2 - Roma e Cartagine, due potenze a confronto

Unità 8 L’ECUMENE ROMANA >> Capitolo 18 – Consolidamento ed espansione della potenza di Roma

2. Roma e Cartagine, due potenze a confronto

Il conflitto tra Roma e Cartagine durò complessivamente 123 anni, e rappresentò lo scontro tra le due principali potenze del Mediterraneo di allora. Gli storici antichi e moderni lo considerano uno snodo decisivo non solo della storia romana, ma anche di quella del Mediterraneo e dell’intera civiltà occidentale.
Alle radici dello scontro vi fu il progressivo incremento dei commerci marittimi di Roma e il suo crescente bisogno dei prodotti agricoli siciliani, cui mirava anche Cartagine (non a caso le due città, alleate nella guerra contro Pirro, cominciarono a scontrarsi dopo la sconfitta del re ellenico). Si trattò dunque di un vero e proprio conflitto geopolitico, al termine del quale Roma fu riconosciuta come potenza egemone del Mediterraneo.

L’assetto istituzionale di Cartagine, città di mercanti

Cartagine (Qart hadasht, in fenicio “città nuova”) era stata fondata nell’814 a.C. da Fenici provenienti da Tiro sulle coste nordafricane (attuale Tunisia). Alla vigilia delle guerre contro Roma, era la città più grande del Mediterraneo: si calcola che si estendesse su una superficie compresa tra i 45 e i 60 ettari e avesse mura lunghe 37 km.
Era guidata da un’aristocrazia di mercanti composta dalle famiglie arricchitesi con i commerci marittimi. Tra loro venivano eletti ogni anno due alti magistrati, i sufèti, con poteri analoghi a quelli dei consoli romani, se si eccettua il comando dell’esercito, che ricoprivano soltanto in casi particolari. I cittadini cartaginesi più influenti si riunivano in due consigli elettivi (il senato e la corte dei cento), cui si accedeva in base al censo e all’età e che prendevano le decisioni politiche ed economiche più importanti per la città. Il popolo partecipava invece a un’assemblea che aveva facoltà di approvare o respingere le decisioni del consiglio dei nobili senza tuttavia poterle discutere.
Traendo la propria ricchezza dai commerci via mare, la forza militare di Cartagine si traduceva per lo più in un’egemonia marittima. Il controllo della terraferma era invece limitato alla ristretta fascia costiera delle colonie che si affacciavano sul Mediterraneo occidentale.
La principale differenza tra l’ordinamento politico e militare di Cartagine e quello di Roma riguardava la formazione e l’organizzazione dell’esercito. Mentre le legioni romane erano composte da soldati reclutati fra tutti i cittadini, spinti a combattere da forti sentimenti patriottici e dalla necessità di conquistare nuove terre, i Cartaginesi erano esenti dal servizio militare e si dedicavano esclusivamente alle attività mercantili. Non essendo minacciata da popolazioni straniere provenienti dal mare, e risultando protetta da invasioni via terra dalle aree desertiche dell’interno, Cartagine organizzava le proprie campagne militari prevalentemente nei territori delle colonie, affidandole a eserciti di mercenari reclutati in loco. I comandanti militari, tuttavia, appartenevano sempre alle principali famiglie cartaginesi; erano scelti in genere tra quelle che avevano interessi commerciali nelle zone coinvolte dai conflitti, ed erano nominati generali solo per un periodo di tempo limitato, per evitare il rischio che una prolungata permanenza al comando dell’esercito potesse favorire abusi di potere e l’instaurazione di un regime monarchico.

Nel cuore della STORIA

Un punto di vista dimezzato

Il conflitto tra Roma e Cartagine non fu soltanto uno scontro militare, ma anche una vera e propria guerra ideologica, tale cioè da coinvolgere i valori di riferimento delle due civiltà, il loro modo di essere e, in fin dei conti, l’idea stessa del destino storico che ognuna delle due potenze assegnava a se stessa. Perciò, come tutte le guerre ideologiche, fu feroce e crudele, poiché entrambe combatterono con la consapevolezza che lo scontro non poteva concludersi se non con la distruzione definitiva dell’avversario. Non a caso Roma, la potenza vincitrice, impose la damnatio memoriae sugli sconfitti, cioè una condanna all’oblio del punto di vista del “nemico”, delle parole con cui l’avversario racconta il conflitto e le sue ragioni. Una volta conquistata definitivamente la città rivale, infatti, Roma procedette alla distruzione sistematica della documentazione cartaginese. Di quella storia, di conseguenza, conserviamo solo il racconto che ne hanno fatto i vincitori.
Il primo a scriverne era stato uno storico greco, Filino di Agrigento (III secolo a.C.), che aveva partecipato alla prima guerra punica nell’esercito della sua città (conquistata, saccheggiata e ridotta in schiavitù dai Romani). Egli raccontava i fatti dal punto di vista di Cartagine, ed era dunque fortemente critico nei confronti di Roma. La sua testimonianza sarà una fonte importante per gli storici romani Fabio Pittore, che aveva combattuto contro Annibale, Nevio e, soprattutto, Polibio, che ne contesteranno però la visione. Il punto Un punto di vista dimezzato di vista romano, per come traspare da queste fonti, ha l’obiettivo di negare ogni possibilità di convergenza tra i nemici e dimostrare che tra i due “mondi” non era possibile alcun dialogo, essendo in gioco due culture inconciliabili. Il conflitto con Cartagine viene insomma dipinto come uno scontro di civiltà: si enfatizzano le differenze economiche, sociali, politiche e ideologiche, mentre quasi si negano le analogie, formali o sostanziali, tra le istituzioni e le strutture sociali delle due città.
Gli storici romani, inoltre, nascondono le ragioni economiche e i diversi interessi sottostanti al confronto. Il punto di vista romano è tutto politico e ideologico, come mostra il pensiero di Catone il Censore quando, nel 151 a.C., invocando la distruzione di Cartagine (Ceterum censeo Carthaginem esse delendam, «Del resto penso che Cartagine debba essere distrutta»), ne individua la ragione nell’esistenza stessa della città punica, potenzialmente pericolosa: «I Cartaginesi sono ormai nostri nemici; e se qualcuno predispone tutto contro di me in modo di esser in grado di attaccarmi quando vuole, vuol dire che è ormai un nemico, anche se non ha ancora preso in mano le armi». Persino l’enfasi sulla potenza degli avversari e sulle sconfitte subite a opera del grande condottiero cartaginese Annibale (le più gravi della storia romana) serviranno ai Romani per dare maggior peso al loro valore e alla loro determinazione.

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Cittadinanza e sfruttamento economico: due opposte visioni del potere

Anche la gestione dei contrasti interni e dei rapporti con i territori sottomessi era molto diversa tra una città e l’altra. Roma, per evitare i conflitti sociali e le ribellioni dei popoli conquistati, cercò sempre di conciliare gli interessi dei patrizi e dei plebei più ricchi e si garantì l’appoggio dei popoli italici, concedendo la cittadinanza ai nobili locali o stipulando trattati di alleanza che assicuravano una relativa autonomia ai territori sottomessi; il dominio cartaginese, invece, si basava sul mero sfruttamento economico delle popolazioni assoggettate. Questa situazione avvantaggiava soprattutto i ricchi mercanti, che come comandanti dell’esercito amministravano le terre conquistate; per questo motivo essi erano favorevoli all’espansionismo militare, che avrebbe garantito alle loro famiglie nuove opportunità di arricchimento e di potere.
Sul piano della politica interna, Roma si resse su un costante accordo tra i principali poteri, controllati dalla nobiltà patrizia. Il comando politico e quello militare non erano separati, ma uniti nelle figure istituzionali dei consoli, che non si discostavano dalle decisioni e dalle scelte legislative del senato. Inoltre, il radicamento della ricchezza nel possesso terriero rappresentava per i Romani un formidabile fattore di stabilità e continuità nell’esercizio del potere da parte di grandi famiglie i cui interessi erano convergenti e intrecciati. A Cartagine sorgevano invece spesso gravi contrasti tra i generali, impegnati nelle campagne militari all’estero, e le principali cariche politiche della città, timorose che i comandanti dell’esercito accumulassero un potere eccessivo o causassero danno ai traffici commerciali. Come dimostrano i numerosi trattati stipulati tra Cartagine e Roma tra il V secolo a.C. e l’inizio del III secolo a.C., le relazioni diplomatiche e commerciali delle due città furono a lungo segnate da un sostanziale equilibrio, sebbene Roma, rispetto alla rivale, fosse in crescita economica e militare. La situazione era tuttavia destinata a cambiare profondamente alla metà del III secolo a.C.

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3. La prima guerra punica

Grazie alle sue basi costiere, Cartagine poteva permettere o impedire la navigazione delle navi straniere all’interno del suo vastissimo impero commerciale. Non appena Roma, dopo la fine della guerra contro Pirro, tentò di allargare la propria supremazia sulla Sicilia orientale, le colonie cartaginesi chiamarono in aiuto le forze della madrepatria. Fu l’inizio del conflitto.

La guerra comincia in Sicilia

I conflitti tra Roma e Cartagine sono stati definiti guerre puniche, dall’aggettivo latino punicus: per via della loro origine fenicia, infatti, i Cartaginesi erano chiamati dai Romani Poeni (dal greco Phoínikes, “Fenici”).
La prima guerra punica (264-241 a.C.) venne talvolta chiamata dagli antichi “guerra di Sicilia”, dal momento che prese avvio da un marginale ma complicato conflitto locale scoppiato in Sicilia. Agatocle, tiranno di Siracusa (città che dominava la parte orientale dell’isola), aveva arruolato truppe di mercenari originari della Campania, che si facevano chiamare Mamertini in onore del dio osco Mamerte (corrispondente al Marte dei Latini). Dopo essere stati congedati, alla morte di Agatocle, i mercenari si erano impossessati della città di Messina, sottoponendola a continue razzie e saccheggi e provocando la reazione dei Siracusani che, guidati dal condottiero Gerone, nel 265 a.C. decisero di muovere una spedizione contro la città di Messina. I Mamertini chiesero aiuto ai tradizionali nemici di Siracusa, i Cartaginesi, che intervennero e cacciarono Gerone, occupando però a loro volta Messina, alla quale erano del resto interessati, poiché permetteva loro di controllare lo stretto, strategico per i commerci. I Mamertini si rivolsero allora a Roma, invitandola a occupare la città. Roma discusse a lungo prima di prendere una decisione: mentre il senato e i nobili erano contrari a intervenire, la plebe confidava in possibili guadagni e intravedeva nell’intervento la sola occasione per accedere alle ricchezze della Sicilia. Così il console Appio Claudio Cieco Caudice nel 264 a.C., violando un trattato del 306 a.C., passò lo stretto, approdò a Messina e vi impose un presidio romano.
Fu il casus belli, il pretesto per l’inizio di una guerra che durò oltre vent’anni. Dapprima Siracusa e Cartagine, spaventate dall’aggressività romana, si allearono, ma dopo la prima sconfitta (263 a.C.) Siracusa decise di schierarsi dalla parte di Roma. Le operazioni sulla terraferma videro subito una rapida avanzata delle legioni romane, che in breve tempo conquistarono Siracusa e Agrigento e inseguirono le truppe cartaginesi in fuga fino a Panormo (Palermo), Trapani e Lilibeo (Marsala), poste sotto assedio. La conquista di gran parte della Sicilia fu un successo importante, perché consentì a Roma di impadronirsi delle risorse granarie dell’isola.
I rapidi successi sulla terraferma non furono però sufficienti per vincere la guerra. Grazie alla supremazia della flotta, infatti, i Cartaginesi resistettero all’assedio dei nemici, ottenendo agevolmente i rifornimenti via mare. Per i Romani si rese dunque necessario cambiare strategia. In poco tempo essi riuscirono ad allestire una flotta di 120 navi da guerra provviste di rostri per speronare le imbarcazioni nemiche e di ponti mobili, detti corvi, installati sulla prua. Proprio sfruttando i corvi, la flotta romana comandata dal console Caio Duilio vinse la battaglia di Milazzo (Mylae) nel 260 a.C.

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Il tentativo di Attilio Regolo e l’esito del primo conflitto

Un nuovo successo fu conseguito dal console Attilio Regolo nel 256 a.C., al largo di capo Ècnomo (presso l’odierna Licata, a est di Agrigento). L’entusiasmo provocato dalla vittoria (non senza enfasi lo storico Polibio la considerò la battaglia navale più importante dell’antichità) spinse il console a tentare di attaccare Cartagine direttamente sul suo territorio: dopo aver riparato velocemente le navi danneggiate, la flotta si spinse verso le coste africane e i legionari sbarcarono nei pressi della città nemica. L’esito della battaglia sulla terraferma fu però sfavorevole ai Romani, sconfitti da un avversario che poteva contare su un numero di soldati superiore e su forze più fresche. Durante la ritirata, inoltre, la flotta romana fu distrutta da una tempesta.
I ripetuti scontri con Cartagine non erano stati sufficienti a determinare l’esito della guerra. Roma vi aveva investito ingenti risorse economiche, dovendo ricostruire la flotta per ben cinque volte, senza riuscire a prevalere sugli avversari che, sotto la guida del generale Amilcare Barca, continuavano a resistere al lungo assedio delle colonie cartaginesi in Sicilia grazie ai rifornimenti via mare.
La guerra proseguì dunque con un costante logoramento dei contendenti. La situazione mutò solo nel 241 a.C., quando i Romani, dopo aver costruito una nuova flotta di 200 navi, sotto la guida del console Lutazio Catulo vinsero una battaglia navale presso le isole Egadi, al largo della costa occidentale della Sicilia. In seguito a questo episodio i Cartaginesi persero il controllo delle rotte navali che collegavano la madrepatria con le colonie, e Roma riuscì finalmente a interrompere i loro approvvigionamenti marittimi.
Le città assediate furono costrette ad arrendersi e Cartagine, stremata dalla lunga guerra, accettò dure condizioni di pace, che prevedevano il pagamento di un’elevata indennità di guerra e assegnavano ai Romani il dominio su tutta la Sicilia.

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Attilio Regolo

Proveniente da una famiglia nobiliare della città volsca di Sora, Attilio Regolo fu console una prima volta nel 267 a.C., quando conquistò Brindisi e buona parte della Puglia, ancora in mano ai Greci nonostante la vittoria romana contro Pirro e contro Taranto.
Rieletto console nel 256 a.C., mentre Roma decideva di portare la guerra sul suolo cartaginese, Regolo intraprese una campagna di saccheggi e di battaglie, ma fu sconfitto e fatto prigioniero.
A questo punto della sua biografia la storia si mescola con la leggenda: lo storico Tito Livio racconta che i Cartaginesi inviarono il console a Roma per convincere i Romani alla resa.
Ma Regolo, scoperte le drammatiche difficoltà economiche in cui versava la città nemica, tradì il mandato e spronò i suoi concittadini a resistere, confidando nel fatto che i Cartaginesi non avrebbero potuto contrastarli ancora a lungo. Poi fece ritorno a Cartagine, dove fu giustiziato. Sulla morte dell’“eroe” fiorirono in seguito molte leggende: i Cartaginesi gli avrebbero tagliato le palpebre affinché la luce lo abbacinasse, lo avrebbero chiuso in una botte foderata di chiodi fatta rotolare da una collina, oppure, secondo Seneca, lo avrebbero crocefisso.
La vicenda di Attilio Regolo è un caso esemplare di un personaggio di scarso spessore culturale e politico che viene trasformato, a fini di propaganda, in un simbolo di rilevanza politica e ideologica.

4. Struttura e istituzioni delle prime province romane

Dopo la pace del 241 a.C. Roma creò un nuovo modello istituzionale e amministrativo per i territori conquistati. La Sicilia divenne infatti la prima provincia romana, sottoposta a un rigido controllo militare e a un pesante sfruttamento economico. Soltanto ad alcune città, come Siracusa, Messina e Segesta, fu riconosciuta la condizione di alleate.
Il ridimensionamento dell’impero commerciale cartaginese, entrato in crisi dopo la sconfitta nella prima guerra punica, permise inoltre ai Romani di espandere i propri domini in altre zone del Mediterraneo. Tra il 238 e il 237 a.C. conquistarono infatti la Corsica e le coste della Sardegna, e infine la riviera della Liguria, tutte assoggettate come province.

Governatori, pubblicani e sudditi

Alla guida delle province furono posti dei governatori, che comandavano i contingenti militari assegnati alla loro difesa, amministravano la giustizia e l’economia e gestivano la realizzazione delle opere pubbliche. Inizialmente furono i pretori, eletti dai comizi centuriati, a svolgere la funzione di governatori; quando però il numero delle province crebbe per effetto delle nuove conquiste, essi tornarono a svolgere soprattutto le funzioni legate all’amministrazione della giustizia, e le province furono assegnate a personalità scelte dal senato tra coloro che avevano terminato la loro magistratura annuale (proconsoli e propretori). Il senato controllava l’attività dei governatori e alla fine del loro incarico ne metteva sotto esame l’operato. Nonostante le condanne inflitte dai tribunali, la corruzione cominciò a dilagare e lo sfruttamento delle popolazioni assoggettate raramente venne limitato.
Nell’ordinamento dello Stato romano gli abitanti delle province assunsero la condizione di sudditi, privi di diritti politici e in alcuni casi persino della libertà personale, potendo essere venduti come schiavi. Non erano però costretti a prestare servizio militare e potevano conservare le loro tradizioni religiose e culturali se queste non rappresentavano un pericolo per l’ordine pubblico e per le istituzioni romane.
Le terre delle province vennero confiscate dallo Stato e assoggettate al pagamento di pesanti tributi, la cui riscossione venne affidata ai pubblicani, gli appaltatori delle tasse. Costoro, in cambio del monopolio nell’esazione delle tasse o nella gestione dei rifornimenti delle legioni, erano tenuti al pagamento di una somma fissa allo Stato, che la utilizzava per allestire le flotte o per sostenere le spese dell’esercito; il resto potevano tenerlo per sé e costituiva il loro guadagno. Questo meccanismo fiscale permetteva ai pubblicani di trarre enormi profitti, spesso ottenuti attraverso l’imposizione alla popolazione delle province di tributi ingiusti ed esageratamente onerosi.
Il dominio romano, comunque, comportò anche alcuni vantaggi: in questi territori fu infatti promossa la costruzione di acquedotti, strade e infrastrutture urbane che migliorarono significativamente le condizioni di vita della popolazione e favorirono lo sviluppo dei commerci.

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5. La seconda guerra punica

Le risorse economiche ottenute dai tributi delle province permisero ai Romani di intraprendere una politica di espansione anche nell’Italia settentrionale, ancora in buona parte libera dal loro dominio. Nell’ambito di una campagna militare contro i Galli, nel 232 a.C. occuparono la pianura padana, dove fondarono le colonie di Piacenza e di Cremona. Nel successivo scontro con le tribù galliche dei Boi, degli Insubri e dei Gesati (225-222 a.C.), i Galli si rivelarono ancora un nemico temibile e, penetrati nei territori romani dell’Etruria, riuscirono anche a ottenere qualche successo. Il conflitto fu breve ma violento, e solo grazie a una circostanza fortunata i Romani riuscirono a intercettare gli eserciti gallici a Casteggio, sovraccarichi di bottino, e a trucidarli. La conquista del principale centro dei Galli, Mediolanum (Milano), e la fondazione di altre importanti colonie sancirono l’eliminazione della minaccia gallica e il pieno possesso romano della pianura padana.
Nel 229 a.C., poi, i Romani si spinsero fino in Illiria (la Dalmazia, area costiera dell’attuale Croazia), ponendo fine al dominio della regina Teuta, i cui porti costituivano la base per le scorrerie dei pirati, che minacciavano i traffici commerciali nell’Adriatico, con danni incalcolabili per Roma.
All’indomani della prima guerra punica, dunque, l’egemonia di Roma non avrebbe più trovato ostacoli se la nobiltà mercantile di Cartagine, guidata dalla famiglia Barca, non avesse dato avvio all’impresa di risollevare le sorti della città attraverso nuove spedizioni militari. Poiché l’esito del conflitto con Roma aveva compromesso la sua supremazia marittima, Cartagine si dedicò soprattutto all’ampliamento dei possedimenti sulla terraferma, in particolare nella penisola iberica, ricca di miniere d’argento. Le due antagoniste tornarono così a scontrarsi in un quadro strategico ribaltato: la supremazia marittima era adesso saldamente nelle mani dei Romani, mentre i Cartaginesi puntavano a combattere il nuovo conflitto in primo luogo sulla terraferma.

L’espansione cartaginese in Spagna: l’avvio di un nuovo conflitto

L’occupazione cartaginese di vasti territori nella Spagna meridionale era iniziata nel 237 a.C., sotto la guida del generale Amilcare Barca. Qui era stata fondata la colonia di Nuova Cartagine (Carthago Nova, l’odierna Cartagena) e, grazie alle risorse provenienti dallo sfruttamento delle miniere d’argento, era stato arruolato un potente esercito di mercenari, con il quale era proseguita l’avanzata nella penisola iberica. I Romani, che in questo stesso periodo erano impegnati nelle guerre contro Galli e Illiri, non si opposero all’espansione cartaginese, ponendovi però un limite geografico nelle sponde del fiume Ebro, nella Spagna settentrionale. Con un nuovo trattato stipulato nel 226 a.C. (il settimo nella storia delle due città), Roma e Cartagine si spartirono dunque le rispettive aree di influenza, impegnandosi reciprocamente a non oltrepassare il confine rappresentato dall’Ebro. Contestualmente, tuttavia, Roma stabilì alleanze anche con alcune città iberiche, tra cui Sagunto (nella Spagna orientale), che si trovava a sud dell’Ebro (e dunque nell’area d’influenza di Cartagine).
Nel frattempo, nuovo comandante cartaginese divenne Annibale, figlio di Amilcare, che si sarebbe rivelato un abile stratega e certo il miglior generale della sua epoca. Convinto che senza la distruzione di Roma Cartagine non avrebbe mai potuto riconquistare l’egemonia commerciale nel Mediterraneo, Annibale si pose l’ambizioso obiettivo di portare la guerra sul suolo italico. Confidando nella forza del suo esercito di terra, costituito da professionisti ben addestrati, decise dunque di sfidare sul loro stesso terreno gli odiati avversari, convinto che la brutalità e la prepotenza dei Romani avesse procurato loro più nemici che alleati. Nel 219 a.C. i Cartaginesi assediarono provocatoriamente Sagunto, espugnandola l’anno successivo. L’iniziativa di Cartagine non era in contrasto con il patto stipulato nel 226 a.C.; allo stesso tempo, però, Roma era legata da un trattato di alleanza con la città assediata. Il dilemma su quale comportamento adottare (accettare il fatto compiuto o intervenire in favore degli alleati) fu sciolto dal senato, che decise infine di aprire le ostilità contro Annibale. Iniziò così la seconda guerra punica (218-202 a.C.).

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La guerra in Italia e la disfatta di Canne

Annibale elaborò una strategia basata sull’alleanza con i popoli italici, che furono sollecitati a ribellarsi al dominio romano. Con una rapida avanzata, nel 218 a.C. le sue truppe (composte da oltre 30 000 soldati e alcune decine di elefanti) varcarono le Alpi e dilagarono nella pianura padana. Qui l’esercito cartaginese fu rafforzato dall’apporto di guerrieri mercenari delle tribù galliche, insofferenti al dominio di Roma cui da poco erano stati assoggettati.
L’arrivo degli invasori colse di sorpresa i Romani, che avevano inviato le proprie legioni in Spagna, pensando che quello sarebbe stato il teatro della guerra. Così, Annibale vinse le prime battaglie presso i fiumi Ticino e Trebbia e iniziò la sua avanzata nel cuore della penisola. Nel 217 a.C. sconfisse i Romani presso il lago Trasimeno ma, invece di attaccare direttamente Roma, preferì proseguire verso l’Italia meridionale, ritenendo di non avere ancora a disposizione forze sufficienti per affrontare la battaglia decisiva.
Anche se, per il momento, il pericolo era stato sventato, l’esercito cartaginese costituiva una minaccia gravissima per Roma. Il senato decise quindi di nominare dittatore Quinto Fabio Massimo, il quale, per contrastare Annibale, ricorse a una tattica attendista che gli valse il soprannome di Cunctator, il “temporeggiatore”. Invece di ingaggiare subito uno scontro diretto, egli optò per una strategia di logoramento volta a isolare le forze cartaginesi e a impedirne i rifornimenti. Ingaggiò inoltre circoscritti scontri militari per fiaccare le energie del nemico e per far trascorrere il tempo a vuoto, confidando che le truppe avversarie sarebbero state decimate dalle malattie, dalle diserzioni e dalla fame.
Questa strategia però non era ben vista dai grandi proprietari terrieri. La permanenza dell’esercito nemico sul suolo italico provocava infatti gravi danni ai latifondi e il blocco della produzione agricola. Il disastro economico si faceva di giorno in giorno più grave; così, allo scadere del mandato di Fabio Massimo prevalse l’opinione dei senatori che intendevano affrontare subito il nemico per mettere fine all’occupazione militare della penisola.

Terre, mari, idee - volume 1
Terre, mari, idee - volume 1
Dalla preistoria alla crisi di Roma repubblicana