivavano a Roma schiavi, denaro e possibilità di concludere grandi affari attraverso appalti e commerci. Tutti erano interessati a questa prospettiva: i senatori più tradizionalisti vi vedevano lo strumento per rendere ricco e potente lo Stato, oltre che per aumentare i loro possedimenti terrieri; i senatori propensi a un imperialismo più ambizioso aspiravano a divenire governatori delle nuove province; i ceti sociali emergenti sfruttavano le vittorie in guerra per accelerare la carriera politica, intesa sempre più come strada sicura per arricchirsi invece che come servizio reso alla comunità; le plebi urbane impoverite, infine, traevano vantaggio dalle distribuzioni di denaro o di derrate alimentari finanziate dai bottini di guerra.
A creare disaccordo era semmai la direttrice di tale politica di espansione. Infatti, tranne per quanto riguarda i cavalieri, e in parte la plebe, che sostenevano l’espansionismo indipendentemente dall’area verso cui sarebbe stato indirizzato, i senatori della cerchia degli Scipioni puntavano alla conquista del Mediterraneo orientale, mentre il gruppo che faceva riferimento a Catone intendeva attaccare e distruggere Cartagine per evitare nuove minacce dagli antichi nemici, per distogliere le energie romane dalla guerra in Oriente, ritenuta pericolosa, ma soprattutto perché in questo modo Roma avrebbe eliminato definitivamente la concorrenza dei prodotti agricoli esportati e commercializzati dai mercanti cartaginesi.

Due diverse visioni del mondo

La contrapposizione tra questi due “partiti” aveva anche un fondamento politico, ideologico e morale, essendo in parte legata alla considerazione che l’uno e l’altro nutrivano per la cultura romana tradizionale e per la cultura greca. Mentre i sostenitori dell’espansione a Oriente guardavano alla Grecia con rispetto e ammirazione, i sostenitori di Catone temevano che la mentalità ellenica, portatrice di valori che esaltavano l’individuo, avrebbe causato la decadenza degli antichi costumi romani – il mos maiorum – e corrotto gli ideali patriottici, che privilegiavano gli interessi della comunità su quelli del singolo. Ponendo le premesse per l’instaurazione di un regime autoritario, questa deriva culturale avrebbe condotto al crollo delle istituzioni repubblicane. Queste due diverse visioni avevano un corrispettivo persino negli stili di vita dei sostenitori dell’una e dell’altra fazione, o almeno di alcuni dei loro illustri rappresentanti: parsimonioso e parco quello di Catone, in omaggio alla cultura contadina cui si richiamava, raffinato ed elegante quello degli Scipioni, aperto alle suggestioni provenienti dalle culture con cui Roma veniva sempre più in contatto.
L’ideologia senatoriale tradizionale vedeva sotto una cattiva luce anche la vicinanza degli Scipioni al ceto dei cavalieri, protagonista in quei decenni, come si è detto, di una straordinaria ascesa economica. L’arricchimento smodato e rapido ottenuto attraverso speculazioni spregiudicate che mettevano a rischio i patrimoni nobiliari (i senatori, come si ricorderà, non potevano esercitare alcune attività in prima persona ma potevano investire la loro ricchezza in imprese gestite da altri) o tramite il commercio marittimo a largo raggio (ritenuto particolarmente insicuro perché sempre in balia di naufragi o di incursioni dei pirati) appariva come un potenziale pericolo per lo stile di vita tradizionale e soprattutto per la gestione dello Stato, nell’eventualità che gli interessi privati di alcune famiglie finissero per trascinare Roma in guerre avventurose e inconcludenti.
Per questo motivo, già nel 218 a.C. il tribuno della plebe Quinto Claudio aveva fatto approvare in senato una legge, la lex Claudia de senatoribus, che proibiva ai senatori e ai loro figli di possedere navi capaci di trasportare più di 300 anfore: si intendeva così impedire loro di fare affari con il commercio estero, nel timore che nuovi interessi commerciali potessero spingerli a sostenere una diversa politica troppo audace. Il risultato fu che le imprese mercantili e in generale le attività riguardanti la ricchezza mobiliare (cioè quella legata al denaro e non alla terra, bene immobile per eccellenza) continuarono a essere gestite esclusivamente dagli appartenenti all’ordine equestre, la cui crescente importanza economica, acquisita soprattutto al di fuori della penisola, avrebbe finito per costituire una minaccia per la supremazia politica del senato.

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Le guerre macedoniche e la fine dell’indipendenza greca

La parziale convergenza degli interessi della classe dirigente romana e le sempre più frequenti sollecitazioni provenienti da diverse aree del Mediterraneo, che richiedevano l’intervento o il soccorso di Roma nei conflitti locali, determinarono infine l’avvio di una politica estera aggressiva e ad ampio spettro. La prima circostanza in cui ebbe modo di manifestarsi questo ruolo “imperiale” di Roma fu nella Grecia continentale. La prima guerra macedonica, che si era conclusa con la pace di Fenice del 205 a.C., aveva definito le zone di influenza dei vari Stati presenti nella regione. Tuttavia, i piccoli regni di Rodi e di Pergamo si sentivano ancora minacciati dal re di Macedonia Filippo V, da una parte, e dal re seleucide Antioco III, dall’altra. Quando nel 201 a.C. giunsero a Roma gli ambasciatori di Pergamo, Rodi e Atene per chiederne il sostegno contro Filippo V, Roma colse subito l’opportunità di intervenire nell’area. Nel 201 a.C. iniziò dunque la seconda guerra macedonica, che il proconsole Tito Quinzio Flaminino, membro della cerchia degli Scipioni e acceso filoellenista, concluse con la vittoriosa battaglia di Cinoscéfale, in Tessaglia, nel 197 a.C.

La spinta espansionistica di Filippo (costretto fra l’altro a consegnare quasi tutta la flotta) fu seriamente ridimensionata; Flaminino, con abile gesto propagandistico, arrivò addirittura a restituire alle città greche la loro indipendenza. In realtà, però, le mosse di Roma avevano soprattutto lo scopo di preparare il terreno per un conflitto con il regno seleucide di Antioco III il Grande, le cui mire espansionistiche cominciavano a diventare una seria minaccia. Egli infatti aveva strappato la Siria e la Palestina all’Egitto, spingendosi poi verso l’Asia minore. A dare l’occasione per l’inizio del conflitto fu la lega etolica, un’alleanza di città greche sorta allo scopo di combattere Filippo. Dopo aver sperato invano di ottenere benefici territoriali dall’intervento di Roma nell’area, nel 192 a.C. gli Etoli si allearono in funzione antiromana con Antioco III, ora anche re di Siria, e occuparono la città di Demetria. Le truppe della coalizione furono però sconfitte dalle legioni romane alle Termopili, nel 191 a.C., e a Magnesia, l’anno successivo, nell’ambito di quella che viene chiamata guerra siriaca. Nel 188 a.C. i Seleucidi accettarono le condizioni della pace di Apamea che imponeva loro, oltre a una pesante indennità di guerra, la cessione di alcuni territori della Tracia al regno degli Attalidi (Pergamo) e all’isola di Rodi, alleati dei Romani.
Per il momento, Roma si accontentò di influire sulla situazione politica della regione senza occuparla in modo diretto, non avendo ancora forze sufficienti per dominare militarmente questi territori. Oltre che sul fronte orientale, infatti, le legioni romane erano impegnate a combattere anche in altre aree. Tra il 200 e il 191 a.C. esse riconquistarono il controllo della pianura padana, dove i Galli erano tornati indipendenti durante la seconda guerra punica, e fondarono la nuova provincia della Gallia cisalpina (cioè della Gallia “al di qua delle Alpi”). Tra il 193 e il 176 a.C. occuparono anche i territori dei Veneti e dei Liguri, annessi alla nuova provincia. Negli stessi anni, inoltre, dovettero fronteggiare la ribellione della penisola iberica, dove nel 197 a.C. erano state create le due nuove province della Spagna Ulteriore e Citeriore.
Tra il 171 e il 168 a.C. i Romani furono impegnati in una nuova campagna militare contro il regno di Macedonia, la terza guerra macedonica. Il re macedone Perseo, successore di Filippo V, aveva infatti tentato di sottomettere tutta la Grecia, ma fu sconfitto a Pidna, nel 168 a.C., dall’esercito romano comandato dal console Lucio Emilio Paolo (figlio e omonimo del Lucio Emilio Paolo morto nella battaglia di Canne nel 216 a.C.). La Macedonia fu a questo punto suddivisa in quattro piccoli regni, per evitare che tornasse a rappresentare una minaccia alla stabilità della regione. Nonostante questo, un nuovo intervento militare si rese necessario nel 148 a.C. (quarta guerra macedonica), dopo il quale la Macedonia divenne a tutti gli effetti una provincia romana.
Lo stesso destino toccò alla penisola ellenica: dopo la repressione della rivolta delle città riunite nella lega achea e la distruzione di Corinto, nel 146 a.C. (nell’ambito della breve guerra acaica), la Grecia perse definitivamente la sua indipendenza e fu assoggettata come nuova provincia, con il nome di Acaia. Molti abitanti delle sue città furono condotti a Roma come prigionieri di guerra; tra questi vi erano numerosi intellettuali, come lo storico Polibio, che avrebbero animato i circoli culturali filoellenici della nobiltà romana. Il mondo ellenistico era stato conquistato e sottomesso in breve tempo, con immensi guadagni e costi relativamente contenuti.

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TESTIMONIANZE DELLA STORIA

COME L’INGORDIGIA PUÒ FAR DANNO A UNA CITTÀ POTENTE

In Sicilia, durante la seconda guerra punica, i Romani si abbandonarono a saccheggi, rapine e requisizioni di beni e di uomini e donne, fatti trasportare a Roma. Polibio, che pure era un grande estimatore della potenza romana, non mancò di rilevare i danni che un tale comportamento predatorio poteva procurare, alienando molte simpatie a chi se ne rendesse autore. 
A giustificare tali gesta non serviva, secondo lo storico, nemmeno l’ambizione al dominio universale, che poteva essere ottenuto solo conservando i costumi semplici e rigorosi che avevano permesso ai Romani di conseguire la supremazia nel Mediterraneo.



“I romani decisero di trasferire in patria le cose prima menzionate1 e di non lasciare nulla sul posto […]. Poiché essi, che conducevano una vita semplicissima e si tenevano il più possibile lontani dal superfluo e dal lusso, avevano tuttavia sempre la meglio su avversari presso i quali tali cose erano rappresentate nella quantità maggiore e al grado più alto di bellezza, come non ritenere un errore il loro comportamento? Abbandonare i costumi dei vincitori per mettersi a imitare i vinti, infatti, attirandosi allo stesso tempo anche l’invidia che fa seguito a simili comportamenti (fra tutte, la cosa più temibile per chi ha una posizione di supremazia), si può definire senza dubbio un modo di agire sbagliato. L’osservatore, infatti, non si congratula mai con quelli che si sono impossessati dei beni altrui, ma piuttosto, nel momento stesso in cui invidia questi, comincia a sentire anche una certa pietà per i proprietari originari, che li hanno perduti. [...] Ammassare a casa propria l’oro e l’argento ha forse una sola ragione: non è infatti possibile ambire al dominio universale senza ridurre gli altri all’impotenza e procurarsi una simile potenza.
Ma, lasciando nei luoghi d’origine ciò che è estraneo a tale potenza, e insieme l’invidia, sarebbe stato possibile arricchire la fama della propria patria adornandola non di dipinti e sculture, ma di decoro e nobiltà d’animo. Comunque, ciò sia detto a beneficio di chi di epoca in epoca assumerà il dominio, affinché non creda, spogliando le città, che le sventure altrui siano un ornamento per la propria patria. I romani, per parte loro, si portarono via le cose prima menzionate e arricchirono con gli oggetti privati i loro patrimoni, con gli oggetti appartenuti allo Stato il patrimonio pubblico della città.”


Polibio, Storie, IX, 10, 2-13, trad. di M. Mari, Rizzoli, Milano 2012



1. le cose prima menzionate: precedentemente Polibio aveva elencato i beni di cui i Romani si erano impossessati.


PER FISSARE I CONCETTI
  • In quali punti del testo l’autore mette a confronto il valore della sobrietà rispetto all’ingordigia di accaparrarsi i beni?
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7. La terza guerra punica: Roma padrona del Mediterraneo

Se l’espansione militare in Oriente aveva soddisfatto gli interessi dei senatori legati al circolo degli Scipioni, la cerchia di Catone premeva per una nuova campagna in Africa, che avrebbe tra l’altro consentito a Roma di accaparrarsi le abbondanti risorse agricole della sponda meridionale del Mediterraneo. Per dare avvio alle ostilità, i Romani sfruttarono il pretesto di un incidente diplomatico. Nel 149 a.C., infatti, i Cartaginesi reagirono agli attacchi dei Numidi, alleati dei Romani, contravvenendo così alle condizioni di pace stabilite dopo la fine della seconda guerra punica (che impedivano loro di muovere guerra senza l’approvazione di Roma). Il senato ne approfittò per dichiarare guerra, preoccupato anche dal fatto che Cartagine era guidata da un nuovo governo ostile a Roma e impegnato nel creare le condizioni per una ripresa economica della città. Furono queste le premesse della terza guerra punica (149-146 a.C.).
Nonostante l’indiscussa superiorità militare di Roma, la guerra si protrasse per alcuni anni. Infine, dopo un lungo assedio, il console Scipione Emiliano, figlio adottivo dell’Africano, espugnò e distrusse Cartagine nel 146 a.C. Per impedire qualsiasi rinascita della civiltà cartaginese, i campi che circondavano la città furono cosparsi di sale e i suoi territori divennero parte della nuova provincia d’Africa. Questo trattamento, eccessivamente severo, si spiega con ragioni economiche (a lungo si era favoleggiato delle immense ricchezze della città) e con l’odio profondo che i Romani avevano maturato nei confronti dei nemici, ma mostra anche una consapevolezza del tutto nuova del ruolo imperiale assunto da Roma.
Nei decenni successivi si completò la conquista romana del Mediterraneo. Nel 133 a.C. il re di Pergamo, Attalo III, privo di successori, lasciò in eredità il proprio regno anatolico alla repubblica romana. Il lascito si ricollegava all’antica alleanza che il padre, Eumene II, aveva stabilito con i Romani e che, nel 188 a.C., dopo la pace di Apamea, aveva fruttato al regno degli Attalidi l’annessione di vasti territori. La ribellione di alcuni dignitari di corte, riluttanti a diventare sudditi di una potenza straniera, fu domata dalle legioni romane, e nel 129 a.C. fu creata la provincia dell’Asia minore.
Sempre nel 133 a.C. Roma soffocò la rivolta delle popolazioni iberiche e conquistò la città di Numanzia, nella Spagna Citeriore. Infine, nel 123 a.C. sottomise la Gallia meridionale, dove fu costituita la provincia della Gallia Narbonese, dal nome della città di Narbona (nell’attuale Provenza, il cui nome deriva proprio dal termine latino provincia).

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Mestieri e società nell’antica Roma

Grazie all’espansione commerciale seguita alla vittoria nelle guerre puniche, Roma divenne la più ricca tra le città del mondo allora conosciuto.
I rilievi funebri e le statue riemerse dagli scavi archeologici consentono di ricostruire la vivace attività di artigiani e commercianti. In ogni città, le merci provenienti da tutte le terre affacciate sul Mediterraneo venivano vendute nel Foro, il mercato urbano; a loro volta, i commerci alimentavano le attività artigianali, che raggiunsero un notevole livello di specializzazione.
Le famiglie più ricche acquistavano tessuti, oggetti preziosi, profumi e ornamenti per mostrare in pubblico la loro elevata condizione sociale.
L’influenza della cultura greca stimolò poi l’apertura di botteghe di artisti che producevano copie in marmo di statue greche dell’epoca classica, comprate dai ricchi romani per ornare le loro abitazioni, mentre vasai, pittori e scultori si ispirarono sempre più all’arte greca anche per le loro realizzazioni originali, spesso commissionate dai nobili romani che intendevano esaltare la propria immagine pubblica.



  Rilievi di vita quotidiana

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana